Definizione
La “comunità patrimoniale” è un insieme di persone che attribuiscono valore a tratti particolari e identificativi del patrimonio culturale che si ritengono rilevanti e si impegnano, nel quadro di un’azione pubblica, a sostenere e trasmettere i contenuti e le espressioni patrimoniali alle generazioni future.
L’appartenenza a una comunità patrimoniale è, pertanto, connessa con il fatto che tutte le persone che ne fanno parte riconoscano un valore al patrimonio culturale che esse stesse hanno contribuito a definire e salvaguardare. In ragione di questo valore riconosciuto del patrimonio culturale, materiale, ambientale e immateriale, le comunità patrimoniali si impegnano a rappresentarlo, trasmetterlo e valorizzarlo fuori da logiche discriminatorie o selettive su base etnica, di ceto o di appartenenza geografica con tutte le forme espressive e i canali comunicativi che sono nelle loro disponibilità, ivi comprese le più avanzate e performative tecnologie digitali.
Ogni “comunità patrimoniale” afferisce a uno speciale “ambiente culturale”, ma non è esclusiva. Si basa su processi trasversali e partecipativi e sostiene con fermezza il diritto al patrimonio culturale e alla partecipazione alla vita culturale della comunità come parte di un processo di piena realizzazione dei diritti fondamentali dell’uomo e in vista della costruzione di un comune e condiviso patrimonio culturale.
Note integrative
Secondo la Convenzione del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società del 2005, meglio conosciuta come Convenzione di Faro, il patrimonio culturale viene a costituirsi come valore intrinseco delle comunità e come valore spendibile nella relazione con altri livelli nazionali e internazionali così come all’interno del mercato della cultura nazionale e sovra-nazionale. Di qui il valore identitario dei patrimoni, così come la loro rilevanza politica e sociale, il ruolo proattivo nelle strategie di sviluppo territoriale contro i rischi di deriva conflittuale e oppositiva tra istanze identitarie e patrimoniali distinte. Non è infrequente, infatti, che le comunità patrimoniali si presentino in opposizione o parzialmente in contrasto con le risoluzioni e le scelte portate avanti dalle istituzioni locali in merito a questioni inerenti la qualità della vita e la tutela dei luoghi: da queste tensioni e conflittualità in merito alle istanze patrimoniali le comunità risultano consolidate e rafforzate nella loro definizione identitaria ed elaborano progetti e interpretazioni del proprio territorio e delle proprie risorse culturali condivise particolarmente dense ed efficaci.
Ciò risalta ancora più nettamente nel caso di comunità storicamente periferiche e marginali, a lungo segnate da una relativa invisibilità pubblica, una soggettività giuridica minacciata e una sostanziale irrilevanza del loro ruolo politico stretto tra “regimi patrimoniali nazionali (heritage regimes)” e “gerarchie globali del valore” (grandi quadri di salvaguardia, valorizzazione, sviluppo e patrimonializzazione internazionale: UNESCO; ICOMOS, UN, FAO, ecc.).
La Convenzione di Faro del 2005 segna una tendenza alla implementazione dell’agency comunitaria nei processi di salvaguardia e valorizzazione dei patrimoni bio-culturali, materiali e immateriali. L’idea di patrimonio come capitale culturale condiviso e come diritto fondamentale dei cittadini procede parallelamente alla responsabilizzazione dei soggetti parte delle heritage communities come diretti portatori e custodi del patrimonio e perciò stesso capillarmente interessati dalle azioni volte alla definizione, interpretazione, disseminazione e valorizzazione dei patrimoni culturali come volano di sviluppo comunitario sostenibile.
Oltre a definire la dimensione culturale, ecologica, economica, sociale e politica e come valore sia in sé che nella chiave dello sviluppo comunitario e delle politiche territoriali dei patrimoni culturali condivisi, a un livello più ampio la convenzione del Consiglio d’Europa indica e sancisce con forza il valore della diversità culturale e il senso dei luoghi come presidio nei confronti di una crescente standardizzazione culturale.
Questa percezione di valore culturale e sociale dei patrimoni comunitari, della natura negoziale dei patrimoni culturali come contesti di dialogo e di composizione alternativa dei conflitti a carattere etnico o religioso, ad esempio, si connette a una rinnovata consapevolezza della dimensione culturale nei conflitti che suggerisce di sviluppare in modo sempre più efficace politiche di dialogo interculturale, dibattito democratico e inclusività culturale.
Si è andato, infatti, definendo per affinamenti progressivi il concetto ampio e multidisciplinare di un comune patrimonio europeo e il diritto fondamentale di ciascuno all’accesso al patrimonio culturale. Un diritto rispettoso dei diritti e delle libertà degli altri che si accompagna al mutuo rispetto tra le diverse culture tradizionali europee. Tutto ciò prepara e fa da sfondo a un uso dei saperi e delle abilità apprese e trasmesse come risorse per lo sviluppo e impegna gli Stati membri in un approccio community-based e partecipativo alla cura del patrimonio culturale.
La nozione di “common heritage of Europe” (art. 3), dunque, si definisce attraverso successivi documenti così come le nozioni di “diritto al patrimonio culturale” (art. 4) e di “diritto di partecipazione alla vita culturale della comunità” (art. 1). Conservare questo molteplice patrimonio culturale significa riconoscerne il valore intrinseco come investimento per il futuro che ne può derivare.
I valori culturali trasmessi sono cruciali per la definizione di una identità territoriale così come per la caratterizzazione dei paesaggi e più generalmente per la dimensione ambientale del patrimonio culturale. Proprio questo tratto di sinergia bio-culturale distingue la Convenzione di Faro da tutte le altre convenzioni del Consiglio d’Europa e dalle precedenti Convenzioni UNESCO aprendo alla nozione di “ambiente culturale (cultural environment)” e di “comunità patrimoniali (heritage communities)” la cui vita culturale viene rappresentata come una “geometria variabile” (art. 2b) che si distingue nettamente da ogni definizione statica, essenzialista ed etnica delle comunità, puntando piuttosto sul dialogo, la qualità della vita, la coesione, la concettualizzazione dei territori come luoghi di incontro tra culture e per tutti gli attori sociali in campo, il senso di responsabilità e inclusività. Proprio sullo sfondo di questo approccio rinnovato alla condivisione del patrimonio culturale, si definisce una riflessione in merito al suo uso sostenibile, l’integrità dei valori multidimensionali del patrimonio compresi quelli potenzialmente oggetto di contestazioni e conflittualità. Il centro della Convenzione di Faro viene così definito nel nesso tra sapere, tecnica e pratiche culturali rispetto al quale i diversi Stati nazionali possono svolgere il ruolo di formatori e fornitori di beni e servizi, provvedendo una base per le attività di tipo economico, ma anche e soprattutto la cornice di un’appartenenza geografica e culturale a media risoluzione tra la località e le grandi cornici globali del valore.
Per ciò che specificamente concerne l’intreccio tra piena attuazione di un programma di empowerment e responsabilizzazione delle comunità patrimoniali e tecnologia, piattaforme e archivi digitali dei patrimoni, solo in parte possono soccorrerci gli studi svolti in precedenza sull’interazione tra media – generalisti e non – e definizione plastica, negoziale e critica delle identità culturali così come gli interessanti approfondimenti sui media cosiddetti ‘indigeni’, ossia quei canali televisivi, radiofonici e poi, successivamente via web, realizzati e dedicati interamente a particolari minoranze etnico-linguistiche che rappresentano un laboratorio particolarmente interessante della definizione di un patrimonio culturale attraverso le rappresentazioni mediatiche.
Con la progressiva globalizzazione delle cornici di patrimonializzazione i contenuti condivisi da una data comunità vengono resi pubblici e la selezione di ciò che finisce per essere comunicato, disseminato, archiviato diviene uno degli esercizi determinanti, potremmo dire, della definizione di una identità collettiva digitale e al tempo stesso profondamente materiale. Il tema della pubblicizzazione dei contenuti e dei valori condivisi di una comunità porta con sé, inoltre, l’altra, altrettanto cruciale questione della loro mercificazione e reificazione, come ‘oggetti culturali’ definiti e distinti dal resto perché speciali, eccellenti, rilevanti, caratterizzanti e perciò stesso trasformati in beni di consumo pronti ad essere maneggiati e scambiati nell’orizzonte ambivalente del mercato culturale e turistico.
Accanto a portali, pertanto, che introducono a luoghi, spazi e territori condivisi, troviamo un’infinità di siti virtuali dedicati a pratiche (feste, tecniche di produzione di particolari prodotti artigianali o di cibo e alimenti, musiche, poesie, danze, saperi mistici e sapienziali, tecniche del corpo, ecc.) che ci costringono a interrogarci su cosa debba intendersi per ‘tradizione’ e cultura locale e ad analizzare i canoni estetici e ideologici entro i quali tali rappresentazioni virtuali sono costruite e proiettate sulla sfera pubblica globale oltre che ad analizzare le aspettative che rispetto a questa pubblicizzazione dei patrimoni culturali sul Web fa crescere nelle comunità.
Un’altra questione cruciale è, come ovvio, rappresentata dalla gestione materiale e ‘politica’ per così dire di tale messa in forma virtuale dei contenuti patrimoniali: chi se ne fa protagonista, chi la coordina, chi decide e attraverso quali strumenti e piattaforme e con quali finalità. In una parola chi controlla la narrazione e la rappresentazione e ne definisce finalità e obiettivi. Il trattamento digitale dei patrimoni, la natura ‘born digital’ di alcuni di essi propongono una nuova centralità delle rappresentazioni, sollevando nodi metodologici problematici e teorici di grande valore: quello della prossimità e del senso di coesione e condivisione, quello dei processi di negoziazione e mediazione che hanno accresciuto il senso di partecipazione collettiva all’identità locale, la definizione di uno scenario per attori locali e sovralocali, per i poteri istituzionali, le aspettative e i desideri dei territori tra globalizzazione e partecipazione locale.
Soprattutto, diventa rilevante in modo crescente distinguere tra analisi dei contenuti della comunicazione e cornici mediatiche e di trasmissione e disseminazione in cui tali contenuti vengono presentati e documentati. Tra attesa e incertezza – specie in questo tempo speciale -, le comunità patrimoniali si pongono domande cruciali sul rischio di marginalità e obsolescenza dei custodi di tradizioni e saperi e più in generale delle comunità titolari dei patrimoni culturali locali utilizzandoli come elemento di rafforzamento nel fragile spazio della crisi. Ancora una volta la questione sembra dipendere da chi detiene il controllo dei canali di codificazione e disseminazione culturale.
Per l’ennesima volta siamo dinanzi al complesso intreccio tra voci narranti e “muti della storia”.