Intervista a Sonia Massari (*) a cura di Mario Fois
Rispetto alle metodologie utilizzate nel campo del design cosa pensi del ruolo di Design Thinking e Design dei sistemi? pensi siano in qualche modo integrabili o costituiscono due alternative incompatibili?
Difficile distinguere il design dei sistemi dal concetto di progettazione e di design in generale. Quando incontro designer inesperti, come i nostri studenti, c’è una cosa che salta sempre all’occhio del loro modo di pensare. Il fatto che molto spesso non pensino secondo un approccio sistemico. Non riflettono ed evolvono il progetto di design come un ‘sistema di design’. Spesso non valorizzano le interconnessioni presenti nelle loro scelte progettuali. Risolvono i problemi singolarmente, non nel loro insieme.
Ape Lupino, mappa progettuale, corso ‘Scenari della sostenibilità’, 2022-23
Per gli studenti, ancora prima di design dei sistemi o di Design Thinking, dovremmo parlare di capacità di sviluppare un pensiero sistemico perché se questo manca è impossibile lo sviluppo dei progetti significativi che essi sognano di realizzare. Non ti nascondo che questo mi preoccupa un po’, perché le competenze e gli strumenti possono essere insegnati, ma quello che trovo veramente difficile è riuscire a fare adottare un modo di pensare corretto. Più volte ho sostenuto che il pensiero sistemico va a braccetto col pensiero creativo e l’approccio critico. Molto spesso però la formazione contemporanea per il design è carente rispetto a questo aspetto.
La vulgata riscontrabile sul web definisce il pensiero sistemico come la capacità o l’abilità di risolvere problemi in all’interno dei sistemi complessi. Nel campo applicativo è stato definita sia come un’abilità specifica che come una forma di consapevolezza. Il pensiero sistemico può riguardare micro o macro sistemi: l’universo, il nostro pianeta, una comunità locale, un’organizzazione, l’ecosistema di una famiglia, un prodotto, un servizio, ma anche solo parte di essi. Non è tanto la grandezza che definisce l’identità di un sistema complesso, quanto la relazione tra le parti, l’imprevedibilità dei domini e la possibilità di individuare all’interno dei sistemi delle opportunità e degli agenti di cambiamento.
Ecco perché credo che il pensiero sistemico sia un approccio, uno strumento, un modo di lavorare, un mindset, una metodologia e non ultimo, una forma di consapevolezza.
Ape Lupino, copertina, corso ‘Scenari della sostenibilità’, 2022-23
Il Design Thinking? Forse è un modo “riduzionista” di vedere il sistema: nel DT c’è quasi la convinzione (o forse dovrei dire la speranza) che la complessità possa essere ridotta alle singole parti e che quindi sia possibile acquisire la conoscenza del sistema attraverso la comprensione degli elementi che lo compongono.
Ho a lungo studiato le tecniche di Design Thinking e ho avuto l’opportunità di insegnarlo sia in facoltà di design che in contesti e settori imprenditoriali (dalle facoltà di Economia e Marketing di diverse Università, alle aziende che hanno scelto il DT come metodologia per l’innovazione di prodotto).
In conclusione penso che i due approcci non siano incompatibili perché in realtà significano due cose diverse. Mettiamola cosi: il Design dei sistemi è il modo di pensare che un designer dovrebbe imparare a pensare per essere un bravo designer; il Design Thinking è l’approccio adatto a tutti coloro che non sono designer ma che “potrebbero” imparare a pensare come loro.
Dico “potrebbero” perché come per il design, c’è “buon” e “cattivo” Design Thinking, quindi dipende da come viene applicato.
Pensi che sussistano difficoltà nell’applicare il Design dei sistemi, che deriva da teorie scientifiche, alla pratica professionale?
Credo che il concetto di Design dei sistemi faccia parte delle teorie e delle pratiche del design fin dagli albori di questa disciplina. Quello che colpisce è che l’interesse sia aumentato in questi ultimi anni, soprattutto perché è aumentata la consapevolezza rispetto alle criticità, alle complessità e alle incertezze che stiamo vivendo. Questo sia a livello planetario (penso al clima, all’economia, alle dinamiche sociali) che a livello organizzativo.
Applicare il pensiero sistemico richiede al designer la padronanza di un gran numero di idee e tecniche correlate, la maggior parte delle quali non sono particolarmente utili da sole. Al designer la teoria piace solo se può essere applicata, provata, testata, nel breve e nel lungo termine. E quanto è più facile applicare anche parzialmente una teoria, tanto più è probabile che lo faccia.
Il “Design Thinking” dall’altra parte tende a favorire il proliferare di toolkit, di cassette per gli attrezzi e di aspetti normativi. Termini che sembrano un po’ in contrasto con quello che ho detto sopra sul design.
Credo che nel futuro dovremmo concentrarci sulla costruzione e sulla definizione metodologica di una serie di metodi e tecniche, molti dei quali tratti da varie pratiche di progettazione già esistenti, che sono applicabili ai più svariati domini e ai problemi. La ricerca dovrebbe andare verso la contaminazione di settori non ancora esplorati, creando “scaffolding” , ovvero impalcature di conoscenza e di apprendimento intellettuale, che possano veramente fare la differenza.
Coinvolgere una comunità molto più ampia nella condivisione delle conoscenze, fornirà a chi progetta maggiori scenari di test e un portfolio di conoscenze in continua crescita. Credo che se saremo in grado di costruire questo nuovo contesto, ogni Design Thinker o System Thinker farà ciò che abbiamo imparato a fare noi designer nel tempo: ovvero adottare i metodi, le tecniche e le idee che meglio si adattano al nostro stile personale e alla natura dei problemi che incontriamo. Alla fine, piuttosto che imparare e adottare una teoria o un modello di design, per i designer che saranno in grado di adattare le proprie conoscenze alle diverse circostanze, aumenteranno le opportunità di affermazione nelle nuove professioni. Un esempio? Il Food System Design, risultato della transdisciplinarietà degli attori, un approccio ad oggi ancora sottovalutato e poco compreso, sia a livello accademico, che nel job market.
BigMama, corso ‘Scenari della sostenibilità’
A giorno d’oggi tutti i progettisti utilizzano tendenzialmente gli stessi software e hanno a disposizione gli stessi schemi e canvas per creare i loro progetti. Quale può essere la chiave per scardinare il conformismo e consentire l’emergere di soluzioni innovative?
Credo che software, schemi e canvas siano strumenti e non siano lo scopo. E tantomeno debbono rappresentare un risultato. La creatività e la capacità del designer sta anche nel saper usare gli strumenti in maniera non convenzionale, ma in modo innovativo e anche provocatoria (se serve).
Il rischio della standardizzazione esiste. Ma come dico agli studenti nel primo giorno di lezione: qui acquisirete tutti le stesse nozioni, gli stessi strumenti, le stesse metodologie… Usciti da qua, il giorno dopo la vostra laurea, sarete tutti competitors. Più “uguali” sarete e meno possibilità avrete di trovare la vostra strada, di creare il vostro successo, di sviluppare il vostro profilo. Usate questi due anni, per imparare più che potete, sfruttate e “spremete” i vostri docenti per raccogliere il maggior numero di modalità e metodologie di lavoro possibili ma fateli vostri, imparando ad usarli in contesti e per problemi diversi. Solo cosi potrete distinguervi e trovare il modo di dare un contributo originale nel campo della progettazione. Non vorrei sembrare riduzionista o attribuire troppe responsabilità agli studenti. Ma credo che per essere innovativi, più che gli strumenti servano delle capacità mentali. E qui torno al pensiero sistemico.
Nella tua esperienza credi che uno studente di design debba diventare in grado di affrontare diversi tipi di attività progettuale e ruoli? Quali sono le principali difficoltà che lo aspetteranno nel mondo del design?
Sono convinta che uno studente di design debba saper affrontare diversi ruoli e attività progettuali. Ai miei tempi Il mio professore diceva sempre: «un designer non è esperto di niente, ma è esperto di complessità, e queste deve saper risolvere». E io non reputo la complessità un problema anzi, la reputo un’opportunità.
Se posso riallacciarmi al discorso sul Design Thinking, una riflessione andrebbe fatta su come prepariamo gli studenti al mercato del lavoro. E voglio citare Natasha Jen, designer americana che durante una importante conferenza di design ha sconvolto tutti con un intervento dal titolo “Design thinking is a bullshit” (il Design Thinking è una stronzata). Ho trovato il suo intervento illuminante e spesso lo faccio ascoltare agli studenti, ma anche ai manager aziendali e agli innovatori. Secondo l’autrice, anche il gergo utilizzato nel Design Thinking (e io aggiungo, nel design in generale), usa terminologie di forte impatto, come co-creazione e co-ideazione, che possono diventare facilmente vuote e astratte se non vengono realmente applicate. Poi esiste l’idea che il design sia un qualche capacità innata che tutti possono liberare con poco sforzo da uno stato di involuzione. Quasi una “creatività” nascosta che tutti hanno e che va semplicemente sbloccata. Questo è falso. Cosa differenzia un creativo da un designer? «È terrificante vedere che il design venga spesso presentato come una specie di bestia che si può liberare e che può attaccare il mondo» – dice sempre l’autrice nel suo intervento – «…e questo significa che spesso si scambia una competenza per una attitudine». La designer conclude con una frase indicativa: «È un po’ come voler diventare un atleta olimpico senza voler essere allenato». E qui sta il punto.
Avere una laurea in design, una specializzazione, un master, e perfino un dottorato (comprensivo di tirocini ed esperienze sul campo, ovviamente), non può essere equiparato al percorso formativo di un corso introduttivo sul design fornito su una piattaforma virtuale. Non nego che ci siano percorsi interessanti sul web, ma il loro scopo è principalmente introduttivo: per capire, per informarsi su un argomento.
Il designer deve essere in grado di pensare, oltre a saper fare, ideare e prototipare. Il designer deve saper connettere, e trovare quello che gli altri non vedono con le loro lenti. Sa trovare lo spazio ancora disponibile, ma spesso nascosto, per la sperimentazione, dove affordance sensomotorie e affordance culturali si sovrappongono. Il designer è empatico, perché deve saper lavorare con tutti. Deve entrare in contesti diversi, capirli, per poi ripensarli, guidando tutti gli altri nel processo immaginativo prima ancora che creativo. Un designer deve saper far ricerca. Ma quanto è capace di farla? Quanto si è allenato a farla? Quanto è capace di capire il mondo, comprendere quello che vede (e capire anche quello che ancora non esiste, perché sarà lui a crearlo)?
Siamo tutti d’accordo che saper progettare non è un’attitudine. Essere progettisti significa saper fare, saper innovare, ma molto spesso non significa essere “innovatori” nel senso che oggi viene spesso dato a questo termine. E questo dovrebbe essere compreso meglio anche dal mercato del lavoro.
Anecoica, tavola delle interazioni, corso ‘Scenari della sostenibilità’
Che futuro vedi per il design, in particolare rispetto ai temi dello sviluppo tecnologico e dell’AI e alle tematiche della sostenibilità? Che ruolo dovrà avere il designer in questo contesto?
A costo di ripetermi, vedo nel futuro del design l’applicazione della sua transdisciplinarietà alla massima potenza. Credo che ci siano ampi margini di applicazione del Design dei sistemi in contesti come quello agricolo e produttivo. Ma anche quelli energetico e della salute. E non solo. L’attrazione per i processi partecipativi e di co-creazione potrebbe essere il motivo per cui discipline e settori lontani dal design inizino ad interessarsi al design, non solo per collaborare, ma anche per costruire nuovi percorsi e modalità di progettazione. Credo fortemente che il design sia un esaltatore del pensiero sistemico, e che oggi questa qualità sia imprescindibile per poter ripensare il mondo in termini di sostenibilità. Anche i designers hanno le loro responsabilità rispetto al mondo insostenibile in cui viviamo oggi.
Ma invece di pensare al designer come un progettista di “tecnologie correttive” e riparatrici, credo che gli artefatti, sia cognitivi che culturali, di cui abbiamo bisogno oggi, richiedano uno sforzo collettivo enorme, in cui il designer potrebbe avere un ruolo cruciale. Servono dei “direttori d’orchestra” ha detto una volta Ezio Manzini. E sono convinta che i designer potrebbero avere questo ruolo. Non solo come innovation brokers ma soprattutto come coordinatori di un lavoro corale e transdisciplinare che non serve a trovare solo nuove idee… ma soprattutto a realizzarle. Come insegna il professor Lorenzoni «non è difficile avere idee, ma è la loro esecuzione che fa la differenza».
Sostenibilità, prosperità, equità e disuguaglianza, ma anche privacy, accessibilità, salute, sono sistemi in difficoltà.
Dobbiamo lavorare affinché ci sia più complicità tra i progettisti, i produttori e i manager dei sistemi in cui conviviamo (politici, economici, ambientali e sociali). Non è cosa semplice e forse la comunità del design non è del tutto preparata a questo compito. Si discute ancora troppo poco sulla natura e sulla necessità di valori che ci aiutino a creare e vivere le nostre vite in modo più sostenibile. È una grande sfida, anche un pò rivoluzionaria, che come educatrice, docente e mentore dei miei studenti, non mi stanco di sottolineare ad ogni lezione, perché credo che il ruolo di noi docenti sia fondamentale.
Sull’intelligenza artificiale non ho ancora un’idea chiara. Credo però che la creatività, intesa come la capacità che ho descritto sopra, sia un’alleata dell’IA e non un competitor. È interessante vedere come la “rivoluzione artificiale”, definizione della collega e amica Alessia Rullo, stia già cambiando il nostro modo di vivere e di lavorare. I cambiamenti digitali sono degli acceleratori dei cambiamenti analogici. Forse ci dovremmo chiedere quali valori stanno ora alla base delle nostre azioni e attività, piuttosto che ragionare sul valore dell’IA nel nostro futuro modo di vivere. È un tema interessante, che abbiamo affrontato spesso con gli studenti e spero che la paura non superi la curiosità.
Migrazioni, frontespizio, corso ‘Scenari della sostenibilità’
Che bilancio fai di 10 anni d’insegnamento all’ISIA di Roma con il corso di ‘Sociologia del cambiamento’?
Sono nel mondo dell’insegnamento da 20 anni. Nel periodo 2013-2023 ho insegnato all’ISIA: festeggio quest’anno un anniversario importante. Seppure 10 anni siano pochi, rispetto a quelli insegnati da tanti miei colleghi nel settore, se li considero in rapporto ai cambiamenti avvenuti negli ultimi 10 anni, pesano parecchio.
Ci tengo a precisare che non sono una sociologa e non mi permetterei mai di insegnare sociologia, secondo i canoni e l’epistemologia che la contraddistinguono come disciplina. Ma sono una ricercatrice, una educatrice, una designer (ai miei tempi si diceva una “designer delle interazioni”). Spero di essere riuscita a trasferire ai miei studenti l’idea che esistono tanti modi di pensare e che il pensiero sistemico sia uno strumento utile e funzionale per comprendere i cambiamenti ma per crearne di nuovi. Da quest’anno il mio corso si chiama “Scenari della Sostenibilità”, titolo che trovo essere molto più azzeccato e in linea con tutto quello che ho insegnato in questo decennio.
Anecoica, tavola dei 5 sensi, corso ‘Scenari della sostenibilità’
Se ci pensiamo è il principio base dell’ecologia. Insegnare ai giovani designer a studiare e a capire le parti del sistema non basta, serve saperle comprendere in quanto unità funzionali, composte da persone, pratiche, valori e tecnologie che, quando interagiscono fra loro, sono in grado di modificare (temporaneamente o permanentemente) un contesto; gli scenari modificati, sia cognitivi che culturali, influiscono sui sistemi presenti, e creano a sua volta nuove unità.
È un principio affascinante e dimostra chiaramente quale sia il ‘super-potere’ del design: quello di poter cambiare le cose. Nei primi anni di insegnamento, presso la sede di Pordenone, ho vissuto la fame di conoscenza dei giovani designer vissuta con un senso di rivalsa. Quasi fosse l’opportunità per fare successo, per essere riconosciuti e diventare qualcuno nel proprio territorio o nella propria area lavorativa. Oggi, vedo nei miei studenti un certo disorientamento. Sarà perché gli studenti di Roma sono più adulti e più vicino al mondo del lavoro, o perché sono stati frastornati dagli ultimi eventi e dalle imprevedibilità del nostro mondo e del nostro modo di vivere. Volendo fare un’affermazione forte, che un giorno vorrei smentire, è come se avessero perso la fiducia nel design come strumento di cambiamento.
Adoro la parola inglese “agency“, che non riesco mai a tradurre bene in italiano. È la capacità di scelta, che racchiude però anche l’azione: la modalità ‘agente di cambiamento’ capace di innescare l’innovazione. Nel mio corso ho sempre cercato di far capire a ragazzi/e che siamo noi a scegliere gli aspetti del mondo a cui prestare attenzione, le cornici, ma anche gli sfondi da applicare per dare un significato agli scenari su cui lavoriamo. Siamo noi che possiamo fare la differenza, ma dobbiamo prima di tutto volerlo. Durante il primo giorno di corso, cosi come all’ultimo, chiedo loro “che contributo volete lasciare al Mondo come designer?”. A questa domanda non mi aspetto una risposta immediata ma vorrei che ci riflettessero ogni qualvolta si troveranno davanti ad una sfida da risolvere.
Come formatori, abbiamo, secondo me, l’arduo compito di insistere, di dimostrare agli studenti che possono scegliere attivamente, anziché limitarsi ad accettare ciò che sembra essere una conclusione pre-determinata. Fargli capire che devono sviluppare una maggior capacità e indipendenza di scelta. E che, come tutte le competenze e le capacità, anche questa può essere allenata. Allenare l'”agency” potrebbe ridare fiducia ai giovani rispetto alle possibilità del design, e far loro comprendere la miriade di possibilità questa professione offre oggi.
ISIA Roma Design, corso ‘Scenari della sostenibilità’ 2022-2023
Sonia Massari, ISIA Roma Design
Sonia Massari ha più di 20 anni di esperienza come educatrice, ricercatrice, consulente e designer nei campi del design dell’interazione uomo-cibo, dell’educazione alla sostenibilità, del design thinking e dei metodi creativi per sistemi agroalimentari innovativi. Attualmente è ricercatrice presso il Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente (PAGE) dell’Università di Pisa e direttore accademico della Future Food Academy (FFI). E’ una delle co-fondatrici di F.O.R.K. Food Design Organization, un’organizzazione internazionale no-profit dedicata al food+design.
Dal 2013 insegna all’ISIA, prima “Sociologia del Mutamento” e ora “Scenari della Sostenibilità” – e ha insegnato “Sustainability Design Thinking” all’Università Roma Tre (dal 2017 al 2022). E’ docente e visiting professor presso diverse università europee e internazionali. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Food Experience Design presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Firenze ed è autrice di oltre 50 pubblicazioni su riviste scientifiche e libri. Il titolo del suo libro è: “Transdisciplinary Case Studies on Design for Food and Sustainability” (pubblicato da Elsevier nel 2021). Per 12 anni ha diretto i programmi di Food Studies dell’Università dell’Illinois Urbana-Champaign a Roma e ha progettato e coordinato più di 50 programmi accademici e 150 attività educative sul cibo e la sostenibilità per prestigiosi istituti e università internazionali. Ha ricevuto l’International Women Innovation Award “Tecno-visionaria” (2012), il NAFSA TLS Knowledge Community’s Innovative Research in International Education Award (2014) e il Food Studies ASFS Pedagogy Award (2020). È membro del comitato editoriale dell’International Journal on Food Design e vice-Presidente dell’ASFS (Association for the Study of Food and Society).