Per una sistemica della complessità come metodo progettuale
di Mario Fois, Docente ISIA RM
Prefazione di Giordano Bruno, Vicepresidente DiCultHer
È lodevole lo sforzo di Mario Fois di presentare in questo suo scritto l’essenza del “design dei sistemi”, che ha contrassegnato e contrassegna l’esperienza formativa dell’ISIA di Roma.
E lo è tanto più perché, oltre a inquadrarlo in un percorso storico, riesce a delinearne i tratti salienti che lo rendono ancora attuale.
Dal suo contributo “emerge” (è il caso di sottolinearlo) che un tale indirizzo non può essere inquadrato, incasellato in uno dei tanti approcci al design e alla sua formazione, ma si colloca come esperienza primaria esperienziale e in una chiave prospettica che attraversa varie forme, modalità e culture dell’arte del progettare.
Una visione che serve a delineare la figura del progettista sempre più come “snodo” (o “nodo”) di una rete complessa di saperi intrecciati che devono reggersi, coabitare, coesistere tutti insieme per porsi al servizio di un ecosistema fragile, al quale dobbiamo rivolgere le nostre cure e attenzioni, se desideriamo continuare ad esistere.
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Premesse
Ancora oggi non c’è accordo su cosa sia il design: se in passato veniva visto esclusivamente come ‘disegno industriale’, in molti oggi propendono a considerarlo attività progettuale di oggetti d’uso o di servizi, indipendentemente dalle modalità di produzione. D’altronde, esse sono attualmente sempre più legate a tecniche di autoproduzione e soggette a contaminazioni provenienti dal mondo dell’arte o al contrario definite dalla necessità di fornire risposte ad un sistema economico articolato che dagli aspetti produttivi arriva fino a comprendere aspetti di promozione e vendita di prodotti e servizi e di sostenibilità ambientale.
Come scrive Maurizio Vitta «Non si sa ancora bene se definirlo (il design) come metodologia progettuale, pragmatica attività di problem solving, momento di una strategia produttiva, di vendita e di consumo, semplice styling di merci, intervento creativo nella ideazione e nella realizzazione degli oggetti, messa a punto linguistica e comunicativa della loro struttura intesa come interfaccia con l’utente, libero innesto di una logica artistica sul corpo tecnico delle cose.»1
La progettazione di oggetti d’uso e ancor di più di elementi ‘virtuali’, può significare per il designer cose molto diverse (tra loro): rivestimento formale di componenti tecniche, elemento funzionale, prodotto industriale, interfaccia, comunicazione, scelta estetica o stilistica.
Tutti questi aspetti hanno cominciato a svilupparsi con l’inizio dell’età industriale, quando gli artisti vennero chiamati a collaborare alla progettazione di prodotti in grado di piacere ed ‘educare’ il gusto delle masse, senza dimenticare le logiche produttive. Ed è in quel momento che comincia a definirsi l’idea che il progetto, grazie all’approccio artistico, sia la soluzione per raggiungere una bellezza finalizzata a funzionalità produttive e d’uso.
Con il razionalismo e in particolare con la Bauhaus e Ulm, il design si lega all’utopia di una società migliore e più equa, uno strumento in grado di costruire, insieme all’architettura e alle discipline artistiche, una realtà in cui gli oggetti siano in grado di svolgere una funzione di crescita non soltanto materiale delle persone.
Le trasformazioni della società e l’avvento delle tecnologie digitali hanno però totalmente modificato il quadro tanto da rendere necessario un ragionamento più ampio, che non può essere esclusivamente riferito ad una realtà oggettuale, ma che si allarga necessariamente al virtuale e all’immateriale in generale.
Il caso italiano
Fatte queste premesse occorre ricordare le caratteristiche peculiari del design italiano, prima di qualsiasi discorso metodologico sul suo passato come sul suo futuro.
La sua particolarità è legata indissolubilmente alla storia del Paese, un lungo percorso fatto di crisi e discontinuità con la difficoltà di dotarsi di sistemi politici stabili, di costituire Stati di dimensioni tali da essere in grado di difendersi dalle invasioni e, soprattutto dalla fine del Rinascimento in poi, di creare una struttura sociale sufficientemente coesa che permettesse la realizzazione di grandi progetti architettonici ed urbanistici.2
Anche dal punto di vista dell’elaborazione teorica è possibile considerare l’Italia come un laboratorio in continua attività dove però nessuna tesi sembra prendere chiaramente il sopravvento.
Queste condizioni particolari unite ad una cultura artistica stratificata ed ineguagliabile, ma accompagnata da una carenza di materie prime, hanno gettato nel tempo le fondamenta sulle quali costruire una cultura ed un gusto dell’oggetto ineguagliabili, con il culto per le soluzioni estetiche e le invenzioni tipologiche e funzionali, ma anche affettive, emozionali ed estremamente diversificate.
Lo sviluppo quasi obbligato delle capacità necessarie a cogliere possibili soluzioni combinatorie tra forme, materiali e aspetti culturali, spesso ha fatto sì che, anche semplici manufatti creati per necessità d’uso diventassero nel tempo ‘cose’ in grado di suscitare forti relazioni emotive con le persone, andando a costituire quella ‘iconicità’ su cui il ‘made in Italy’ ha costruito il suo grande successo internazionale.
Solo poche volte però, come sicuramente nel caso dell’Olivetti, la valorizzazione dell’arte, della cultura e del progetto hanno fatto capire che questi stessi valori, con l’aggiunta di una visione d’insieme dei problemi della società, possono creare, se supportati da un’adeguata capacità imprenditoriale e da una visione ‘sistemica’, un’occasione di sviluppo economico e umano.
La didattica per il design
«L’insegnamento del design in Germania si è basato: negli anni Cinquanta sull’ergonomia, negli anni Sessanta sulla pianificazione e metodologia, negli anni settanta sugli aspetti sociali, negli anni Ottanta sulla sensualità e negli anni Novanta sull’informatica.» (B. E. Bürdek)
La didattica per il design ha avuto una continua evoluzione ed è stata oggetto di riflessioni e dibattito da oltre un secolo. Alcune pietre miliari di questa riflessione costituiscono ancora oggi un riferimento per gli attuali sviluppi italiani.
Il metodo elaborato nella Staatliches Bauhaus, una delle più importanti scuole superiori di istruzione artistica della storia, è stato ed è tutt’ora punto di riferimento per tutta la formazione del settore: prevedeva un preciso percorso di studi caratterizzato principalmente dalla fusione di arte, tecnologia e artigianato. L’unione delle arti, pittura, scultura e architettura non più divise tra loro, divenne il simbolo e l’espressione di un’unica volontà ‘creatrice’ e, proprio per questo, ogni corso era tenuto in parallelo da un artista e da un maestro artigiano.
Un’altra novità era costituita dal Corso Propedeutico di sei mesi nel quale gli allievi, di diversa estrazione e provenienza, studiavano i materiali e il colore, imparando la cura del corpo, del vestiario dell’alimentazione, anche attraverso la conoscenza delle filosofie orientali3.
La Scuola di Ulm, nata per iniziativa di Max Bill (ex studente della Bauhaus), si presentava con una impostazione teorica più profonda di quella del Bauhaus, basata su positivismo logico, pragmatismo e studio della bionica. Il modello scolastico voleva riprendere la tipologia del campus universitario e ispirarsi al metodo Montessori (learning by doing); i riferimenti artistici erano volti a De Stijl, costruttivismo e Bauhaus di cui manteneva anche il corso propedeutico iniziale.
L’evoluzione del metodo si ebbe con l’istituzione di corsi a carattere scientifico come semiotica, ergonomia, scienza della comunicazione e con l’introduzione di un laboratorio di percezione visiva, non “intuizionista” come quello tenuto da Itten nei primi anni della Bauhaus (e ripreso inizialmente anche a Ulm), ma basato sullo studio delle leggi della fisica e dell’ottica. Anche il corso propedeutico venne strutturato in maniera da porre le basi scientifiche per i lavori e le esercitazioni svolte.
In definitiva però, la scuola fu apprezzata in tutto il mondo per la sua prospettiva incentrata sul design dei sistemi invece che su quello di prodotto. Molte delle innovazioni introdotte da questa scuola nella formazione e nella prospettiva analitica e metodologica sono oggi patrimonio comune, parte integrante della didattica e della prassi professionale del design. L’idea centrale era infatti di progettare mobili, auto, segnaletica, immagine coordinata e interfacce, come parte di sistemi articolati e completi.
In Italia la prima esperienza di formazione superiore nel campo del design a livello pubblico, è costituita dalla creazione degli iniziali quattro ISIA, preceduti già negli anni ’60 dai corsi sperimentali. L’ISIA di Roma in particolare, ha le sue origini nel 1962 come ‘corso di disegno industriale’ nel solco della grande tradizione europea, esemplificata proprio dalla Bauhaus e dalla Hochschule für Gestaltung di Ulm, da cui eredita l’impianto metodologico, ottenendo l’equiparazione ad un istituto di alta formazione solo nel 1973.
Avviata dal contributo di personaggi quali Giulio Carlo Argan, Aldo Calò e molti altri, l’ISIA di Roma sistematizza la grande tradizione italiana di creatività e innovazione del prodotto diventando un modello di istituzione moderna e innovativa per tutti gli orientamenti di ricerca e progettazione. In particolare la concezione di Argan, che fin da subito propose come valore principale il progetto come unico elemento in grado di valorizzare il prodotto seriale anche sul piano culturale e sociale, costituisce il principio ispiratore per questo approccio all’insegnamento del design.
Negli ultimi anni però anche in Italia è in atto una riflessione su come la didattica di questo settore dovrà cambiare per formare i nuovi designers che dovranno essere in grado di adeguarsi ai cambiamenti e al ruolo sempre più dominante delle tecnologie, senza rinunciare ad esserne ‘protagonisti’, come già previsto dalle esperienze progettuali del ‘900.
Se da un lato, in particolare nella formazione privata, sembra prevalere una tendenza ‘professionalizzante’ che ha come principale obiettivo la preparazione di giovani professionisti adeguati alle richieste del mercato del lavoro, in altre realtà e in particolare nell’ISIA, ci si è interrogati sul ruolo che il designer deve avere nella società del futuro.
I cambiamenti in atto: il superamento della materialità e l’avvento dell’intelligenza artificiale
Nel corso del tempo, il rapporto tra il design e la tecnologia si è andato approfondendo e complicando fino al punto che la tecnica, sempre più immateriale e digitalizzata, sembra oggi prevalere su ogni altro aspetto.
La globalizzazione, lo sviluppo della rete e dell’‘infosfera’, la virtualità del rapporto col mondo e, in prospettiva ravvicinata, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e della robotica, prefigurano cambiamenti culturali e sociali di cui è difficile prevedere la portata.
La tecnica ha trasformato l’oggetto nella pura rappresentazione di sé e l’interfaccia con lo stesso sembra sempre più indiretta e mediata attraverso tecnologie digitali difficilmente accessibili ad una persona ‘normale’. Contemporaneamente però ha aperto a tutti, attraverso i social, la possibilità di esprimersi e comunicare secondo modalità individuali.
Per spiegare le ricadute di questo cambiamento rispetto a qualsiasi ragionamento sul ruolo del design è necessario riflettere sull’evoluzione del rapporto che si viene a creare tra le nostre necessità e la tecnologia, riprendendo i tre diversi livelli di complessità di interfaccia che il ragionamento di Luciano Floridi ci propone4.
Floridi scrive che quando le tecnologie agiscono tra utenti umani e ‘suggeritori naturali’, cioè elementi che suggeriscono una possibile funzione, possiamo qualificarle come tecnologie di primo ordine. Ad esempio un uomo che utilizza un’ascia per tagliare il legno (Umanità < Tecnologia > Natura).
Le tecnologie di secondo ordine sono invece quelle che pongono gli utenti in relazione non più con la natura ma con altre tecnologie: vale a dire, sono quelle tecnologie i cui ‘suggeritori’ determinano altre tecnologie. Un esempio facilmente comprensibile è quello del cacciavite che sta tra noi e la vite, che è in realtà un altro elemento tecnologico, il quale si trova a sua volta tra il cacciavite e, per esempio, due pezzi di legno (Umanità < Tecnologia > Tecnologia).
Il motore inteso come tecnologia che fornisce di energia un’altra tecnologia, è probabilmente la più importante tecnologia di secondo ordine.
Quando invece sentiamo parlare di ‘internet delle cose’, in cui tecnologie di terzo ordine operano indipendentemente dagli utenti umani, capiamo immediatamente che un altro passo è stato compiuto perché fondamentalmente stiamo parlando di tecnologie che dialogano tra loro in totale autonomia (Tecnologia < Tecnologia > Tecnologia).
Questo processo appare definitivamente compiuto se immaginiamo un’intelligenza artificiale in grado non solo di ‘dialogare’, ma di creare ed evolvere in autonomia nuove forme di tecnologia. La domanda che è lecito se non doveroso porsi è: quale può essere il ruolo del design in una situazione in cui le tecnologie sono sempre più pervasive e meno controllabili dal fattore umano? Che tipo di formazione devono avere i designers del futuro per poter dare un contributo reale nello sviluppo di soluzioni avanzate e soprattutto utili alle persone e alla società?
Il design nell’era dell’infosfera
È opinione piuttosto diffusa che l’epoca che si sta affermando sarà caratterizzata dalla disponibilità massiccia di un sempre maggior numero di informazioni (i famigerati Big Data) e che l’intelligenza artificiale che se ne avvale con grande efficacia, potrebbe sostituire quella umana.
Questo scenario piuttosto inquietante è stato sostenuto anche da autorevoli studiosi che hanno addirittura scritto, ispirandosi ad un modello neo-baconiano, che in presenza di dati sufficienti, il metodo scientifico fatto di ipotesi-modello-verifica, diventerà obsoleto5.
Sono d’altronde conosciuti da tutti gli scenari distopici, diffusi da cinema e letteratura, in cui l’intelligenza artificiale, oramai divenuta autonoma, si impadronisce del mondo sopraffacendo l’umanità.
In realtà le cose sembrano essere molto più complesse e incerte. Infatti, nonostante che l’accesso ai Big Data, attraverso capacità computazionali elevate, apra già oggi a risultati notevoli in molti campi (abbiamo già molti esempi nella medicina, nell’informazione e naturalmente nelle applicazioni militari7), rimane invece aperto un grandissimo problema di conoscenza per raggiungere la quale è sempre indispensabile una capacità di spiegazione e comprensione della realtà che è molto di più di una semplice correlazione, per quanto complessa, tra le informazioni contenute in un database.
La capacità di porre domande e dare risposte, come dice Platone in uno dei suoi più famosi dialoghi, è l’unica che ci permette di capire quali dati sono veramente utili e rilevanti e in definitiva quale significato possono assumere; questa capacità rimarrà ancora per molto tempo esclusivamente umana.
«La nostra tecnologia corrente non è in grado di processare alcun tipo di informazione dotata di significato, essendo impermeabile alla semantica, vale a dire, al significato e all’interpretazione dei dati che manipola. Le ICT (Information Communication Tecnology) sono erroneamente definite come “armi intelligenti”».(Luciano Floridi)»8.
Tralasciando la spinosa questione del controllo dei dati e delle tecnologie in grado di valorizzarli, che possono portare beneficio alla collettività piuttosto che un grande potere riservato a pochi, possiamo affermare che la trasformazione in atto, più che essere incentrata sullo sfruttamento di una qualche forma di intelligenza superiore, consiste nell’adattamento del mondo alle limitate capacità delle ICT per sfruttarne le straordinarie capacità computazionali. Sostanzialmente, quello che stiamo facendo consiste nell’adattare l’ambiente alle nostre tecnologie ‘smart’, molto efficienti ma sostanzialmente stupide, creando situazioni controllate (metaforicamente dei ‘recinti’) entro le quali le stesse possano funzionare con successo.
In questo contesto il ruolo del design, oltre agli ambiti tradizionali, può essere d’aiuto per il corretto sviluppo di alcuni aspetti di fondo: grazie al suo approccio intrinsecamente ‘semantico’, cioè specializzato nell’attribuire significato e valore a forme materiali piuttosto che simboliche ed immateriali, e alla sua attitudine a mediare tra saperi e competenze differenti (tecniche, artistiche, culturali), potrà sempre più partecipare alla definizione di ‘pattern interpretativi’ in grado di individuare e valorizzare le informazioni più importanti, traendole dall’oceano indistinto dei ‘big data’, per trasformarli in proposte progettuali con obiettivi e ricadute ‘a misura d’uomo’.
D’altro canto l’adattamento del mondo al funzionamento delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale, con tutti i rischi che comporta, ha sempre più bisogno di capacità progettuali che riescano a tenere l’uomo al centro di ogni prospettiva di sviluppo. Per ottenere questo risultato è necessario l’apporto di professionalità che contribuiscano a modificare lo schema ‘Tecnologia < Tecnologia > Tecnologia’ per trasformarlo in ‘Tecnologia < Umanità > Natura’.
Anche le scuole di design nel loro specifico avranno quindi il compito di formare persone in grado di sviluppare ed applicare una naturale propensione all’analisi, all’ipotesi e alla risoluzione dei problemi, ma mentre questo approccio fino ad ora ha riguardato principalmente la realtà oggettuale, nel futuro riguarderà una infosfera sempre più complessa nella quale la convivenza tra uomini, macchine e natura dipenderà anche dall’individuazione di nuove e sostenibili forme di relazione tra ambiente, persone, robot e AI.
La teoria dei sistemi applicata al design
Abbiamo visto come ancora oggi non sia facile trovare una definizione soddisfacente, completa e condivisa su cosa sia il design nella sua accezione più classica. Ciò significa che sarà ancora più difficile trovare una spiegazione chiara ed efficace su cosa sia il ‘design dei sistemi’. D’altronde bisogna tenere conto del fatto che «Colui che deve risolvere problemi complessi o gestire situazioni difficili – il manager,
l’amministratore, il progettista – rimane anche affascinato da concetti come “sistema”, “emergenza”, “caos”, ma viene subito frustato dall’incapacità di capire come possano svolgere un ruolo concreto nella sua esperienza quotidiana che, almeno in parte, gli risulta comprensibile ricorrendo a concetti vecchi come “causa”, “effetto”, “meccanismo” e simili.» 8
Già verso la metà degli anni ottanta erano in incubazione processi che, di lì a pochi anni, avrebbero trasformato il mondo in cui viviamo; il problema della sostenibilità ecologica del nostro modello di sviluppo era oramai evidente. Gli stessi metodi formativi della scuola e dell’università non sembravano tenere il passo dell’elaborazione di nuove forme di saperi, che l’urgenza di queste tematiche poneva.
In Inghilterra ad esempio, il pensiero di Bruce Archer del Royal Collge of Art, in sintonia con quanto sostenuto da altri studiosi come lo stesso Argan, individuava la necessità di sviluppare il segmento mancante del modello educativo proponendo di aggiungere il ‘design’ alle discipline ‘classiche’ scientifiche ed umanistiche, in quanto l’unica in grado di promuovere una necessaria quanto indispensabile alfabetizzazione e diffusione di una ‘cultura materiale’, mentre proponeva un Systematic Method for Designers ispirandosi in parte alla Teoria generale dei sistemi di Bertalanffy.10
È da questo contesto che nasce nell’ISIA Roma Design l’idea di superare il concetto di ‘sistema’ espresso già dagli anni ’60 dalla scuola di Ulm: un esempio di ‘prima sistemica’, riferita semplicemente alla razionalizzazione dei componenti in grado di dar luogo ad un oggetto o ad un sistema di oggetti, ma sempre all’interno di uno schema pianificabile con precisione e sostanzialmente statico.
La ‘nuova sistemica’ che si voleva sviluppare (definibile come sistemica di ‘secondo livello’), presupponeva invece capacità di autogenerazione e interazione del sistema progettato in rapporto con una realtà complessa e mutevole. Il forte legame concettuale con le teorie della complessità ha rappresentato fin da subito il passaggio da un paradigma ‘riduzionista’, caratterizzato da un’ambizione di controllo assoluto del progettista su ogni specifico aspetto del progetto e delle sue ricadute, fino all’adozione di un modello ‘aperto’ che, prevedendo ‘l’impossibilità della conoscenza completa’, proponesse soluzioni parziali in grado di evolvere e di adattarsi ai cambiamenti e di comprendere un ragionevole grado di ‘incertezza’.
La nascita del nuovo indirizzo formativo si è avvalso di una serie di autori e testi di riferimento: Bauman “Modernità liquida”, Capra “La rete della vita”, Maturana e Varela “Autopoiesi e cognizione”, Minati “Esseri collettivi”, Morin “La testa ben fatta”, e naturalmente Von Bertalanffy “Teoria generale dei sistemi” (solo, ovviamente, citandone alcuni).
Da essi sono stati ricavati concetti che hanno costituito le fondamenta di questo corso: la “liquidità” delle strutture sociali e produttive contemporanee, l’interrelazione tra tutti i soggetti attivi di un sistema che conferiscono proprietà differenti rispetto alla mera sommatoria delle parti che lo compongono risultando anzi originali, la dinamica non lineare dei processi emergenti legati alla coscienza, l’autogenerazione delle reti biologiche e naturali e la capacità dei sistemi autopoietici di ridefinire e riprodurre continuamente se stessi.
Se dovessimo descrivere visivamente le differenze tra le due forme di sistema che abbiamo descritto, dobbiamo immaginare uno schema rigidamente strutturato, con una gerarchizzazione definitiva e ‘stabile’ degli elementi (sistema di ‘primo livello’), contrapposto ad una rete con struttura variabile e deformabile dove ogni snodo può diventare, a seconda dei casi, centrale per il sistema (sistema di ‘secondo livello’).
Una didattica per il design dei sistemi
Anche nel design uno degli aspetti più complessi nell’elaborazione del pensiero è la ricerca e la selezione delle informazioni più utili per gli obiettivi da raggiungere. Nella maggior parte dei casi si è portati ad utilizzare modelli definiti nei quali inserire le nuove informazioni, ma le capacità di riconfigurarle, individuando nuove relazioni per favorire l’emergere di nuove soluzioni progettuali, rappresenta da sempre una sfida.
I metodi tradizionali di pensiero lineare ci insegnano come approfondire tali modelli e stabilirne la validità attraverso un processo di verifiche consequenziali, realizzate ‘una dopo l’altra’. Difficilmente però riusciremo con questo metodo a trovare idee innovative, traendo dalle informazioni disponibili, il massimo delle possibilità se non sappiamo creare nuovi modelli per sfuggire al dominio dei vecchi.
Se il pensiero verticale fondamentalmente si occupa di sviluppare modelli concettuali ‘statici’, il pensiero laterale invece riguarda la ristrutturazione di vecchi modelli (l’intuizione) e la stimolazione di nuovi (la creatività). Il pensiero verticale e quello laterale sono quindi complementari ed è necessario poterli praticare entrambi, ma nel campo dell’educazione storicamente è stato il primo ad essere maggiormente valorizzato. La necessità di ricorrere al pensiero laterale sorge quindi dalla constatazione che il comportamento della mente spesso tende a circoscrivere il campo di attenzione dell’intelligenza allo scopo di minimizzare gli sforzi rispetto ad un problema da risolvere. Questo tipo di pensiero, pur essendo efficace in molte situazioni, limita la possibilità di emersione di soluzioni innovative che hanno invece bisogno di un sistema di informazioni più allargato e dinamico che consenta di far emergere relazioni prima impreviste tra i diversi elementi. Osservare i problemi da differenti punti di vista non è in questo caso un semplice modo di dire ma diventa un modo di operare ed un obiettivo della didattica.
Nella genesi del nuovo progetto formativo del ‘design dei sistemi’ alcune tematiche affrontate hanno avuto un posto importante orientando fin dai primi anni gli studenti alla progettazione di ipotesi per il futuro, come ad esempio quelle legate alla sostenibilità: progettare un sistema “sostenibile” rappresenta in termini di efficienza un vantaggio enorme. Dal punto di vista didattico però, diventa fondamentale stabilire quale deve essere l’approccio e il punto di vista del progettista rispetto ai temi da affrontare.
Esiste una prima modalità che vede lo studente-designer posto fuori dal sistema (prima del) con l’ambizione di progettarne tutte le caratteristiche e le relazioni interne in grado di farlo funzionare. Il punto di vista del progettista è in questo caso metaforicamente ‘esterno dall’alto’ rispetto ad una realtà nella quale si vuole intervenire.
Il rischio o il limite di questo approccio, che per semplificare potremmo assimilare ad una forma di ‘pensiero lineare’, è che la posizione di ‘dominus’, che il progettista verrebbe ad assumere (come già nell’utopia dei movimenti razionalisti, il progettare in toto una “modernità nell’ordine”), non gli consenta di capire dall’interno la complessa rete di relazioni che esistono tra l’uomo, la natura e la tecnica.
Ma esiste un altro punto di vista, forse più problematico ma interessante, che vede il designer (e quindi nel nostro caso lo studente) immerso in un sistema di cui è solo una piccola ‘molecola’ che agisce dall’interno. In questa concezione gli elementi naturali, quelli tecnologici e quelli sociali non sono separati ma anzi interconnessi e il progettista deve imparare dall’interno del sistema a mettere in atto strategie di design che producano effetti virtuosi.
Il design delle relazioni nei sistemi complessi
«La fisica moderna pullula di nozioni relazionali, non solo nei quanti: la velocità di un oggetto non esiste in sé, esiste solo rispetto a un altro oggetto; un campo in sé non è elettrico o magnetico, lo è solo rispetto ad altro, e così via.» «I sistemi complessi sono tutti quei sistemi che sono lontani da uno stato di equilibrio e in cui l’interazione di molti componenti individuali produce comportamenti globali difficili da prevedere. Sono ovunque intorno a noi, dal movimento dei fluidi al volo degli stormi di uccelli.» (Carlo Rovelli) 10
La sfida di immaginare un futuro sostenibile non può non coinvolgere anche il design: ripensare il design come una disciplina che progetta innanzi tutto relazioni. Nell’insieme vasto e interconnesso dei fenomeni che costituiscono la realtà ogni elemento dipende da qualcos’altro, attraverso un complesso sistema di relazioni in continua evoluzione e gli stessi progettisti sono parte di questo sistema.
Un progetto formativo per il design deve quindi immaginare in che modo lo studente-designer interagisce con una realtà complessa nella quale l’ecosistema e l’infosfera digitale creata dall’uomo hanno delineato una nuova situazione.
Appare chiaro come, all’interno del piano di studi della specialistica in ‘design dei sistemi’ sia necessario trovare una sintesi e un equilibrio tra l’esigenza di dotare lo studente di ‘competenze tecniche di base’ (funzione in gran parte assolta da un corso triennale) e altri spazi dove, con un approccio più sperimentale, si tenti di aprire nuove strade. Per questo motivo è necessario un giusto mix tra corsi che hanno come obiettivo principale la realizzazione di esercitazioni ‘progettualmente compiute’ ed altri nei quali diventa prevalente la costruzione di percorsi progettuali che favoriscono l’apprendimento e la ‘personalizzazione’ delle metodiche.
Esiste quindi un approccio che consiste nell’individuare tecniche, conoscenze e linguaggi di base, da utilizzare nella loro essenza e significato profondo, mettendo in secondo piano i risultati estetico-formali raggiungibili nell’immediato. In questo modo è possibile elaborare una cultura del design e un proprio linguaggio specifico con il quale poter ‘scrivere’ e ‘tracciare’ nuovi percorsi progettuali, orientati alla ricerca di soluzioni innovative e ricadute positive nella nostra realtà.
Un approccio che, come scrive Giordano Bruno «può definirsi sistetico quando è in grado di far rilevare a un soggetto (collettivo) proprietà emergenti dall’interazione dei suoi elementi costitutivi che abbiano caratteristiche inscindibili di bello e buono percepibili dallo stesso soggetto»11.
Per descrivere un possibile approccio didattico adeguato al design dei sistemi può essere utile ricorrere ad una metafora: immaginiamo di confrontare la ‘navigazione’ di individui all’interno di un territorio fortemente urbanizzato con quello di una carovana nomade che debba attraversare il deserto senza avere a disposizione strumenti di navigazione satellitare.12
Nel primo caso le persone necessiteranno di informazioni molto precise, ottenibili attraverso strumenti cartografici o digitali e soprattutto realizzeranno i loro spostamenti all’interno di un reticolo preordinato di strade che ne limiterà, in ogni caso, le possibili varianti di percorso. Queste persone dovranno muoversi all’interno di uno ‘schema’ preordinato e anche il loro stesso orizzonte, la loro visione, ne rimarrà indubbiamente condizionata.
Nel secondo caso invece i nomadi della nostra carovana si troveranno ad affrontare una situazione completamente diversa. Avranno ricevuto sicuramente una serie d’indicazioni rispetto al territorio in cui dovranno avventurarsi: un’oasi, una montagna, un albero, un racconto orale, qualsiasi cosa che possa costituire un punto di riferimento nel deserto.
La carovana però dovrà muoversi in questo contesto valutando tutta una serie di opzioni alternative che vanno dalle condizioni climatiche, ai movimenti delle dune, alle riserve d’acqua ecc., pronta a modificare in ogni momento il percorso, ove fosse necessario. Soprattutto i viaggiatori nomadi non potranno seguire un reticolo di strade e sentieri chiaramente tracciati in precedenza, ma si troveranno a dover fare le scelte della direzione da prendere nella quasi totale libertà e potranno contemporaneamente apprezzare la suggestione estetica di un tramonto tra le dune. Ogni viaggiatore in questo modo sarà costretto ad ‘imparare’ non tanto ‘una strada’ ma una complessa capacità di orientamento, relazionandosi con il territorio e con altre persone, rafforzando così le proprie conoscenze razionali ed intuitive, accrescendo l’empatia con i propri compagni di viaggio e con il mondo, per arrivare ad elaborare una forma di intelligenza e di cultura del viaggiare.
È forse lo sviluppo di questa capacità di orientamento e navigazione nella complessità e nell’incertezza uno dei principali obiettivi formativi di un corso di design orientato al futuro, nella consapevolezza del difficile confronto che giovani progettisti avranno con una realtà professionale che richiede più spesso capacità dedicate alla creazione di soluzioni formali ed emozionali per la vendita di un prodotto, piuttosto che ideazione di progetti che presuppongano una visione del bene comune.
«… all’interno di questa visione sarà pressante inserire e dare dignità a tutti quei termini che nella cultura ancora dominante sono considerati come elementi limitativi, quali: incertezza, incompletezza, indeterminatezza. Che, al contrario, diventano elementi portanti di un profilo non lineare, complesso, non completamente definito, aperto ai mutamenti cognitivi, che permette lo sviluppo della dinamica interna ed esterna all’oggetto, al progetto, alla persona e agli esseri collettivi, in stretta interazione con l’ambiente e il contesto» (Giordano Bruno)13.
Mario Fois
Note
1 Da, Il progetto della bellezza – Il design tra arte e tecnica dal 1851 a oggi, Maurizio Vitta, Einaudi
2 A tale proposito si legga Introduzione al design italiano. Una modernità incompleta, di Andrea Branzi
3 Si legga la descrizione della didattica di Johannes Itten su Bauhaus, di Magdalena Droste, Taschen
4/6 Su queste tematiche il pensiero di Luciano Floridi appare particolarmente acuto, si legga La quarta rivoluzione – Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina Editore
5La fine della teoria: il diluvio di dati rende obsoleto il metodo scientifico, di Chris Anderson
7 Si legga a questo proposito l’interessante paper di Alex J. Ryan, Una teoria del design sistemico, dove l’autore esamina l’approccio degli eserciti USA, israeliano e australiano, come punto di partenza per una metodologia applicabile al design civile
8 Dalla prefazione di E. Pessa e M. P. Penna a Esseri collettivi. Sistemica, fenomeni collettivi ed emergenza di Gianfranco Minati, Apogeo
9 Si leggano The Three Rs e The Need for Design Education di Bruce Archer. Archer ha insegnato alla Hochschule für Gestaltung di Ulm dal 1960 al 1963 e successivamente al Royal College of Art. È stato uno dei primi teorici del design che ha compreso l’importanza della Teoria generale dei sistemi di von Bertalanffy utilizzandola come spunto per la sua proposta metodologica Systematic method for designers.
10 Carlo Rovelli, Helgoland e si veda anche Sette brevi lezioni di fisica
11 e 13 Giordano Bruno, Necessità di una “Sistetica”
12 Su questo tema si legga anche Walkscapes: camminare come pratica estetica di Francesco Careri
Bibliografia essenziale
La sfida della complessità – G. Bocchi, M. Ceruti
Modernità liquida – Zygmunt Bauman, Laterza
Arte come design – Storia di due storie – Manlio Brusatin, Einaudi
Il progetto della bellezza – Il design tra arte e tecnica dal 1851 a oggi – Maurizio Vitta, Einaudi
Storia del design – Renato De Fusco, Laterza
Manuale di storia del design – Domitilla Dardi, Vanni Pasca
La quarta rivoluzione – Come l’infosfera sta trasformando il mondo – Luciano Floridi, Raffaello Cortina Editore
Umani e umanoidi – Vivere con i robot – Roberto Cingolani, Giorgio Metta, Il Mulino
La società della rete – Nuove idee per l’uomo del futuro – Cosimo Orban, Hoeply
Macchine intelligenti – Watson e l’era del cognitive computing – John E. Kelly III, Steven Hamm, Egea
Il nostro futuro – Come affrontare il mondo dei prossimi vent’anni – Alec Ross, Feltrinelli
Necessità di una “Sistetica”, Giordano Bruno
Esseri collettivi. Sistemica, fenomeni collettivi ed emergenza, di Gianfranco Minati, Apogeo
Diverse Sistemiche – Gianfranco Minati, convegno ISIA Roma Design
Parole di sistemica, Gianfranco Minati, quaderni dell’AIEMS
Creatività e pensiero laterale – Edward de Bono
La sfida della complessità – Edgar Morin
Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione – Edgar Morin