di Antonella Giordano (*)
Nel ruolo di comunicatore – che assolvo da anni sia nei contesti istituzionali che in quelli deputati alla divulgazione giornalistica – mi sono sempre interrogata circa la dimensione operativa migliore affinché l’informazione varcasse la soglia perimetrale del fatto o dato notiziabile e si radicasse nel tessuto sociale, metamorfizzandosi in occasione di approfondimento e riflessione.
Divenisse, in buona sostanza, funzionale ad una dialettica dialogica tra chi scrive/comunica e chi legge/ascolta , essenziabilizzabile nella locuzione “fare cultura”.
Ciò nella convinzione che la più grande sfida per chi vuol fare Cultura sta nell’interpretare il tempo del vivere collettivo per poi impegnarsi nel trasmetterne i contenuti universali.
Cosa rappresenta il Costruire Cultura se non il modo con il quale ci si confronta con lo scorrere senza fine del tempo? Un’azione – a mio avviso – che trasforma una condizione di natura in una condizione di Cultura. Riedificare una civiltà resta, infatti, un fine possibile se la collettività comprende il valore della Cultura.
Esordisco con questo abbrivio perché dopo aver letto quattro libri incentrati su uno dei temi più affascinanti e controversi afferenti la Cultura digitale, ambito cui riservo da anni particolare attenzione per favorire un’ educazione alla conoscenza ma anche per studiarne le implementazioni nei contesti cui ho fatto riferimento – seppure fugace – in premessa .
Nel disordine culturale della rete in cui si consuma la lunga agonia della comunità dei libri trovo che sia doveroso arpionare l’attenzione su quelli recanti taluni temi su cui riflettere. Temi che per il loro potenziale formativo si offrono – in un’ottica analitica che non si marginalizzi al mero approccio topico – alla migliore comprensione di cosa rappresenti la cultura digitale nelle sue molteplici ricadute nell’attuale era, definita come “ digitale”. Uno degli argomenti più dibattuti concerne la privacy digitale, i pericoli dello sharenting e le conseguenze di un uso non regolamentato delle AI (deep voice, deep fake e social scoring, ad esempio).
Da quando è stata istituita l’Authority della Privacy ad oggi, è notorio che la normativa riguardo alla tutela della propria sfera privata ha dovuto misurarsi – in poco più di un ventennio – con le rivoluzioni 1.0, 2.0, 3.0, la 4.0 (identitaria della AI) ultima in ordine di tempo e più allarmante .
Seppure l’Europa abbia approvato lo scorso giugno la bozza dell’AI Act regolamentando l’utilizzo di tale tecnologia serpeggia in ambiente “media reports” una virulenta inquietudine – carburata da filosofi, giuristi, scrittori – circa il limite oltre il quale la “condivisione” dei propri dati (per esempio sui social che li raccolgono per rivenderli a scopo commerciale) diventa “esposizione” e dunque violazione dei diritti. Inquietudine che spesso disorienta la cultura consapevole (che dovrebbe valorizzare i vantaggi della rivoluzione digitale per il progresso dell’umanità) polarizzandola verso un superficiale compendio dei rischi.
Una buona cultura e altrettanto buone competenze acquisite attraverso una formazione valida possono, invece, convergere nella elaborazione di soluzioni tecnologiche e politiche per tutelare la privacy delle persone, anche nelle sue implicazioni psicologiche ed etiche.
In tale prospettiva è necessario educare, nel contempo, alla conoscenza favorendo percorsi formativi scientifici (ex multis: DiCulther) e buone letture di libri che attraverso un linguaggio non tecnico, ma narrativo o in stile saggistico, permettano di offrire spunti di riflessione su argomenti che sempre più affollano il quotidiano social e digital.
Ciò detto mi permetto di dare qualche suggerimento di lettura di libri.
“Tutto per i bambini” è il romanzo di Delphine de Vigan, autrice francese che da sempre scrive racconti su tematiche legate alla famiglia, agli adolescenti e alle sfide contemporanee del parenting con uno stile avvincente. Il romanzo, in Italia edito da Einaudi, descrive con linguaggio scorrevole e appassionante la vita social tra stories, post e reel di una famiglia parigina che improvvisamente si trova davanti a uno sconvolgimento: la più piccola di casa scompare. Non si tratta di un thriller o di un noir con risvolti inquietanti, l’intento della scrittrice è di far riflettere il lettore attraverso una storia verosimile, su come e quanto lo sharenting possa influenzare comportamenti futuri e modi di pensare dei bambini coinvolti. Il secondo livello di lettura è se da un punto di vista giuridico si vada a ledere il diritto alla riservatezza del bambino che forse, da adulto, potrebbe avere da ridire rispetto al comportamento poco rispettoso della sua privacy da parte del genitore (seppur rari, esistono già casi di figli che denunciano i genitori per averli esposti eccessivamente in tenera età).
“I figli dell’algoritmo: sorvegliati, tracciati, profilati dalla nascita” di Veronica Barassi (edizioni Luiss) è un saggio sul tema dello sharenting, incentrato sulla domanda “dove finiscono i dati che condividiamo nella rete e quale utilizzo ne viene fatto?”. La Barassi – studiosa che ha insegnato per molti anni Media, Communications, and Cultural Studies alla Goldsmith University di Londra, prima di diventare professoressa ordinaria all’Università di San Gallo, in Svizzera – porta il suo contributo nell’ambito dei surveillance studies, ovvero quel filone di studi di cui “Il capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff è il punto di riferimento principale. “Per la prima volta stiamo creando una generazione “datificata” da prima della nascita– scrive l’autrice. – I dati dei nostri bambini vengono aggregati, scambiati, venduti e trasformati in profili digitali, e sempre più utilizzati per giudicarli e decidere aspetti fondamentali della loro vita”. Partendo dalla sua storia personale, dalla gravidanza e le prime esperienza di genitorialità, Veronica Barassi si è tuffata con gli strumenti dell’antropologa digitale nel mare di dati nostri e dei nostri figli di cui lasciamo traccia ogni giorno online, trovandosi di fronte a una verità tanto semplice quanto inquietante: l’era digitale ci ha catapultati in un mondo nuovo, quello del capitalismo della sorveglianza, che ha completamente riscritto i concetti di libertà, privacy e controllo. C’è un piccolo particolare: nessuno ci ha informati prima.
“Sei vecchio. I mondi digitali della Generazione Z”, di Vincenzo Marino (edizioni Nottetempo) è un’indagine su abitudini e passioni digital della GenZ. Il tema guida è l’intrattenimento online: infatti è nella costante interazione con i social network – da Instagram a TikTok, da Twitch a YouTube – che la Gen Z trova uno specchio di sé e vede racchiuso il proprio universo contenutistico o meglio il proprio content. Non è facile comprendere davvero qual è la molla che spinge un ragazzo a inseguire per ore su Tik Tok o su Twitch il proprio guru o maestro di gaming o il proprio idolo musicale, quello che sicuramente colpirà i non GenZ è scoprire che i giovani hanno moltissime passioni, ma tutte nuove e decisamente diverse da quelle delle generazioni precedenti.
“BlackBox, sicurezza e sorveglianza nelle nostre città” di Laura Carrer (Ledizioni) è un saggio ambientato in quel mondo, un tempo considerato distopico, che oggi attraverso le Intelligenze Artificiali sta diventando realtà. Città e ambienti quotidiani in cui strumenti come la sorveglianza, il riconoscimento facciale, la polizia predittiva e la lotta al crimine sono ipotesi al vaglio di decisori e politici, se non già applicazioni pratiche. La Carrer, giornalista di inchiesta che da anni si occupa di questi temi si domanda: cosa potrebbe succedere se al sistema di video-sorveglianza diamo la possibilità, in autonomia e senza una vera supervisione umana, di individuare il volto di una persona e associargli un’identità e un punteggio? L’utilizzo di queste tecnologie all’apparenza neutrali, indipendenti e più precise dell’uomo, infatti, risulta imperfetto e portatore di diversi pregiudizi. In Italia, solo per dare alcuni elementi concreti, nel 2017 la Polizia Italiana si è dotata del sistema S.A.R.I. (Sistema Automatico di Riconoscimento Immagini). Dopo tre anni, nel 2020, l’amministrazione comunale di Como ha installato il primo sistema di riconoscimento facciale in Italia. Le politiche securitarie, sorveglianza e tecnologie biometriche vanno a configurare un sistema di nuovi strumenti a supporto di quel “potere disciplinare” di cui parlava il filosofo Foucault. In Black Box la Carrer racconta i casi attuali di utilizzo dei sistemi biometrici, inevitabilmente soggetti a bias algoritmici e riflette sul concetto di sicurezza urbana e di società che, attraverso queste applicazioni, si viene a configurare.
Nel ribadire che, oltre ad affidabili fonti di informazione, è ineludibile l’importanza di buoni libri concludo ricordando che in un buon libro si sublima il connubio tra la limitatezza numerica delle sue pagine e l’illimitata grandezza dell’argomento di cui tratta.
Antonella Giordano, giornalista e comunicatore pubblico, docente universitario (UniSiena e Meier), condirettore di IWP e Radio Regional, Senatore accademico della Norman Academy, tra i molti incarichi istituzionali è stata responsabile dei dati soggetti a pubblicazione sul sito istituzionale dell’Agenzia delle entrate (ex art. 10, comma 1 del Dlgs n. 33/2013 come modificato dall’art. 10 del Dlgs n. 97/2016 disposizioni in materia di prevenzione della corruzione e della trasparenza)