Intervista a Letizia Bindi, Università degli Studi del Molise
Cosa si intende con il concetto di “territori digitali”? Cosa prevede tale concetto nell’ottica di sviluppo e gestione del Sociale?
La nozione di ‘territori digitali’ si riferisce almeno a tre ambiti e scale di risoluzione:
- La digitalizzazione crescente dei territori nella pratica concreta e quotidiana;
- L’apertura di campi del sapere connessa alla concettualizzazione dei nuovi ambienti digitali (territori ‘born digital’) e alla loro relazione con lo sviluppo delle AI;
- Le sfere pubbliche digitali come nuovo spazio di interazione sociale e politica e come flusso di big data.
Quali strumenti di analisi ed indagine del territorio vengono adottati nell’ambito del digitale? E come questi influiscono sulle nostre coscienze e conoscenze pregresse?
Esistono vari tipi di indagine etnografica sul digitale, gli algoritmi, le intelligenze artificiali, le learning / moral machines: virtual ethnography, NETnography, digital cultures, virtual communities, ecc. Questa analisi etnografica dei contesti digitali e dei flussi di big data contribuisce alla comprensione intuitiva dei comportamenti, alla raccolta e sistematizzazione di piccoli dati – dati etnografici raccolti sul campo – minuti, dettagliati, idiografici. Al tempo stesso l’analisi delle reiterazioni e dei comportamenti adottati nei confronti delle conoscenze e delle pratiche digitali aiuta a identificare modelli e a dare forma e rappresentazione alla ‘realtà’, pur in mezzo a molti dati grezzi, non strutturati. In genere questo sforzo di organizzazione e interpretazione dei big data attraverso un approccio di tipo etnografico mira alla elaborazione di nozioni predittive, ma anche a una forte attenzione alla dipendenza e sensibilità ai contesti e ambienti di produzione e circolazione dei dati stessi che in larga parte finiscono per essere responsabili del cambiamento delle conoscenze e dei saperi sui diversi fenomeni. (Kozinet, Charles – Gherman 2016)
Bisogna comunque tener presenti le criticità dell’incessante sviluppo mediatico e dell’informazione illimitata veicolata dalla Rete che, indiscutibilmente, influenzano la vita dei singoli e dei gruppi sociali.
Una certa critica alla diffusa presenza del monitoraggio e del digital mapping spinge a pensare a un nuovo paradigma ‘micro-politico’ all’opera nel sistema di comunicazione e codifica dei big data e degli algoritmi: l’idea di un nuovo ‘panòptikon’ – la metafora ripresa dal lavoro di Michel Foucault, Sorvegliare e punire in cui si analizzava il paradigma carcerario come metafora di ogni istituzione totale e costrittiva in cui si è costantemente osservati, monitorati, tracciati. In questo caso, ciò cui si fa riferimento è un panòptikon digitale, come emerge dalle indagini di Report, da vari studi di gruppi di ricerca sulla privacy e le molteplici forme della sua violazione, ecc.
Al tempo stesso si assottigliano sempre più i confini tra tempo libero e tempo di lavoro (smartworking, digital sociability, relazioni a distanza, multitasking, ecc.) che va di pari passo con una certa fluidità tra gli spazi pubblici e la sfera privata e una crescente difficoltà a gestire e separare i tempi e le forme di relazione professionale da quelle affettive e familiari. Si diffondono in modo crescente dei ‘generi confusi’, una diffusa gamification dell’offerta culturale, l’idea di un potenziale di informazione illimitato che fa poco i conti con i poteri che stanno alla base del funzionamento stesso delle piattaforme informative e comunicative e della circolazione e gestione dei grandi flussi di dati. Si aggiunge a ciò una sostanziale indifferenza ai temi etici che si nascondono sullo sfondo dell’uso intensivo dei social network e dei dati digitali e sensibili: l’accrescersi esponenziale di una violenza comunicativa diffusa, di hate speech e body shaming sul web e sulla esponenziale tendenza verso una cancel culture, che in gradi diversi risentono però dello stesso orizzonte estetico e culturale.
Alla luce di quanto detto, possiamo rintracciare anche delle implicazioni etiche relative alle modalità di funzionamento dei dispositivi digitali e dei loro algoritmi?
- Le ‘digilanze’ – vigilanze digitali – hanno evidentemente implicazioni etiche connesse ai dispositivi digitali di controllo e security: i patterns – i modelli di lettura e interpretazione forniti dalla rete e dalle learning / moral machines – che in alcuni casi si trasformano in ‘pre-giudizi’, in forme nuove di sicurezza e controllo, di crescente limitazione degli spazi di autonomia di scelta e in ordini di distinzione sociale e conflittualità potenziale sempre più alti (Niezen 2020).
In tal senso, si può rintracciare anche una sottesa “manovra politica”?
- I ‘minority report’ sono frequenti negli ambienti digitali: rischi di pregiudizi etnici, razziali, di genere, di orientamento, predizioni di devianze, a loro volta performativi nei gruppi. Chi immette i dati, chi imposta e programma le learning machines? Cosa viene chiesto alle AI e alle moral machines? Scegliere per noi? Fare il ‘lavoro sporco’? Formulare idee predittive sulle realtà che ovviamente creano a loro volta pregiudizi e idee preformate sulle situazioni e le reazioni sociali. Ciò che appare una tecnicalità in realtà si traduce in forte elemento politico cui opporsi con forme altrettanto tecnologiche di reazione e resistenza digitale (hackers, digital terrorism, nuovi anarchismi digitali) – che tende a smontare le categorie condizionanti degli algoritmi (O’Neil 2017; Amoore L. 2020).
Tuttavia, quali sono i maggiori vantaggi derivati dal crescente sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT)?
Se pensiamo alla ricaduta molto concreta nella progettazione e nel monitoraggio attraverso le ICT degli spazi di vita, produzione e socialità, possiamo notare che i temi in campo sono: la creazione di un ‘ecosistema’ produttivo di innovazione; il consolidamento di infrastrutture digitali volte a digital economy / innovative economy; smart cities; network society; amministrazione digitale efficiente.
Al tempo stesso si accrescono spazi digitali per l’esercizio della legalità, lo scambio di competenze e rircerca, il potenziale dell’interdisciplinare, l’innovazione economica e produttiva e una governance intelligente e maggiormente inclusiva, capace di incidere più capillarmente sui territori, anche quelli più marginali e periferici.
Un esempio specifico relativo al nostro quotidiano?
Tra gli esempi eccellenti e maggiormente contemporanei di questa performatività delle AI nella gestione delle comunità e dei territori è senza dubbio quella della gestione della sanità pubblica: gestione più sapiente e coordinata delle emergenze sanitarie, evitazione degli sprechi e ottimizzazione gestionale, coordinamento e controllo più efficiente dei dati condivisi in repositories usati solo al fine di rendere più efficiente il sistema di cura.
Le ICT hanno un ruolo anche nei processi di cooperazione allo sviluppo e di integrazione sociale?
Accanto al tema della salute pubblica, riscontriamo un altro ambito eccellente che di recente sta entrando nel cuore dell’interazione tra digitale e sviluppo dei territori specie nel contesto della progettazione della cooperazione allo sviluppo e delle grandi agende globali orientante al raggiungimento dei millennium goals. Assistiamo così alla diffusione delle ICT nei processi di sviluppo sostenibile, nell’apprendimento e uso dei digital skills da parte di soggetti appartenenti a minoranze etniche e culturali e alla loro crescente essenzializzazione. Al tempo stesso non bisogna trascurare l’illusione – su cui si tornerà in seguito – dell’ampliamento indiscriminato della base democratica dovuto alla prossimità degli strumenti digitali e alla possibilità di esprimersi direttamente sulle piattaforme (si pensi recentemente all’ambivalente vicenda della piattaforma Rousseau e quello che ha rappresentato prima in termini di retoriche della democrazia partecipazionista diretta e dopo della detenzione e controllo ricattatorio, quasi, dei dati). Nei processi di cooperazione allo sviluppo sicuramente le AI e i canali virtuali hanno permesso e permettono l’accorciamento delle reti di distribuzione e l’avvicinamento dei piccoli produttori rurali ai mercati urbani e metropolitani, così come la possibilità per le componenti più appartate, marginali e frammentarie di accrescere le proprie reti e le opportunità di cooperazione, advocacy e auto-organizzazione.
Quindi, si può parlare di un ruolo specifico del digitale e degli strumenti mediatici nella rappresentazione delle individualità culturali e nel processo di storicizzazione delle diverse culture?
Un primo passaggio in questo senso è stato rappresentato sicuramente dalla diffusione negli scorsi due decenni di esperienze e casi eminenti di media indigeni (general media e new media) agganciati a processi di riconoscimento dei diritti e della consistenza delle minoranze, alle politiche del riconoscimento osservate e analizzate dai Native / Indigenous Studies. Questo tipo di lavoro critico sulla rivendicazione di autonomia e differenza come dato di valorizzazione delle specificità culturali ha intrecciato ad esempio l’uso del digitale e il dibattito post-coloniale.
Oggi assistiamo in tal senso a una diffusione indiscriminata dello storytelling che dai nuovi media ha finito negli ultimi anni per conquistare anche la televisione generalista, la documentaristica, il cinema (si pensi allo scalpore iniziale dello stile immersivo di ‘the blair witch project”: esperimento cinematograficamente modesto, e oggi ampiamente oltrepassato dai film interattivi, col finale multiplo, illusori miraggi di partecipazione dell’audience all’opera creativa).
Nel complesso una tendenza alla compartimentazione minoritaria dei canali comunicativi che incrocia le tendenze più recenti della Tv on demand e della crescente segmentazione dell’offerta comunicativa in targets sempre più specifici.
Come possiamo intendere l’arte e i processi creativi nel nuovo mondo del digitale?
Un altro tema sicuramente fecondo della plasmazione digitale dei comportamenti sociali e dei territori e inoltre particolarmente sensibile e sollecitabile in termini di limiti e vincoli della proprietà culturale è quello della creatività digitale intesa non solo come ‘arti digitali’, ma anche come l’insieme delle messe in forma digitali dell’arte che potremmo definire, giocando con i titoli classici, ‘l’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità digitale’.
Si tratta di un tema non marginale sia per la consistenza economica e sociale che riveste con le sue infinite applicazioni all’ambito dell’intrattenimento, del gioco, della pubblicità e dell’advertising, sia perché spinge a ragionare sui limiti della definizione di arte e di performance. Impone un ripensamento radicale dell’idea di circolazione degli artisti e della commercializzazione dei loro prodotti (basti pensare nel giro di pochi anni alla fine o quasi dei supporti materiali, alla smaterializzazione e digitalizzazione totale del mercato della musica, ad esempio, e più recentemente – con la pandemia, al digital transfer – sofferto ma pur avallato dalle grandi nuove potenze della produzione mediatica – del cinema, dei live concerts, con una conseguente marginalizzazione di arti più strettamente connesse alla spazialità e compresenza come il teatro o la performance tradizionale, i patrimoni immateriali del festivo e del cerimoniale. Al tempo stesso nell’ambito artistico digitale si sono diffuse sempre più sperimentazioni di land art e digital art in una crescente contaminazione tra creatività digitale e progettazione territoriale, rendering, immaginazione architettonica, urban planning (Johns 2016).
Quali possono essere i punti critici su cui riflettere circa l’uso delle piattaforme digitali come spazi di partecipazione attiva e “democratica” di ogni singolo cittadino alla “res pubblica”?
Accanto a queste opportunità e confini ampliati della sperimentazione e dell’avanguardia rappresentati dall’applicazione delle ICT a vari ambiti dell’intervento pubblico e del comportamento situato e collettivo, si diffonde attraverso la diffusione crescente dell’uso delle ICT nei vari ambiti di governance e decision-making l’idea di una cittadinanza attiva e della possibilità quasi illimitata di partecipazione ai processi decisionali che si legherebbe inscindibilmente alla progressiva crescita di spazi digitali di confronto e di espressione (pervasività e progressiva irrilevanza dei sondaggi, class actions digitali, moltiplicazioni di petizioni pubbliche via piattaforma). Al tempo stesso la diffusione crescente dello storytelling, delle narrative e creazioni ‘dal basso’, il moltiplicarsi del co-working e della condivisione di esperienze suggerisce e rinvia alla rete come spazio e ambiente complesso di interpretazione dei territori e delle comunità locali (si pensi ai repositories digitali di comunità, agli inventari partecipativi, agli ecomusei e alle loro tracce digitali). In questo spazio apparentemente libero, aperto e orizzontale che risente della facile e originaria lettura della rete come nuova ‘agorà’ digitale, resta difficile leggere e monitorare le forme anche sottili di mercificazione dello spazio pubblico, dei network users, dei followers e della loro manipolazione e commercializzazione dei loro dati (letteralmente vendita di pacchetti di followers e supporters di pagine di politici e movimenti) (AI Now 2018).
… e la “legge del mercato”, oramai imperante nella nostra cultura, come si inserisce in questo processo di sviluppo del digitale che favorisce un’indiscriminata possibilità di espressione e visibilità?
A questo ambiente digitale fratto e complesso si affiancano elementi che impongono di riflettere sul rischio di illusioni digitali e di retoriche partecipazioniste che intrecciano rapporti tra patrimoni, mercati e turismo. Le comunità si raccontano, le minoranze attestano la loro presenza nello spazio pubblico attraverso l’esercizio della testimonianza e occupando spazi di rappresentazione digitale crescenti, creazione di nicchie di tipo etno-culturale. In questo senso la digitalizzazione rende prossime le diversità, le esalta e le rende appetibili e orientate quasi in modo crescente a logiche del mercato.
Qual è invece in tal senso il ruolo della ricerca informatica e statistica?
La ricerca ha ovviamente un ruolo importante nell’interpretazione critica dei dati e degli analisti dei dati digitali. Se come da più parte viene sostenuto i big data hanno necessità per essere letti e interpretati correttamente di dati densi (thick). Mentre i primi – i big data – sono basati su learning machines e grandi flussi di informazioni gestiti ed elaborati da macchine, i thick data si basano sulla conoscenza e l’apprendimento analitico umano, approfondiscono il contesto sociale e di contesto e pongono con forza la loro complessità e interdipendenza. (Wang 2016; Thompson 2019).
Questa riflessione sullo sviluppo crescente del mondo digitale non può prescindere da un breve accenno al rapporto tra l’Essere umano e la cosiddetta “intelligenza artificiale”: cosa si intravede nel futuro?
In uno dei suoi più celebri romanzi che è stato poi rielaborato e riformulato nella forma cinematografica, Philip Dick immagina una realtà distopica in cui uomini e replicanti vivono nello stesso contesto e la domanda cruciale sull’esistenza è la maggiore o minore aderenza di uomini e macchine a un ordine di verità. La domanda, solo apparentemente paradossale e ironica “gli androidi sognano pecore elettriche?”, pone al cuore stesso della riflessione la relazione tra realtà e finzione, tra umanità e macchina. Siamo posti, in fondo, dinanzi al gran partage antropologico tra natura e cultura, tra uomo e animale così come tra uomo e macchina: il sentire, il compatire, il riflettere come matrice di ogni soggettività e di ogni agire concreto e virtuale. (Haraway 2008, 2017; Max Plank Inst. 2019, 2020).
L’ateneo del Molise è particolarmente sensibile al tema dei “Territori digitali”. Qual è l’offerta formativa più recente?
Il master “Territori digitali. ICT, comunità patrimoniali e innovazione sociale” è un’offerta formativa che l’Università degli studi del Molise ha pensato di proporre a valere su un bando regionale orientato non a caso alle giovani generazioni e al sostegno alle politiche di rigenerazione territoriale. Si propone attraverso un sapiente incrocio di competenze e metodologie, di casi di studio e di stage formativi di fornire strumenti di riflessione, progettazione condivisa, programmazione e implementazione di strumenti e piattaforme di restituzione e valorizzazione dei patrimoni bioculturali che hanno valore e significato per le comunità locali, specie nel quadro delle comunità di pratica e di eredità che oggi più che mai vengono a costituirsi come nuove soggettività culturali e politiche nel quadro della Convenzione di Faro, recentemente ratificata anche dal Governo italiano. Il Master si avvierà col nuovo anno accademico 2021/22, sarà sostenuto da 25 borse di studio per studenti residenti o domiciliati nella Regione Molise, ma sarà aperto anche a studenti di ogni altra estrazione e provenienza con quote di iscrizione calmierate. L’obiettivo è consolidare questa offerta formativa e farne davvero un volano di sviluppo e rigenerazione territoriale sostenibile e innovativa, capace di inclusione e partecipazione reale delle comunità al progetto di cura e custodia delle risorse culturali e ambientali intese come bene comune.
Bibliografia
AI Now 2018. Litigating algorithms: Challenging government use of algorithmic decision systems. Institute report in collaboration with Center on Race, Inequality, and the Law Electronic Frontier Foundation, September.
Amoore L. 2020. Cloud ethics: Algorithms and the attributes of ourselves and others. Durham: Duke UP.
Baxi, U. 2007. Human rights in a posthuman world: Critical essays. Oxford: Oxford University Press.
Charles, V. and Gherman, T. 2013. Achieving competitive advantage through big data. Strategic implications. Middle-East Journal of Scientific Research, 16(8), 1069-1074.
Hosein, G. & C. Nyst 2013. Aiding surveillance: An exploration of how our development and humanitarian aid initiatives are enabling surveillance in developing countries. Privacy International.
Johns, F. 2016. Global governance through the pairing of list and algorithm. Environment and Planning D: Society and Space 34: 126-149.
Lowrie, I. 2018. Algorithms and automation: An introduction. Cultural Anthropology 33: 349-359
Niezen, R. 2020. #Human rights: The technologies and politics of justice claims in practice. Stanford: Stanford University Press.
O’Neil, C. 2017. Weapons of math destruction: How big data increases inequality and threatens democracy. New York: Broadway Books.
Seaver, N. 2018. What should an anthropology of algorithms do? Cultural Anthropology 33: 375-385.
Shakir, M., M.T. Png & W. Isaac 2020. Decolonial AI: Decolonial theory as sociotechnical foresight in artificial intelligence. Philosophy & Technology 33: 659-684.
Wang T., Big Data needs Thick Data. “Ethnography Matters” 2013
Letizia Bindi has studied at University of Rome “La Sapienza” (Degree and Ph.D), at EHESS in Paris (Diplome d’Etudes Approfondies) and at Johns Hopkins University of Baltimore (US, Maryland). She has teached Cultural and Social Anthropology in many Italian Universities (Rome, Naples, Trieste, Campobasso). She has been Visiting Scholar in various European Universities (Amiens, Valladolid, Barcelona, Sevilla, Katowice-Ciezsyn). She is a member of: SIAC (Italian Society of Anthropologists), EASA (European Association for Social Anthropology), of European Center on Popular Religion (Valladolid) and of the Teachers Committee of Ph.D. Programme of the University of Campobasso. She cooperated from 1991 with RAI (Italian Radio Television). Member of the Editorial Board of “Voci. Human Sciences Review”. In 2009 winner of the Tanturri Foundation Prix for Anthropological and Popular Traditions Studies. In 2018 she obtained as Principal Coordinator the Erasmus Caapacity Building Project ‘EARTH – Education, Agriculture, Resources for Territories and Heritage’ with 12 partners from France, Spain, Argentina, Paraguay and Bolivia and of the Italo-Argentinian Project of Research “TraPP. Trashumancia y Pastoralismo como elementos del Patrimonio Inmaterial” (supported by CUIA/CONICET). She is the Director of the Research Centre ‘BIOCULT’ on Bio-culltural heritage and local development of University of Molise.