‘Reincantare il mondo’: le potenzialità dell’arte per l’educazione all’inclusione e alla cultura democratica

Pamela Giorgi e Veronica Caciolli (*)

‘Reincantare il mondo’ è una bella mostra che si sviluppa, a Firenze, coinvolgendo le cinque principali comunità religiose fiorentine (Centro Ewam Buddhista Tibetano, Chiesa di Santa Felicita, Moschea, Sinagoga, Villa Vrindavana,) e uno spazio civico, il Semiottagono delle Murate. In questo percorso si intrecciano luoghi urbani, religioni diverse, altrettanti artisti afferenti alle suddette comunità. La scelta è motivata dal desiderio di manifestare un possibile “reincantamento” del mondo attraverso l’arte e le differenti forme spirituali ed etiche che coinvolgono gli artisti, le comunità e gli spazi prescelti. Voci che costituiscono una parte per il tutto, con lo scopo di emanare un messaggio universale attraverso le differenze, differenze che   rappresentano contenuti leggibili da un punto di vista spirituale/religioso, etico, cosmologico e relazionale. Di seguito le risposte ad alcune domande poste alla curatrice, Veroni Caciolli, che mette in luce come la mostra stessa non sia circoscrivibile solo all’arte in senso stretto, ma abbia potenzialità e risvolti pratici di educazione alla cittadinanza.

Globalizzazione, grandi fenomeni migratori legati a motivazioni plurime … hanno reso anche il nostro un paese multiculturale, ponendoci la questione della convivenza tra le varie culture. Quali pensi che siano gli aspetti maggiormente ostativi a questo processo e quali le strategie attuabili col contributo del tuo settore? Ovvero quello artistico-culturale che inevitabilmente approccia anche il tema della formazione extra-formale?

Il processo di progressiva contiguità tra persone con identità culturali diverse, nonché religiose, ha spesso condotto a conflitti. Nell’ambito dell’antropologia culturale ci sono però in particolare due posizioni che considerano la vicinanza, anche forzata, così come i processi di globalizzazione, come fattori positivi. Da una parte James Clifford (1988) sostiene che il contatto tra culture diverse possa generare un rafforzamento di ciascuna identità nonché la rinascita di tradizioni culturali. Dall’altra Homi Bhabha (1994) ritiene che la convivenza conduca alla generazione del cosiddetto terzo spazio, ossia un nuovo territorio di cultura ibridizzata. In ambito più strettamente artistico, dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, grazie alla caduta del Muro di Berlino e alla diffusione dei fenomeni di globalizzazione, anche culturali, si sono delineate nuove “geografie artistiche” (Pinto, 2012) che da una parte hanno permesso l’inclusione nel sistema dell’arte occidentale di artisti fino ad allora esclusi e dall’altra hanno ugualmente favorito la sperimentazione di forme nuove e ibridizzate (con il rischio tuttavia talvolta di un secolare appropriazionismo bieco). Il confronto tra diversità è sempre delicato e complesso ma a mio avviso può stimolare la tolleranza e la conoscenza, generare ispirazione e rinnovamento. La mostra Reincantare il mondo è un tentativo di darne testimonianza.

La mostra diffusa ‘Reincantare il mondo’ che hai curato, coinvolge le cinque principali comunità religiose fiorentine (Centro Ewam Buddhista Tibetano, Chiesa di Santa Felicita, Moschea, Sinagoga, Villa Vrindavana): dove si trovano in città? Sono comunità poco numerose, numerose, isolate? Oppure, viceversa, molto integrate? Le comunità hanno rafforzato il legame tra loro grazie all’evento? Chi sono gli artisti coinvolti e cosa portano in mostra riguardo al tema prescelto?

Tutte le comunità si trovano in città, eccetto il Centro Ewam Buddhista Tibetano, collocato in via Pistoiese nella prima periferia di Firenze e Villa Vrindavana, ubicata a San Casciano Val di Pesa in Chianti. Sono generalmente comunità piuttosto ristrette ma frequentate da un pubblico relativamente ampio grazie anche agli eventi inclusivi e culturali che normalmente promuovono. A Firenze esiste un tavolo interreligioso di confronto promosso dalla Regione Toscana e dal Comune di Firenze da oltre quindici anni, più attivo negli ultimi tempi. Questa mostra si pone come una sua amplificazione, mediale e metaforica. Oltre alle cinque comunità religiose ho voluto coinvolgere anche uno spazio laico, per suggerire che un’attitudine spiritualista tesa alla coesione e al progresso della coscienza non è un dominio esclusivo dell’approccio religioso: si tratta del Semiottagono delle Murate, che ho scelto grazie alla collaborazione di Valentina Gensini, direttrice artistica del MAD.

Ognuno dei sei artisti rappresenta contenuti che possono essere letti sia da un punto di vista spirituale/religioso che etico, cosmologico e relazionale.

Nel progetto in progress dal 2011 While waiting for something to change, Lisa Batacchi (Firenze, 1980) si riappropria della cultura ebraica familiare attraverso la preparazione di dolci eseguiti da bambina assieme alla madre, le cui ricette erano state tramandate dalla nonna. Le tracce lasciate sulle carte da forno diventano per l’artista opere simboliche che testimoniano un’estetica ma anche una cultura, oltre che un incontro. Da qui l’idea di realizzare workshops coinvolgendo vari tipi di comunità italiane e internazionali, come copti e musulmani, al fine di realizzare un confronto prima umano, poi artistico e culinario, attraverso i media del cibo, della creatività e della condivisione. Per Reincantare il mondo l’artista ha prodotto dei dolci che incrociano ricette ebraiche e Hare Krishna, le cui forme costituiscono nuovi simboli che integrano le due religioni, sottolineando affinità di intenti e visioni piuttosto che differenze.

Nella serie Happiness and sadness, 2012-2017, Mohamed Keita (Costa d’Avorio, 1993) ha fotografato un’umanità di cui ignoriamo le storie e le identità. In questi suoi ritratti talvolta le persone guardano in macchina, talaltra vengono riprese di spalle. Si tratta di scatti spontanei di persone comuni osservate e avvicinate per strada. Per Keita la fotografia è un mezzo di condivisione, in cui possono avvenire processi di rispecchiamento. Il piccolo atlante umano che risulta mostra uno scenario costituito da evidenti differenze culturali e sociali e conduce a riconoscere la fondamentale fragilità di questo nostro genere. La fotografia per Mohamed acquista un ulteriore significato biografico e collettivo: oltre ad essere un medium tra l’uomo e il mondo, è lo stesso mezzo che ha potuto utilizzare per esprimersi quando è finalmente riuscito a sistemarsi dopo anni di migrazioni, ma documenta dunque al contempo, l’ipotesi della possibilità, per sé e per gli altri.

Nei tre dipinti del 2018 presentati in Moschea, Patrizio Landolfi (Battipaglia, 1954) ha esplorato un diverso livello di coscienza che si è espresso anche attraverso un uso profondo del colore. Il blu dominante, che ricorda cieli e mari, o un universo ancora più astratto e concettuale, richiama un livello di quiete assoluta, l’atarassia per i greci, shanti per gli induisti, che è il fine ultimo di ogni pratica meditativa o di saggezza. Anche queste tele richiamano uno spazio interiore e al contempo infinito e dunque condiviso, ponendosi come archetipi universali che oltrepassano il particolarismo delle forme.

Per questa mostra, Elisa Macci (Roma, 1977) presenta una serie di quattro mandala realizzati dal 2015 al 2021. Il processo esecutivo di ogni mandala richiede mesi per essere ultimato, una pratica che l’artista ha ereditato dalla tradizione Buddhista tibetana. Ogni mandala deve essere prodotto con cura in ogni sua fase: dalla preparazione della tela alla preparazione dei pigmenti, fino alla minuziosa stesura. Per l’artista questa è una pratica di riappropriazione del tempo, in cui può liberare le proprie energie creative, e nel tempo si costituisce una relazione tra lei e l’opera, con se stessa, con il soggetto e gli osservatori. Attraverso i suoi colori vividi e il simbolismo dei suoi soggetti, lo scopo del mandala infatti, è quello di modificare la mente di chi lo guardi.

Nella serie Charts (2018), Giovanni Ozzola (Firenze, 1982) unisce presente e passato, umano e cosmico, creando attraverso incisioni su alluminio, delle mappe di orientamento, personali e collettive. Da sfondi astratti emergono linee che si incrociano formando mappe dell’universo, geografie cosmiche, tragitti di viaggi che sfidano l’ignoto ma anche cicatrici e destini che si delineano sul palmo della mano, si incontrano, si sovrappongono dando vita a combinazioni infinite. “Il nostro destino – spiega l’artista – è già definito dal daimon che ci governa, sia nel Bene che nel Male. Il fatto di essere un tutt’uno con l’universo e di essere composti dalla solita materia ci fa riflettere sull’essere Parte di un organismo più grande e sullo svolgere una funzione precisa”. Atlantico (2022),il paesaggio marino stampato su ardesia, suggerisce ugualmente l’unione tra terra, acqua e cielo, uomo e natura, finito e infinito.

Le quattro grandi tele presentate da Tarshito (Bari, 1952) per questa mostra si collocano in un ambito partecipativo, sviluppato tra l’artista e alcune comunità artistiche tradizionali. Le opere sono state realizzate dal 2017 ad oggi assieme ad artisti dell’Orissa, del Bengala Occidentale, dell’Andhra Pradesh e del Telangana in India. Tutti i lavori sono il crocevia di estetiche a confronto che costituiscono non soltanto un ponte, ma anche una sintesi culturale espressa in confluenze di stili e soprattutto di messaggi spirituali, come figure umane nell’atto simbolico di trasformare i propri gesti in fioriture. Particolarismi e patrimoni materiali e immateriali, artistici e artigianali si incontrano e si fondono per creare geografie sacre e senza confini; un contributo al concetto di fratellanza che Tarshito esprime attraverso il linguaggio potenzialmente universale dell’arte. La mostra è in collaborazione con MAD, Murate Art District.

Ci descrivi meglio questo percorso espositivo, inquadrandolo in questa prospettiva specifica, che di fatto non è solo circoscritta all’arte in senso stretto, ma ne sottolinea le potenzialità ed i risvolti pratici di educazione alla cittadinanza…

La scelta di allestire sei mostre in cinque spazi religiosi ed uno laico con altrettanti artisti contemporanei afferenti ai sei spazi è motivata dal desiderio di manifestare un possibile “reincantamento” del mondo attraverso l’arte e le differenti forme spirituali ed etiche che ci coinvolgono. L’esperienza circoscritta di questi dodici attori si intende come una parte per il tutto, allo scopo di emanare un messaggio universale attraverso le differenze.
Le sei mostre intendono nel complesso offrire un contributo a Lo strano posto della religione nell’arte contemporanea (Elkins, 2004) mostrando l’attuale superamento del tabù di appartenenza religiosa e anzi un ritorno del sacro, nelle arti come in società. Preferendo rintracciare il valore dell’arte e della religione piuttosto che tentare di definirle (Graham, 2007), le mostre intendono portare alla luce questo rimosso secolare; investigare la coalescenza tra arte e religione, come possibile “reincantamento” del mondo; far emergere “zone di contatto”; incrociare valori etici e laici; assecondarne il potere ecumenico; promuovere il dialogo interreligioso, come atto rivoluzionario; intuire uno spirito del tempo e un orientamento che con buona probabilità saranno storicizzati in futuro. Il progetto complessivo è un coro finale che oscilla e si intreccia tra intuizione dell’assoluto, impegno sociale e identità, cadenzato dal susseguirsi di duetti tra artisti e comunità religiose e laiche. È una collezione di sconfinamenti, un catalogo metonimico di attitudini e correspondences.

Mi pare, infine, che l’evento da te curato voglia e riesca a dirci che la strada dell’interculturalità e l’educazione interculturale hanno come proprio modello pedagogico, quello della cooperazione, del confronto, dallo stare insieme, del dialogo e della reciproca conoscenza. Cosa ne pensi?

Non posso che essere d’accordo e ho cercato di manifestare questa mia posizione attraverso la scelta di spazi e artisti specifici, che con il dispositivo della mostra, funzionano come un testo a più voci se non addirittura come un testamento. Intorno al possibile disincanto e reicantamento del mondo la letteratura è piuttosto vasta, a partire dal sociologo Max Weber che ne La scienza come professione del 1919 sostenne che la progressiva diffusione del razionalismo non conduceva ad una conoscenza più approfondita del mondo, piuttosto a un suo disincantamento. Un secolo più tardi Silva Federici (2019) ha individuato nella figura della donna e dei commons due modelli di reincantamento. Io penso che l’arte, in quanto linguaggio per immagini e dunque potenzialmente universale abbia il potere e talvolta il dovere di diffondere efficacemente messaggi politici ed etici e certamente di far riconoscere le persone come abitanti una dimensione comune, in cui la differenza può solo essere fonte di arricchimento culturale e spirituale.

Giovanni Ozzola
Charts – Earth, 2018
incisione in alluminio, filo in bronzo, 180x120x1 cm
Sinagoga, Firenze
Courtesy: L’artista e Galleria Continua
Foto: Giorgio Barrera
Mohamed Keita
Happiness and Sadness, 2012-2017
fotografie su dibond, 33x50cm, 47x70cm (particolare)
Centro Ewam, Firenze
Foto: Giorgio Barrera
Elisa Macci
Mandala della compassione, 2019 
pigmenti e oro 24kt su cotone, 60×60 cm circa
Chiesa di Santa Felicita, Firenze
Foto: Giorgio Barrera
Tarshito
Veduta dell’installazione al Semiottagono delle Murate, Firenze
Foto: Giorgio Barrera

Patrizio Landolfi 
Veduta dell’installazione alla Moschea, Firenze
Foto: Giorgio Barrera
Lisa Batacchi 
Veduta dell’installazione a Villa Vrindavana, San Casciano Val di Pesa
Foto: Giorgio Barrera

(*)

Veronica Caciolli (1977) è storica dell’arte, curatrice e docente.

Dopo un biennio in Filosofia a Firenze, si laurea con lode in Fenomenologia degli Stili con Renato Barilli al DAMS di Bologna e consegue una serie di studi avanzati in Curatela, Antropologia dell’Arte, Storia delle Religioni e Esoterismo Occidentale a Berlino, Milano, Roma e Londra. Ha conseguito inoltre un Master di Ricerca in Cultural, Intellectual and Visual History presso il Warburg Institute di Londra.

Scrive per riviste d’arte come Segno, Exibart, Memecult.

Dal 2005 al 2007 è stata la responsabile delle mostre istituzionali e delle pubblicazioni per Photology, organizzando progetti che hanno coinvolto Mario Giacomelli, Enzo Cucchi, Joel-Peter Witkin, Claudio Abate e Achille Bonito Oliva.

Dal 2008 al 2015 è stata conservatrice delle collezioni del XX e XXI secolo e curatrice di mostre di arte contemporanea al Mart, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto.

Dal 2016 al 2019 in comando al Museo di Palazzo Pretorio a Prato, ha lavorato sulle stratificazioni simboliche del tempo con Pretorio Studio, invitando artisti a confrontarsi con i capolavori di Donatello, Filippo e Filippino Lippi, Lorenzo Bartolini, Jacques Lipchitz, con una residenza in museo e una mostra finale.

Attualmente è curatrice indipendente e insegna discipline dell’arte contemporanea in diverse università private di Firenze.

Ha pubblicato, tra gli altri, con Silvana Editoriale, Electa Mondadori, Gli Ori, Wip e Mousse Publishing.