Definizione
Cura è parola che ha alle spalle un lungo e fecondo tracciato filosofico, la cui radice ku=kau-kav rinvia all’” osservare, guardare”. Se scandagliamo più a fondo questa parola, ci accorgiamo che essa indica un osservare attento, premuroso, vigile, una sorta di inquieta preoccupazione.
La cura costituisce l’atto inaugurante della vita, la forma che diamo al tempo dell’esistenza, il modo in cui facciamo presa, custodendola, sulla realtà in base alla nostra vocazione, al nostro carattere. Non a caso, carattere, come suggerisce il greco charassein, significa “incidere, imprimere, scavare”. Dunque, l’uomo incide nella vita la sua forma e se ne prende, appunto, cura, vigila con passionale attenzione su di essa. A questa stringente logica dell’umano, riconduce anche la premurosa vigilanza reclamata dal patrimonio culturale.
Note integrative
La cura annuncia sempre un paesaggio multiforme e complesso, dall’aver cura di sé alla cura degli altri, dal prendersi cura al posto dell’altro, al prendersi cura affinché l’altro radichi e testimoni la propria irriducibile forma nel mondo. E ancora, dall’aver cura degli oggetti, gli utensili, con cui definire, dare un nome, progettare le cose, alla relazione con l’alterità cui essi sempre rinviano.
Queste diverse configurazioni della cura, tuttavia, non sono mai disgiunte tra loro, poiché abitano la complessità che specifica i viventi, in cui le parti sono sempre in relazione tra loro. Se le opposizioni perdono il loro rapporto vivente, la loro reciprocità, perdiamo la potenza dell’unità, il senso complessivo, sempre aperto, sempre rinnovantesi, che attribuiamo alle cose.
La cura è costitutiva dell’umano, nella misura in cui riconduce a unità di senso, per quanto umanamente precaria, le diverse articolazioni della vita. Essa si struttura sulla base delle fondamentali categorie dell’essere: quantità, qualità, misura. Ci prendiamo cura dell’essere in base alla sua consistenza (quantità), gli attribuiamo un valore (qualità), gli diamo una direzione di senso che contempli la presenza sulla scena umana di altre realtà (misura).
La cura di sé, il governo di sé, le tecnologie del sé, si fanno pratica comunitaria secondo una duplice dialettica: coltivare e custodire. Il coltivare indica il progettare la propria vita, secondo calcolo, previsione, misura: dalla sincerità della fame e della sete con cui soddisfiamo i nostri bisogni prendendo le distanze, ergendoci come soggetti, rispetto a quel tutto indifferenziato con cui il mondo si annuncia agli umani, fino alla progettazione di utensili con cui dare forma e orientamento alla realtà, nel segno di una inquieta, premurosa preoccupazione. Tuttavia, il coltivare, poiché l’uomo è relazione originaria, richiama sempre il custodire, la cura dell’altro, il quale irrompe come dismisura sulla nostra scena umana autocentrata e misurata. L’altro, infatti, non è perimetratile, misurabile, calcolabile, semmai è inaggirabile, innumerabile, ingovernabile. L’altro sfugge a ogni nostra presa, a ogni nostro gesto, a ogni nostra postura, poiché la sua singolarità è senza fondo, è un segreto infinito, un ‘eccedenza che dandosi si ritrae.
Questa dialettica immediata tra progetto e alterità intercetta nella cura il suo atto costitutivo: nel momento in cui curo il mio progetto, esso, immediatamente, rinvia alla presenza dell’altro, a una comunità di singolarità intangibili, improfanabili, su cui ognuno è chiamato a esercitare una premurosa vigilanza. Si delinea così una comunità in cui le diverse pluralità condividono un patrimonio di vita. Condividere un patrimonio di vita, significa fare del patrimonio culturale, in cui la vita riecheggia, una presenza aperta e disponibile al contributo di ogni singolarità, per questo degno di una cura ininterrotta.
Il patrimonio culturale fermenta e dà frutto a patto che sia fecondato dalla memoria e dall’attenzione. La memoria come luogo della rammemorazione di un vincolo, di un’estrema fedeltà a un vincolo, le tracce che ci sono state consegnate, che reclamano testimonianza, eredità, creatività continuativa; l’attenzione come concentrazione e preghiera. Attenzione in greco si dice prosokè, proseukè indica la preghiera: si tratta di una forma premurosa di accoglienza del mondo, di un gesto di gratitudine, di un rendere grazie alla sovrabbondanza della vita.
La cura del patrimonio culturale è gesto etico, poiché voci dell’etica sono fedeltà e gratitudine. E’ fedeltà e gratitudine a ogni singolarità che, nella sua intraducibile unicità, ci ha lasciato in eredità un mondo di idee, di cose, di carne, di sangue, che ci ingiunge di non lasciarlo precipitare prima che il suo cammino sia compiuto, di non capovolgerlo senza lasciarne in vita le tracce originarie come lievito, comunque, della possibilità di quello stesso capovolgimento. Le tracce, infatti, non abitano la staticità, semmai la dinamicità: sono le leve con cui alzare nuovi mondi, spalancare scenari inauguranti la vita, perpetuare la meravigliosa vulnerabilità dell’umano.
In questo contesto, la stessa cultura digitale si fa estetica dell’esistenza, poetica del mondo, poiché contribuisce a creare le condizioni per una sempre più incisiva pratica conservativa e di cura del patrimonio culturale. Viviamo in una realtà ormai ibrida, di organica contaminazione uomo-dispositivo tecnologico, su cui esercitare una riflessione lucida, senza perniciosi ideologismi, ponendoci le domande corrette. La cultura è stata tra le prime ad adattarsi in senso attivo alla digitalizzazione del mondo, stabilendo nuove forme nell’interazione con il cosiddetto utente. Stabilendo nuovi spazi di apprendimento, essa ha la possibilità di intercettare soprattutto, ma non solo, le generazioni più giovani, creando i presupposti per l’edificazione di una comunità attiva, aperta, vitale, in cui tutti sono chiamati ad avere cura delle tracce e dei progetti, poiché essi rinviano, sempre e innanzitutto, all’altro, alla sua immisurabile singolarità.
Diffondere e rendere partecipativo un patrimonio culturale, significa porsi con gratitudine e speranza nei confronti delle singolarità che lo hanno abitato, che lo abiteranno. E poiché le singolarità sono estrema vulnerabilità, umanissima finitezza, e nel contempo creatività che rilancia sé stessa nelle pratiche comunitarie, occorre nei loro confronti una postura delicatissima. La cartografia di questa postura rimanda all’esitazione, all’arretrare, all’indugiare, al rispetto, al pudore, a un intrattenersi che non è mai un trattenere, un ghermire, un possedere.
Ecco perché, la cultura digitale, alimentata da un’antropologia del gesti, si può fare veramente poetica del mondo, estetica della vita. In questo modo, forse l’unico, si impedirà al deserto di avanzare e di far fiorire la vita anche là ove non la si aspettava più.