Spirito prometeico, fra scienza, tecnica e arte

a cura di Pino Blasone

Abstract – Can the ancient Greek myth of Prometheus still mean anything, in our technological and digital age? First of all, it is necessary to retrace its literary and artistic fortunes, as well as symbolic implications and philosophical interpretations, from antiquity to modernity. In short, this is what has been done in this article, from the Greeks Aeschylus and Plato to the English Percy Bysshe Shelley and the French Albert Camus or the Italian Cesare Pavese, filling some gaps in historical cultural criticism. Secondly, a few conclusions have been drawn from such a survey. And the main one seems to be that the bound and then freed mythical liberator had not only offered men technology and science, but also art (by the way, the Greek word “téchne” meant both). Instead, today’s split between technique and art may imply subservience to technology. Perhaps, bringing technique and art back on parallel rails of the same track would be a utopian undertaking, not an impossible solution…

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Già nellʼantichità greca, quello di Prometeo era un mito complesso, con differenti versioni o varianti. Una prima formulazione scritta se ne ha nella “Teogonia”, poema mitologico di Esiodo, risalente circa al 700 a. C. Generalmente attribuita a Eschilo e databile intorno alla metà del V sec. a.C., la tragedia “Prometeo incatenato” fu seguita o preceduta attendibilmente da altri drammi dello stesso autore, che non ci sono però pervenuti: “Prometeo portatore del fuoco” e “Prometeo liberato”. Dai greci Eschilo e Platone allʼinglese Percy Bysshe Shelley e al francese Albert Camus, il mito prometeico è stato oggetto di varie interpretazioni letterarie e filosofiche durante la storia della civiltà europea o occidentale. 

Lʼultima frase della tragedia superstite di Eschilo, pronunciata dal titano incatenato, suona contestatrice nei riguardi degli dei olimpici e rivendicatrice di una religiosità secondo natura, benché debitrice verso una percezione arcaica e ctonia della divinità: «O santa madre mia, o tu firmamento che fai ruotare la luce a tutti comune, guarda i torti che io soffro!» Pare che lʼautore ad Atene venisse perfino sottoposto a un processo, accusato di empietà. Quasi la stessa empietà, in effetti, che Eschilo rinfaccia a Prometeo: «Tu non temesti Zeus. Nel tuo pensiero profondo, adori gli uomini». Tuttavia, noi possiamo solo immaginare che cosa fosse scritto nella parte mancante della trilogia. Questo è quanto fece in particolare Shelley, nel dramma in versi “Prometeo liberato” (1820). 

Per la verità, il poema di Shelley fu preceduto da un poemetto preromantico in tedesco, di Johann Wolfgang von Goethe, pubblicato nel 1785 e poi nel 1789. Intitolato semplicemente “Prometeo”, esso doveva a sua volta far parte di un dramma in versi, mai compiuto. Il titanismo nasce nella mente del grande poeta, scrittore e drammaturgo, come non tanto immaginazione di una creatura intermedia fra lʼumanità e la divinità, quanto idealizzazione dellʼuomo stesso, ormai in grado di competere con il ruolo rivestito dalla divinità nellʼimmaginario religioso tradizionale o convenzionale: un ruolo, purtroppo, sovente conservatore e repressivo sia delle capacità di realizzazione razionale che lʼIlluminismo  aveva enucleato, sia di quelle di espressione sentimentale che il Romanticismo stava per rivalutare e valorizzare.

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Probabilmente, lʼinterpretazione più lungimirante e critica del mito sarà quella di Camus nel breve saggio del 1946 “Prometeo agli inferi”, riguardante gli albori della nostra stessa era tecnologica: «Prometeo era lʼeroe che amava tanto gli uomini, da donare loro il fuoco e la libertà, la tecnica e lʼarte. Oggi, lʼumanità ha bisogno e si preoccupa solo della tecnologia. Ci ribelliamo attraverso le nostre macchine, ritenendo lʼarte e ciò che lʼarte implica degli ostacoli e simboli di servitù. Ma ciò che caratterizza Prometeo è che egli non riesce a separare le macchine dallʼarte. Egli crede che sia le anime sia i corpi possano essere liberati contemporaneamente»

In Italia, si possono aggiungere il poeta Giacomo Leopardi, in “La scommessa di Prometeo” (nelle “Operette morali”, 1827) e lo scrittore Cesare Pavese, in “La rupe” (nei “Dialoghi con Leucò”, 1947). Rispetto allʼesaltazione illuministico-romantica dellʼeroe, paladino del progresso umano ed emancipatore dellʼumanità dalla superstizione religiosa, cara a Goethe e a P. B. Shelley, la loro è una poetica del disincanto. Nel caso di Leopardi, anche di una pessimistica ironia o sarcasmo. Se volessimo rispettare un ordine cronologico, potremmo notare come il prosastico racconto leopardiano sembra essere stato scritto in antitesi parodica ai versi di Goethe e di Shelley. Più di un secolo dopo, qualche affinità possiamo invece riscontrare fra il dialogo immaginario di Pavese e il saggio esistenzialista di Camus. Tranne che, per il secondo, il personaggio di Prometeo resta pur sempre un prototipo di “Lʼuomo in rivolta”, titolo di un altro suo importante saggio pubblicato nel 1951. 

I momenti salienti del mito sono stati pure illustrati da più pittori nella storia dellʼarte, specialmente nel periodo barocco e tra la fine del Settecento e la prima metà dellʼOttocente, cioè fra Neoclassicismo e Romanticismo, quando ormai volentieri la nozione di tecnica si associava al concetto acquisito di scienza moderna. Per esempio: Constantin Hansen, danese, “Prometeo crea lʼumanità dalla creta” (collezione privata; ca. 1845); Heinrich Friedrich Füger, tedesco, “Prometeo porta il fuoco allʼumanità” (Museo Liechtenstein, Vaduz-Vienna; 1790?); Luca Giordano, italiano, “[La punizione di] Prometeo” (Museo delle Belle Arti, Budapest; 1660-61); Carl Bloch, danese, “Liberazione di Prometeo” (Ribe Kunstmusem, Danimarca; 1864). 

La sottrazione del fuoco agli dei per donarlo agli uomini, il castigo subìto da Prometeo incatenato a una rupe mentre unʼaquila gli divora il fegato, la liberazione di lui ad opera dellʼeroe Ercole: questi, gli elementi narrativi comuni un poʼ a tutte le tradizioni. Invece, il momento fondante di Prometeo creatore dellʼumanità non compare chiaramente né in Esiodo, né in Eschilo. Esso è piuttosto unʼelaborazione del filosofo greco Platone, nel dialogo “Protagora”. Questo elemento demiurgico ricompare sia nellʼ“operetta morale” di Leopardi sopra citata, sia – fin dal titolo – nel romanzo fantascientifico “Frankenstein, o il moderno Prometeo”, dellʼautrice britannica Mary Shelley, pubblicato in prima edizione nel 1818. La storia è nota: qui il novello Prometeo è lo scienziato Victor Frankenstein. I suoi sforzi di creare un essere umano artificiale sono destinati a un parziale, patetico fallimento. Così, pessimismo leopardiano e scetticismo della Shelley convergono in chiave grottesca. 

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Una curiosità storica è che Mary Wollstonecraft Shelley fu la compagna e vedova di Percy Bysshe Shelley, di chi esaltò lo spirito prometeico al massimo grado. Interessi comuni, ma pareri diversi. Altra curiosità, mitologica, può essere sapere che Prometeo aveva un fratello di nome Epimeteo. Meno abile nellʼattività demiurgica, egli riuscì a creare solo animali. Ebbene, Leopardi lo loda e privilegia proprio per questo. Infatti, essi sono perfetti secondo natura, mentre gli uomini stentano a raggiungere non tanto la perfezione, quanto un livello di civiltà apprezzabile, a dispetto di certe apparenze o pretese. Il misantropo satirico fornisce vari esempi paradossali, comprovanti la sua tesi. A malincuore, il personaggio di Prometeo stesso è costretto ad ammettere che gli esiti della sua creazione sono stati deludenti. 

Pure di Platone è lʼaccezione allegorica del fuoco. Esso non rappresenta solo uno strumento indispensabile al progresso materiale, ma anche lʼenergia vitale e una scintilla divina. È di questʼultima in particolare, che gli dei olimpici possono essere stati gelosi, ordinando la punizione di Prometeo a causa della sua interferenza e sfida contro il loro dominio esclusivo sulla creazione. In greco antico, tutto ciò prendeva il nome “hỳbris”, tracotanza titanica o umana presunzione che essa fosse. In ambito mediterraneo, tale concezione non si discosta poi molto dalla morale ebraica riflessa nella narrazione biblica della Torre di Babele, sebbene in questo caso la colpa umana offendesse il potere di un Dio unico. Ciò spiega perché, salvo un raro paragone simbolico di Prometeo con la figura redentrice del Cristo, in generale lʼatteggiamento cristiano nei confronti del mito prometeico non si differenzierà da quello pagano. 

Ma a noi possono interessare soprattutto le interpretazioni più moderne e in parte ancora attuali, quali reperibili nelle opere citate di Cesare Pavese e di Albert Camus. “La rupe”, del primo, è un dialogo fra Prometeo stesso, in procinto di venire liberato, e il suo umano, grato liberatore Eracle/Ercole. Nel suo indice tematico, lʼautore definisce quella del titano contro gli dei una “ribellione confortevole”, nel senso probabile e relativo che essa può essere di qualche indiretta consolazione alle nostre angosce, nella tarda epoca del disincanto. Immaginari o reali, collaborativi o conflittuali che siano, in fin dei conti titani, dei e singoli uomini sono accomunati dal destino di venire prima o poi riassorbiti in ua dialettica naturale della cui bontà non è dato dubitare, se non altro perché non sussiste plausibile alternativa. Pressappoco nello stesso anno post-bellico, nella mitica solitudine di Prometeo sia Pavese sia Camus trovano conferma di una filosofia dellʼassurdo esistenziale, di un mobile margine incompresibile che nemmeno la scienza o la storia sono riuscite a valicare. 

Ciononostante, in “Prometeo agli inferi” di Camus cʼè qualcosa di più, se non un maggiore ottimismo. Cʼè lʼintuizione-osservazione che il liberatore incatenato e poi a sua volta liberato non aveva offerto agli uomini solo tecnica e scienza, ma anche lʼarte. In effetti, il vocabolo greco “téchne” indicava entrambe. Invece, lʼodierna scissione fra tecnica e arte può implicare asservimento alla tecnologia. Forse, riportare tecnica e arte su rotaie parallele dello stesso binario sarebbe unʼimpresa utopica, ma non una soluzione impossibile. Lʼarte può fornire suggestioni più o meno gratificanti, ma anche suggerimenti utili alla guida di quel convoglio che chiamiamo progresso tecnologico, scientifico e civile, inclusa la sua dimensione digitale. 

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Pino Blasone 

Pino Blasone ha insegnato filosofia, ha collaborato con varie riviste e, a suo tempo, ai servizi culturali del Tg3 RAI. Ha pubblicato saggi e racconti, e il romanzo sperimentale “Il ritorno di Alice cibernetica”. Attualmente, pubblica post per lo più in inglese in un noto social network, di argomento artistico, iconologico e filosofico.