Scomporre e ricomporre il mondo con l’informatica: la conoscenza pubblica come identità europea. 

di Marco Pozzi, PoliTO

Abstract

La diffusione dell’informatica degli ultimi decenni ha avuto un forte impatto anche nella conservazione e trasmissione del patrimonio culturale delle società; musei, biblioteche e archivi convengono verso un unico ambiente dove tutti dati sono assemblati per produrre nuova conoscenza. Tali progetti non possono essere studiati da un punto di vista meramente tecnico, attraverso il linguaggio e le istanze dell’informatica; coinvolgono infatti l’intera società dentro la prospettiva della Convenzione di Faro del 2005, in cui gestire e promuovere il patrimonio culturale è una “fonte condivisa di ricordo, comprensione, identità, coesione e creatività”, per “lo sviluppo di una società pacifica e stabile”. In questi cambiamenti s’inserisce la piattaforma web Mèmora della Regione Piemonte, per la gestione e valorizzazione del patrimonio culturale piemontese. La diffusione di questo ed altri progetti pubblici ricopre un ruolo attivo nella formazione di una identità europea nella cittadinanza.

keywords: conoscenza, informatica, web, patrimonio culturale, Piemonte, Europa

Introduzione

Il Web e i sistemi informatici hanno velocemente radunato in modo nuovo masse di persone; si sono istituzionalizzati come dal XVI in Europa hanno fatto gli Stati moderni, i quali si basano su popolo (elemento personale), territorio (elemento spaziale) e sovranità (elemento formale, per cui lo Stato produce un ordinamento giuridico) (Giannuli, Cursioni, 2019, 10). Web e sistemi informatici non hanno un territorio sulle cartine, ma si espandono in maniera mutevole e indefinita nella dimensione immateriale creata e costituita dai bit.

Secondo il report ICT Impact study, pubblicato nel 2020 dalla Commissione Europea, nel 2018 sono presenti nel mondo 18,4 miliardi di device connessi al Web, con una stima di 29,3 miliardi nel 2023 (European Commission 2020, 23); secondo il report Digital 2022 di We are social e Hootsuite, sui 7.91 miliardi di abitanti sul pianeta a inizio 2022, il 67,1% (5.31 miliardi, rispetto ai 2,17 miliardi di gennaio 2012) possiede un telefono cellulare, il 62,5% (4,95 miliardi) accede a Internet, il 58,4% (4,62 miliardi, rispetto ai 1,48 miliardi di gennaio 2012) utilizza piattaforme social, con un tempo medio speso online di poco inferiore alle 7 ore (We are social, 2022).

Dentro tale contesto il presente articolo intende studiare l’evoluzione di musei, archivi e patrimonio bibliotecario, quali luoghi deputati nel corso della storia a conservare e trasmettere la memoria delle società. Ci si soffermerà sul caso-studio della Regione Piemonte, dove il CSI-Piemonte, quale consorzio di enti pubblici, è il partner tecnologico della Pubblica Amministrazione per realizzare il sistema informativo dell’Ecosistema dei Beni culturali regionale.

In generale l’articolo analizzerà come la specie umana trasmetta la memoria e come i sistemi informatici impattino sulla diffusione della conoscenza. Con la costituzione dei nuovi principi nei trattati, la sottoscrizione della Convenzione di Faro, anche la coscienza europea passa attraverso questo consolidamento dell’identità individuale e collettiva.

Teogonia dell’Ordine e del Caos

Nessuna società può sopravvivere alla perdita del proprio patrimonio di storia, arte, cultura, perché darebbe avvio a una disgregazione progressiva per mancanza di fulcro attorno a cui costruire l’unità sociale (la parola “patrimonio” ha la sua radice in pater, e in inglese si traduce “heritage”). Non a caso si assegna all’invenzione della scrittura il ruolo di confine fra preistoria e storia.

Così nascono le biblioteche. Dalle prime tavolette del III millennio ritrovate ad Ebla, in Mesopotamia, come prima biblioteca della storia, alla prima biblioteca privata, di Aristotele, dove il filosofo tiene i suoi scritti e quelli di altri autori contemporanei, presso la sua scuola.

Attraverso i secoli (Casson, 2003; Fedeli, 1997; Vivarelli, 2018) arriviamo fino ad oggi, alla più grande biblioteca del mondo: “Il nostro indice di ricerca è come una biblioteca, ma contiene più informazioni di tutte le biblioteche del mondo messe assieme. Tale indice viene continuamente ampliato e aggiornato con dati su pagine web, immagini, libri, video, fatti e molto altro. […] In una frazione di secondo, i sistemi automatici della Ricerca Google ordinano centinaia di miliardi di pagine web e altre informazioni nel nostro indice di ricerca per trovare i risultati più pertinenti e utili per quello che stai cercando” (dal sito Google https://www.google.com/search/howsearchworks/how-search-works – ultimo accesso 26.8.2022).

Il Web, che le ambizioni di Google esemplificano, manifesta oggi quello stesso desiderio di racchiudere l’universo.

Lo stesso desiderio che a inizio dell’età moderna, soprattutto in area germanica, spinge per la nascita delle Kunst- und Wunderkammern, allestite presso sovrani e principe: animali seccati, oggetti d’oreficeria, orologi e strumenti meccanici, ottici e matematici, con cassoni, armadi, mensole e tavoli; ci sono poi voliere, giardini, bacini per pesci e scuderie con animali esotici: è una rappresentazione del mondo, che mescola artificialia e naturalia, qualità dell’uomo e della natura. Poco a poco si fa strada l’idea del museo come porzione di universo, che studia i temi naturali con maggior metodo e più in profondità, con cambiamenti che, soprattutto dopo la Rivoluzione francese, lo avvicinano ai musei attuali (Basso Peressut, 1997; Calveri, Sacco, 2021). Ma la gestione del patrimonio culturale nelle biblioteche e negli archivi non si consolida solo sulla parola scritta nelle varie lingue ma a poco a poco trova nelle immagini un valido supporto per un pensiero che anticipa le multimedialità di Internet. E in questo caso l’esperienza di Aby Warburg e il suo Atlas Mnemosyne è emblematico.

Aby Warburg, Bilderatlas Mnemosyne – The Original, 2020. Installation view from HKW. Photo: Silke Briel / HKW.

La portata del Web è stata colta fin dall’inizio dal suo fondatore, Tim Berners-Lee, che negli anni novanta del XX secolo fornisce una consistenza materiale al concetto d’ipertesto formulato sin dal dopoguerra: “In questo modo purtroppo la gente continuava a pensare al web come un mezzo in cui pochi scrivevano e molti leggevano. Io invece prevedevo sistema in cui la condivisione di quanto sapevi o pensavi potesse essere altrettanto facile quanto apprendere quello che un altro sapeva. […] Il punto cruciale era l’idea di universalità, la rivelazione che un solo spazio dell’informazione potesse inglobare tutto, regalandoci un potere e una coerenza inauditi. Da qui derivavano molte decisioni tecniche.” (Berners-Lee, 2001, 41-42)

Il nuovo alfabeto digitale dell’informatica – l’aggettivo “digitale” viene dall’inglese “digit”, cioè “numero” -, codificando ogni cosa in “0” e “1”, sancisce un metodo epocale per mettere ordine nel caos del mondo. La conoscenza ha un nuovo linguaggio.

Un Consorzio di enti pubblici

Biblioteche, musei e Web s’inseriscono in un contesto ben più ampio che ricade sotto il nome di memoria, suscitando domande che fin dalle sue origini riguardano l’umanità: come conservare la memoria? come trasmetterla? come proteggerla? Cosa cancellare? cosa tramandare di noi alle generazioni future? perché farlo? come interpretare la memoria del passato? quale evoluzione desiderare per la nostra specie? etc.

Le risposte cambiano da luogo a luogo, da epoca ad epoca, ed oggi non possono prescindere dall’informatica. Questi e altri temi, intorno alla memoria e alla trasmissione della conoscenza, sono stati studiati fin dagli albori del Web dal CSI Piemonte, il consorzio di Enti pubblici fondato dal 1977 per realizzare i sistemi informativi nella Pubblica Amministrazione piemontese.

Nell’intervento conclusivo del convegno La conoscenza come bene pubblico comune: software, dati, saperi, organizzato dal CSI Piemonte nel 2003, Renzo Rovaris, fondatore del CSI Piemonte e direttore fino al 2010, scrive: “un modello di proto-società dell’informazione aperta è rappresentato dall’atto costitutivo del «Consorzio per il trattamento automatico dell’informazione», istituito con la Legge regionale 48/1975 poi trasformato in «Consorzio per il sistema informativo» (CSI-Piemonte). Nel marzo 1978, la Regione Piemonte vara la legge regionale n. 13 per la «Definizione dei rapporti tra Regione e Consorzio per il trattamento automatico dell’informazione». È interessante rileggere l’articolo 2, ricordandoci che stiamo parlando e decisioni prese ventisei anni fa: «Il sistema informativo regionale, strumento dell’azione di indirizzamento di programmazione della Regione, si realizza nello sviluppo della collaborazione e dell’integrazione di cui all’articolo 1 della presente legge. Con la realizzazione del sistema informativo, la Regione, attraverso il Consorzio, persegue le seguenti finalità: a) il coordinamento tecnico e operativo delle iniziative degli Enti pubblici degli Enti locali, in particolare, nel settore dell’informatica, anche attraverso lo scambio di informazioni e di conoscenze e la standardizzazione delle procedure; b) la formazione dell’aggiornamento del personale degli Enti pubblici per l’utilizzo di tecniche informatiche; c) la messa a disposizione di dati concernenti i problemi socio-economici, come supporto della ricerca della programmazione; d) lo sviluppo e la gestione di procedure autorizzate nell’ambito della organizzazione regionale e dei settori di interesse regionale; e) lo sviluppo della ricerca e della didattica rivolte alle esigenze della Pubblica Amministrazione e all’attività programmatoria, in collaborazione con gli Atenei.»

Il CSI nasce quindi con l’obiettivo di rendere possibile la condivisione dell’informazione e della conoscenza tra gli Enti piemontesi, avendo sin da subito i suoi promotori compreso la portata di una simile operazione. Nessuno, allora, poteva immaginare che da lì a qualche lustro la tecnologia avrebbe reso ordinaria la circolazione a livello planetario di dati, suoni, immagini, e che anche il mondo della PA avrebbe mutuato concetti quali la cooperazione applicativa, la condivisione della conoscenza, il riuso di componenti.” (Rovaris, 2003)

“CSI 40° – Storia Persone Futuro”, la mostra fotografica che ha celebrato i 40 anni di attività del CSI Piemonte

Debutto per un Ecosistema

Una dei progetti creato ultimi anni è Mèmora (Brunetti, 2018; Brunetti, 2018a), un progetto pubblico della Regione Piemonte di cui CSI-Piemonte è partner tecnologico. Dal sito (https://www.memora.piemonte.it) è possibile leggerne la presentazione: “Mèmora è la vetrina che rende visibile il patrimonio culturale (storico e artistico, fotografico, archivistico, naturalistico, ecc.) di Musei, istituti culturali e archivi storici del territorio piemontese. È il luogo dove agevolare, attraverso approfondimenti tematici, la lettura del patrimonio da parte di un pubblico ampio e non di soli specialisti, e dove condividere risorse. L’accesso ai dati dei diversi ambiti è facilitato attraverso diverse possibilità di ricerca: quella google like, quella territoriale, quella cronologica e quella per ente detentore del patrimonio. Mèmora è alimentato dai beni culturali che gli enti partecipanti al progetto descrivono: è un work in progress continuamente incrementato dagli aggiornamenti.”

Mèmora è una piattaforma web libera e gratuita per catalogare e valorizzare il patrimonio di musei, archivi, istituti culturali del territorio piemontese; ed è parte del nascente progetto informatico dell’Ecosistema dei beni culturali della Regione Piemonte, sempre realizzato dal CSI-Piemonte, il quale include anche gli Opac che gestiscono il patrimonio bibliotecario piemontese, e il Portale dei giornali del Piemonte (https://www.giornalidelpiemonte.it; Brunetti, 2019), che offre la possibilità di consultare gratuitamente i giornali locali pubblicati in Piemonte dal 1846 ad oggi (al momento le pagine consultabili sono oltre quattro milioni)

Inoltre diventano importanti gli archivi del territorio, non solo i cataloghi dei musei; possono essere archivi di Enti pubblici – Stato, Regioni, Province, Città metropolitane, Comuni – oppure altri Enti d’interesse pubblico – università, ospedali, scuole – oppure enti legati all’amministrazione pubblica, aziende partecipate; possono essere archivi di privati cittadini, o ordini professionali – notai, architetti, ingegneri – oppure di famiglie che nel tempo hanno accumulato carteggi privati, fotografie, documenti, araldica; possono essere archivi ecclesiastici, storicamente molto ben forniti e legati alla storia delle comunità.

Testimonianze orali, corrispondenza privati, e musei del lavoro, brevetti industriali, archivi sindacali e di piccole e grandi imprese, enti pubblici locali, proloco… fino allo studio delle marmellate di Marc Bloch, il quale, quando insieme a Lucien Febvre nel 1929 a Strasburgo pubblica il primo numero delle “Annales d’histoire économique et sociale”, intende proporre un nuovo modo di studiare la storia: “Realtà concreta e vivente, restituita all’irreversibilità del suo slancio, il tempo della storia, invece, è il plasma stesso in cui nuotano i fenomeni e quasi il luogo della loro intelligibilità. […] Questo tempo reale è per natura un continuum. Ma è anche continuo cambiamento.” (Bloch, 2009, 24)

L’Ecosistema dei beni culturali si muove in tale “continuo cambiamento”.

Cosa succede con un nuovo alfabeto

Peter Burke in Storia sociale della conoscenza propone una storia dei concetti e delle dinamiche senza legarsi ai nomi degli autori. Fin da subito pone una distinzione fra la conoscenza e l’informazione, “il «sapere come» dal «sapere che», ciò che è esplicito da ciò che viene dato per scontato. Per convenienza questo libro userà «informazione» per riferirsi a quanto è relativamente «crudo», specifico e pratico, mentre «conoscenza» denoterà quanto è stato «cotto», elaborato o sistematizzato dal pensiero.” (Burke, 2002, 23)

Nell’incessante contaminazione dei saperi, che continuamente s’istituzionalizzano o avanzano in solitudine, si radicano o si dissolvono, è sempre difficile tracciarne dei confini, alzare steccati con precise definizioni. Così oggi si stenta a trovare una collocazione stabile alle cosiddette Digital Humanities (Vivarelli, 2022) – tradotte con “Informatica Umanistica” o “Umanistica Digitale” – che vengono definite nel 2009 col The Digital Humanities Manifesto 2.0 scritto a più mani dai partecipanti al Mellon Seminar della UCLA: “L’Umanistica Digitale non è un ambito unificato, ma una serie di pratiche convergenti che esplorano un universo in cui: a) la stampa non rappresenta più il medium esclusivo o normativo nel quale la conoscenza viene prodotta o disseminata: piuttosto, la stampa viene assorbita in nuove configurazioni multimediali; b) gli strumenti, le tecniche e i media digitali hanno profondamente trasformato la produzione e la disseminazione della conoscenza in ambito artistico, umanistico e sociale. L’Umanistica Digitale si propone di svolgere un ruolo inaugurale rispetto a un mondo in cui le università non sono più gli unici produttori, dispensatori e disseminatori della conoscenza e della cultura. Al contrario esse sono chiamate: a plasmare modelli digitali di discorsi accademici per le nuove, emergenti sfere pubbliche della nostra era (il web, la blogosfera, le librerie digitali etc.); a definire i criteri di eccellenza e di innovazione in questi domini e a facilitare la formazione di reti di cultura nella produzione, scambio e disseminazione di conoscenza che sono, al tempo stesso, globali e locali” (The Digital Humanities Manifesto 2.0, 2009).

Dopo aver frantumato il mondo in molteplici “0” e “1” sparpagliati in illimitati datacenter sull’intero pianeta, le ricerche sul Web rispondono a un’esigenza di ricostruire una unità verso la quale convergere, attraverso la quale comprendere.

Navigando sul Web – “navigare”, si usa il verbo delle migrazioni, della lunga Odissea per tornare a casa – ci si trova come in un oceano di dati e conseguenti informazioni. Lì ci si muove per rotte stabilite, secondo ciò che si vuole trovare come verso un porto a cui si vuole attraccare, ma anche secondo connessioni che mai s’avrebbe previsto prima. Berners-Lee stesso scrive: “Il Web è nato come risposta a una sfida aperta, nel mescolarsi di influenze, idee e conclusioni di origine diverse, fino a coagulare un concetto nuovo grazie alla mediazione meravigliosa della mente umana. È stato un processo di aggiunte continue, non la soluzione lineare a un problema definito dopo l’altro.” (Berners-Lee, 2001, 16-17)

Nei tempi passati le città sono i centri del sapere, dove risiedono biblioteche e accademie, collezioni e università; oggi i dati sono contenuti nei datacenter sparsi per il pianeta e da lì la conoscenza s’irradia in qualunque luogo in cui esista una connessione Internet. La conoscenza diventa l’arché originario dell’Essere.

Tutto accade nel Web.

Per chi suona la campana

Stéphane Mallarmé, durante la sua vita, pensa di scrivere un Libro totale ispirato alle grandi opere degli alchimisti. Avrebbe cominciato a lavorarci verso il 1873, a meditarvi tra il 1873 e il 1885; poi c’è un rallentamento; ci si rimette nel 1892-1893; nel 1894, con più tempo a diposizione, vi si dedica le mattina. In conclusione ci resta un manoscritto di duecento fogli: non il Libro, ma pensieri sul Libro (Barthes, 2010, 296).

Se Mallarmé non riesce a scrivere il libro, il Web riesce a realizzarlo. Col Web s’è ritornati all’alchimia, che dentro del disordine, dentro al “magma fuso e incandescente” (Jung, 2008, cap. VI “A confronto con l’inconscio”, 243-244) come lo chiama Jung, cerca di cristallizzarne una struttura comprensibile ed abitabile. Gli archetipi, su cui dalle origini lontane si poggia l’inconscio umano, sono “un invisibile reticolo cristallino, che modella i pensieri come un vero reticolo cristallino rifrange la luce” (Miller, 2014, 32). E dentro un tale reticolo che ricorda l’odierna Rete – il Web – ci si chiede da quale alambicco si distillerà il nuovo oro? Il nuovo elisir che di tanti dati ne distillerà una combinazione che possa durare nel tempo, aspirando a un miraggio d’immortalità nella memoria degli umani?

Il sentiero che s’aggroviglia passa attraverso innumerevoli significati, attraverso i quali si genera il racconto, l’esposizione che ci tramanda anche conoscenza. Ricorda un interessante passo del Faust di Goethe – a lungo dedito all’alchimia – che, citato da Sigmund Freud per spiegare la nascita dei sogni, sembra adattarsi perfettamente alla nostra discussione su come creare nuovi significati attraverso i dati: 

  • Migliaia di fili mette in moto un pedale,
  • le spole volano di qua e di là,
  • invisibili i fili si tessono insieme
  • e un colpo solo crea mille collegamenti.

(Goethe, 2009, parte prima seconda scena dello studio, 147)

In questo senso gli elementi prima che si combinano nel Web, ogni dato e ogni metadato che con le ricerche si combinano mettendosi in relazioni coi link, vanno a formare la nostra identità. Ogni utente del Web è soggetto che ricrea nuovi prodotti, al tempo stesso oggetto che da questi nuovi prodotti è inevitabilmente influenzato, a piccoli colpetti, sotto influsso di quanti di conoscenza come per l’effetto di non misurabile energia.

Ad ogni piccolo passo come ad ogni piccolo click, un infinitesimo di conoscenza entra dentro chi cerca, costruendoci dentro un presidio consistente, da cui partire per altre ricerche, accrescendo il territorio conquistato in una specie di far west interiore. Il territorio edificato è l’identità.

E una volta costruita l’identità individuale è possibile scorgere, con un metodo aggregato, a volo d’aquila, gli effetti collettivi, nella sua portata visceralmente sociale. Nel diciassettesimo fra i sermoni Devotions upon Emergent Occasions, scritti nel 1623 dal poeta John Donne – che incontra Keplero nel 1619 – intorno alle sofferenze della fede cristiana, si legge: “Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto; se una zolla viene spazzata via dal mare, l’Europa ne è diminuita, come se le fosse rapito un promontorio, come fosse la casa dei tuoi amici, o la tua; la morte di ogni uomo mi diminuisce, perché io sono legato a tutto il genere umano. E dunque non andare a chiedere per chi suona la campana; suona per te.” (Brook, 2015, 232)

Nella vita ogni essere umano è legato a tutti gli altri esseri umani, da cui assorbe continuamente; noi siamo tutti gli attimi vissuti, le parole che abbiamo scambiato, lo sguardo di nostro nonno su di noi quando non sapevamo ancora parlare, il litigio con un passante in coda, tutti gli incontri nelle stazioni, nelle piazze, nei festoni, tutte le parole assorbite, tutti i colori respirati, tutti i sentimenti scambiati. E anche tutte le mail scambiate, tutti i link aperti, i siti visitati, i meme inoltrati.

Come ciascuno è legato a tutti gli altri nella vita, altrettanto ciascuno lo è in quella sorta di riproduzione del mondo che è il Web.

La sapienza dei dati

Questo è dunque il contesto storico in cui si inserisce Mèmora e l’Ecosistema dei beni culturali di cui fa parte, che proprio nella direzione indicata dalla Convenzione di Faro (Consiglio d’Europa, 2011) onora le sue responsabilità di servizio della Pubblica Amministrazione: gestire e promuovere il patrimonio culturale quale “fonte condivisa di ricordo, comprensione, identità, coesione e creatività”, per “lo sviluppo di una società pacifica e stabile”, secondo le definizioni della convenzione.

Diventa importante analizzare la proprietà dei dati del sistema informativo, sapere dove sono archiviati gli “0” e gli “1” in cui sono traslitterati – digitalizzati – i beni presenti nel mondo. Il progetto della Regione Piemonte è realizzato, come molti altri software nella Pubblica Amministrazione piemontese, dal CSI Piemonte, che è un consorzio formato attualmente da oltre cento Enti pubblici.

Con quest’ordinamento giuridico le decisioni non sono prese da multinazionali (Frenkel, Kang, 2021) ma dai rappresentanti delle istituzioni, i quali nella maggior parte dei casi vengono eletti dai cittadini. Gli obiettivi, pur dentro la sostenibilità economica, non sono commerciali, è il progetto sociale complessivo ad essere rilevante: un progetto concluso con successo, ad esempio, non si ferma all’applicazione nel capoluogo di regione, o ai capoluoghi, dove disponibilità e visibilità sono maggiori, ma può diffondersi sull’intero territorio, su una infrastruttura pubblica, fino al paesi più lontani o appartati nelle periferie montane, così che il territorio si sviluppi in maniera più omogenea ed equa. Collaborando si possono eliminare sprechi e ridondanze, identificando i comuni bisogni della società in un dato momento e trovando soluzioni comuni che contribuiscano alla coesione delle svariate realtà sul territorio.


Il sapere si ridistribuisce e i singoli ne usufruiscono per affrontare il mondo in piena consapevolezza di sé, dei propri diritti e doveri. Un wikipedia civico, radicalmente sociale, intorno a una conoscenza che nasce dal patrimonio culturale collettivo in archivi, musei, giornali, biblioteche. E che in futuro includerà quello che sono molteplici ambienti di realtà aumentate o realtà virtuale, racchiusi sbrigativamente sotto l’evocativo nome “Metaverso” (Osservatorio Metaverso, 2022), usato per la prima volta nel romanzo di fantascienza Snow Crash, scritto da Neal Stephenson nel 1992 (Stephenson, 2007).

In questo senso il sistema informativo dell’Ecosistema dei beni culturali impatta anche sul fenomeno chiamato Information literacy, definito da AGID “insieme di abilità, competenze, conoscenze e attitudini che portano il singolo a maturare nel tempo, durante tutto l’arco della vita, un rapporto complesso e diversificato con le fonti informative: i documenti e le informazioni in esso contenuti” (AGID, 2014, 153). Così, accedere al patrimonio culturale della propria comunità diventa un mezzo importante per imparare. “Literacy” può tradursi come “alfabetizzazione”; e un nuovo alfabeto, per quanto inclusivo sia, inevitabilmente esclude chi non lo conosce. Diventa allora fondamentale sapersi muovere nel sistema, capaci di affrontare le informazioni, per non diventarne succubi (Lana, 2020).

E qui ci si lega indissolubilmente al concetto di democrazia, poiché, solo se l’informazione è libera e accessibile a tutti, e tutti ne sanno trarne uno stimolo e un mezzo verso la conoscenza, il cittadino potrà, saprà e vorrà decidere, agire e votare in libertà e consapevolezza.

La fondazione dei nuovi principi

Negli anni del dopoguerra la fantascienza immagina una dimensione infinita da conquistare nello spazio interplanetario. Oggi quel futuro non si è verificato: la dimensione infinita da conquistare, forse proprio perché non si è verificata quella fisica dello spazio, è diventata virtuale. In questa dimensione l’economia persegue l’ideale crescita infinita, perpetuando la propria essenza che sul pianeta i limiti della Natura stanno facendo traballare.

Ciò che è più facilmente osservabile è che il Web ha proposto una struttura inedita rispetto al passato: concorrenza perfetta e al tempo stesso perfetti monopoli. Le aziende Google, Facebook, Apple, Ebay, Amazon, sono i più grandi monopoli mai esistiti; tuttavia, come mai prima, i loro prodotti consentono partecipazione diffusa e paritaria (Zuboff, 2019). È stimolante e utile pensare che questa duplice natura, moderna e rischiosa, possa essere smorzata tramite una politica pubblica coraggiosa e consapevole, che non può limitarsi soltanto a un livello locale, o regionale, ma che necessariamente deve coinvolgersi a un livello più alto (Giacomini, Buriani, 2022).

In questo momento l’Europa non ha una lingua sua; formalmente e informalmente si adotta l’inglese, il quale però, dopo la Brexit, non è lingua ufficiale di nessuno dei paesi membri (eccetto per l’Irlanda, per cui rappresenta una lingua legata all’invasione inglese). Impossibile sarebbe adottare il latino, che probabilmente rappresenta l’alternativa storicamente più coerente; ma forse con l’alfabeto “0” e “1” s’è ancora in tempo per definire un linguaggio autonomo, che corrisponda all’identità sociale della cittadinanza, e che in qualche modo servirebbe a verbalizzare il caos del mondo, a cui il Web corrisponde.

Già il tema dei dati è incluso nella Carta dei diritti fondamentale dell’Unione Europea, approvata dal Parlamento europeo nel novembre del 2000, dove all’Articolo 8 si stabilisce:

“1. Ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano.

2. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni individuo ha il diritto di accedere ai dati raccolti che lo riguardano e di ottenerne la rettifica.

3. Il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un’autorità indipendente.” (European Parlament, 2000)

Dalla firma del trattato di Lisbona nel 2007 la protezione dei dati personali diventa un diritto fondamentale ai sensi del diritto dell’UE, cioè si rafforza una base giuridica specifica per adottare norme legislative a protezione di questo diritto fondamentale. Il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR), adottato nel 2016 ed entrato in vigore nel maggio 2018, fornisce le regole a cui imprese ed istituzioni devono adeguarsi, unificando la frammentazione nei vari sistemi nazionali, processo che si consolida a dicembre 2022 quando Parlamento europeo, Consiglio e Commissione proclamano la Dichiarazione europea sui diritti e i principi digitali per il decennio digitale, con l’obiettivo di integrare “riferimenti alla sovranità digitale in modo aperto, al rispetto dei diritti fondamentali, allo Stato di diritto e alla democrazia, all’inclusione, all’accessibilità, all’uguaglianza, alla sostenibilità, alla resilienza, alla sicurezza, al miglioramento della qualità della vita, alla disponibilità di servizi e al rispetto dei diritti e delle aspirazioni di ognuno” (Consiglio Europeo, 2022); e processo che si allarga ulteriormente quando, sempre a dicembre 2022, la Commissione europea dà l’avvio al processo dell’accordo fra Unione Europea e Stati Uniti per una legislazione che obblighi grandi multinazionali a particolari trattamenti dei dati per tutelare i cittadini europei, limitandone l’accesso alle agenzie di intelligence statunitensi (European Commission, 2022).

Lo scopo sempre più non è la tutela della privacy fine a sé stessa, ma è evitare discriminazioni che potenzialmente possano ledere diritti fondamentali. Diventa così fondamentale, caso per caso, la valutazione d’impatto sulla protezione del dati (DPIA), cioè valutare quanto incide un dato del proprietario dei suoi diritti fondamenti, per evitare a priori abusi e discriminazioni; si tratta di un approccio sistematico che consente di comprendere i profili di rischio, consentendo al titolare del trattamento di valutare, a priori, l’impatto nella protezione dei dati personali e l’adeguatezza delle misure di sicurezza tecniche e organizzative che si possono adottare.

Una lingua europea

Si ha l’impressione che le approvazioni di tali direttive e regolamenti in ambito informatico procedano più velocemente rispetto a decisioni negli ambiti economici, fiscali, sociali, militari; forse proprio l’informatica potrebbe nel tempo rappresentare un raccoglitore d’istanze comuni fra gli stati nazionali e i popoli, che diventi collante per un’identità europea, da sempre così cangiante e contradditoria. L’Europa difficilmente può essere ridotta a “un continente”, a “una divisione geografica del globo”, né a “una formazione politica definita, riconosciuta, organizzata, dotata di istituzioni fisse e permanenti”, quanto piuttosto la si può definire “una unità storica, una incontestabile unità storica […] che raggruppa un insieme di paesi, di società, di civiltà e di popoli che abitano questi paesi, che compongono queste società, che incarnano queste civiltà” (Febvre, 1999, 3-4): così la definisce Lucien Febvre, compagno di Marc Bloch nell’avventura della rivista “Annales d’histoire économique et sociale, in un corso tenuto al Collège de France nell’anno accademico 1944-45.

Dentro questo movimento, nel movimento del Web, il percorso che attraverso l’alfabeto di “0” e “1” potrebbe servire a verbalizzare il caos del mondo in questa “unità storica” chiamata Europa, definendone un’identità condivisa da stati nazionali e popoli, che la pubblic history non possa che confermare, e che a livello geopolitico planetario compensi le debolezze politiche e militari.

Come in un percorso di psicanalisi l’individuo può trovare le parole attingendo al caos interiore, così, mediante un linguaggio informatico proprio, attingendo all’inconscio del Web e d’ogni Intelligenza Artificiale, forse si riuscirà a dare forma al nostro inconscio collettivo, traendone qualche beneficio, oltre che a realizzare quell’anelito vago comunemente chiamato “sviluppo sostenibile, che nel 1987 il rapporto Brundtland – Gro Harlem Brundtland è il presidente della Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo (World Commission on Environment and Development, WCED) istituita nel 1983 – definisce come “quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri.” (United Nations, 1987)

Tutto ciò si raccorda bene alla Convenzione di Faro (Portogallo), sottoscritta nel 2005 dai membri del Consiglio d’Europa, la quale introduce il concetto di “comunità di eredità”, cioè “un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future.” La convenzione di Faro riflette sul fatto che conservare i beni culturali migliora la qualità della vita della comunità che possiede i beni; promuove la comprensione del patrimonio e le relazioni con la comunità, aumentando la coesione fra i cittadini e valorizzandone la singola responsabilità.

L’Art. 14 è poi specificatamente dedicato all’”Eredità culturale e società dell’informazione”: “Le Parti si impegnano a sviluppare l’utilizzo delle tecnologie digitali per migliorare l’accesso all’eredità culturale e ai benefici che ne derivano:

a. potenziando le iniziative che promuovano la qualità dei contenuti e si impegnano a tutelare la diversità linguistica e culturale nella società dell’informazione;

b. favorendo standard internazionali per lo studio, la conservazione, la valorizzazione e la protezione dell’eredità culturale, combattendo nel contempo il traffico illecito dei beni culturali;

c. adoperandosi per abbattere gli ostacoli che limitano l’accesso alle informazioni sull’eredità culturale, specialmente a fini educativi, proteggendo nel contempo i diritti di proprietà intellettuale;

d. riconoscendo che la creazione di contenuti digitali relativi all’eredità culturale non dovrebbe pregiudicare la conservazione dell’eredità culturale attuale.”

La Convenzione di Faro sintetizza la dipendenza fra patrimonio culturale collettivo e benessere sociale. Tuttavia, se il Web può aiutare ad usufruire del patrimonio culturale, aggiornando il ruolo d’un nuova public history, che, secondo la convenzione, può accrescere il benessere, al tempo stesso può essere causa della distruzione delle comunità, fatto che Il secolo della solitudine di Noreena Hertz documenta vividamente: “a un colloquio di lavoro viene valutata da un algoritmo; un pomeriggio fa shopping con un’«amica del cuore» affittata tramite un servizio online; di sera si trova a sfiorare la pelle artificiale di un robot progettato per essere il suo animale da compagnia…” (Hertz, 2021, quarta di copertina).

Tra Faro e anti-Faro, la nuova lingua europea che stata nascendo è fatta di infrastrutture, leggi, formazione (Jarre, Bottino, 2018), pianificazione tecnologiche (Frick, 2016; Marchis, 2021; Marchis, 2021a) e sociale (Economia digitale, 2018), gestione dei dati, cybersecurity, impatto psicologico sugli individui, consumi energetici e impatto ambientale (Crawford, 2021; Pozzi, 2023), smaltimento dei rifiuti, diritto alla riparazione (Open repair alliance – https://openrepair.org; The restart project – https://therestartproject.org/about) etc… tutto quanto riguarda ogni fase del settore. Molti di questi temi sono stati trattati nel convegno on-line Digital Ethics Forum nel 2020, organizzato dall’associazione Sloweb (Balbo, Jarre, 2020). Ci si potrebbe anche chiedere se sia possibile realizzare un Metaverso pubblico, senza passare da piattaforme multinazionali, o se sia possibile l’affermazione di un motore di ricerca europeo, o di un social network europeo, per il cittadino europeo che rimarrebbe proprietario dei propri dati.

Solo così si potrà davvero toccare il concetto di benessere sociale promosso dalla Convenzione di Faro, e renderlo concreto, vivo, compiuto: una società di fiducia reciproca, di aiuto, di collaborazione: dove non ci si senta soli.

Conclusioni fatte di caos e sogno

L’articolo ha evidenziato l’impatto che può avere l’informatica sull’identità dell’Europa.

Il sistema informatico è solo una fra le dimensioni in cui studiare il processo, poiché non si limita al mero funzionamento di un sistema tecnico, quanto piuttosto include il propagarsi nella società d’un’onda di effetti materiali e immateriali, senza che se ne allestisca intorno una dose minima di necessaria consapevolezza.

Una società non deve – non può – muoversi non in balìa del caso o di scelte al di fuori di sé, per rincorrere l’ultimo aggiornamento tecnologico. Così come un individuo, prendendo consapevolezza del proprio vissuto, la società può maturare e diventar “padrone della propria vita”, secondo un’espressione ben diffusa. È bello citare il finale dell’introduzione di Grammatica della fantasia di Gianni Rodari: “«Tutti gli usi della parola a tutti», mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessun sia schiavo”. (Rodari, 1997, 14)

E allora, nel XXI secolo, non c’è da desiderare che a governare sia un aristocrazia di filosofi o scienziati, ma forse che, oltre all’Information literacy, con una istruzione diffusa, la comunità possa sempre più alzare il proprio livello di conoscenza, affinché l’aristocrazia tenda a coincidere con la collettività intera, uscendo dal cerchio degli specialisti del sapere come una clerisy, come li definisce Peter Burke, cioè “gruppi sociali i cui membri si considerano «uomini di sapere» (docti, eruditi, savants, Gelehrten) o «uomini di lettere» (literati, hommes de lettres)”. (Burke, 2002, 33)

Si raccorda al The Digital Humanities Manifesto 2.0, che invoca: “Il digitale è l’ambito dell’open source, delle risorse aperte. Chiunque tenti di chiudere questo spazio deve essere riconosciuto per quello che è: un nemico. Il nucleo dell’Umanistica Digitale è utopico ed è figlio legittimo di un’evoluzione genealogica che affonda le sue radici ideologiche nella controcultura – e nelle curiose interrelazioni della cybercultura degli anni Sessanta e Settanta. Per questo motivo, essa afferma i valori dell’Aperto, dell’Infinito, dell’Espansivo, dell’Università/Museo/Archivio/Biblioteca senza pareti, la democratizzazione della cultura”. (The Digital Humanities Manifesto 2.0, 2009)

Questa è l’utopia ultima, prima della quale altre gradazioni sono più realistiche, che comunque non dimenticano il benessere collettivo indicato dalla Convenzione di Faro e i principi stabiliti dalle Dichiarazioni europee. La frase di John Donne – “se una zolla viene spazzata via dal mare, l’Europa ne è diminuita” – esprime visivamente quanto siamo tutti legati gli uni agli altri.

Si possono assumere, come augurio, le parole di Tim Barners-Lee verso la fine del suo L’architettura del nuovo web: “Il nuovo Web deve permettermi di imparare superando i confini. Deve aiutarmi a organizzare i contratti nel cervello perché io possa capire quelli di un’altra persona. Deve mettermi in grado di mantenere le cornici concettuali che già possiedo ponendole in relazione con le nuove. Nel frattempo, dovremo abituarci a considerare le discussioni e le sfide necessarie in questo processo come comunicazione più che come polemica”. (Berners-Lee, 2001, 179)

Così ci auguriamo sia per Mèmora e l’Ecosistema dei Beni culturali, e per ogni progetto simile che a livello locale, nazionale, internazionale affronti il tema della gestione del patrimonio culturale: che s’inserisca proprio qui, dove avviene il passaggio da gente a cittadini.

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Marco Pozzi, laureato in Ingegneria gestionale, attualmente è dottorando al Politecnico di Torino dove si occupa di storia e filosofia della scienza, con particolare attenzione al tema della trasmissione della memoria e della conoscenza. Insieme a Vittorio Marchis ha curato i sette volumi “Incontri con la macchina” pubblicati dall’editore Mimesis. In occasione delle Olimpiadi di Tokyo 2020 realizza il podcast “Il respiro della palla” sulla storia dello sport.