Intervista ad Antonio Lampis a cura di Michela Antino (DiCultHer)
Il dottor Antonio Lampis ha diretto per tre anni la Direzione Generale dei Musei d’Italia presso il MiBACT[1]. Il suo percorso nella sede di Roma è cominciato a settembre 2017, in un’epoca in cui ancora non immaginavamo la pandemia e tutte le sue drastiche conseguenze. Da agosto 2020, invece, è ritornato nella sua città di origine Bolzano, dove ricopre il ruolo di Direttore del Dipartimento Cultura Italiana, Ambiente ed Energia presso gli uffici della Provincia autonoma di Bolzano. Sotto la sua guida la Direzione Generale dei Musei ha apportato importanti cambiamenti al sistema museale italiano, delle evoluzioni che con l’arrivo della pandemia si sono dimostrate fondamentali: il Piano Triennale per la Digitalizzazione e l’Innovazione dei Musei e l’avvio del Sistema Museale Nazionale.
Per il mio lavoro di tesi dal titolo “digitalizzazione della comunicazione museali: i musei italiani durante il lockdown” in comunicazione pubblica e d’impresa presso l’Alma Mater di Bologna, ho avuto l’onore di intervistare il dottor Lampis. Ne è emersa un’interessante intervista, contenente il suo punto di vista sulla reazione dei musei italiani al periodo di lockdown, quando i musei hanno svuotato le proprie sale, chiuso le porte e aperto profili sui social. Abbiamo inoltre discusso del ruolo degli strumenti digitali all’interno delle sale espositive, del rapporto con il pubblico e con le nuove generazioni e del futuro dei musei.
Michela Antino:
Durante il primo periodo della pandemia, caratterizzato da lockdown e restrizioni, le visite presso i musei sono ovviamente diminuite e questo ha generato drastiche conseguenze per i musei. Alcuni di essi, però, chiuse le porte del museo hanno aperto profili sulle principali piattaforme social ed hanno investito nella comunicazione online. Secondo lei, come hanno reagito i musei italiani difronte a questa sfida? Avevano una buona base da cui partire o ci si è trovati a subire le mancanze pregresse per quanto riguarda la comunicazione online?
I musei statali italiani avevano già dei buoni strumenti per quanto riguarda la comunicazione online. Durante il mio mandato presso la Direzione Generale dei Musei, dal 2017 al 2020, abbiamo lavorato per generare imput per gli ambienti digitali e social. Dopo un anno e mezzo di lavoro, nel 2019 abbiamo emanato il Piano Triennale per la Digitalizzazione e l’Innovazione dei musei. Mai avremmo immaginato l’arrivo del Covid, però quel piano conteneva molte indicazioni anche di carattere tecnico che sono state fondamentali per la presenza online dei musei durante il periodo di lockdown. Alcuni musei avevano da subito cercato di attuare ciò che era presente all’interno del Piano, altri hanno iniziato sotto la spinta della pandemia.
I musei statali italiani erano preparati a reagire e lo hanno fatto anche in modo massiccio, magari inizialmente con qualche cosa un po’ improvvisata come è normale in una situazione di emergenza. Pian piano, però, la risposta è stata maggiormente strutturata, durante la seconda ondata ho osservato contenuti più affinati e studiati. La reazione è stata complessivamente molto positiva ed è stata notata ed accolta anche dall’opinione pubblica.
Una conseguenza di questo periodo di chiusure riguarda il nostro rapporto con gli spostamenti: la popolazione italiana è stata costretta a stare più sul posto dove si trovava e a limitare i grandi spostamenti. Questo cambiamento avrà delle conseguenze anche sui musei? Per esempio, un nuovo ruolo per i piccoli musei di periferia, che potrebbero essere un luogo dal quale ripartire.
Assolutamente sì. C’è stato un fenomeno di benchmarking spontaneo e un’imitazione positiva per cui anche i piccoli musei hanno visto che utilizzando i social, riuscivano a mantenere ferme le relazioni con il proprio pubblico. Le relazioni sono la parte più importante della vita moderna di un museo. Si è sempre parlato molto del passaggio dalle cose verso le persone, argomento molto presente anche all’interno della convenzione di Faro. È per questo che io dicevo ai direttori dei musei che più della conta dei biglietti era importante contare e coltivare le relazioni con il pubblico. Questo è lo spostamento di visuale che molti musei hanno saputo cogliere e nel periodo del Covid questo cambiamento è stato prezioso.
Nei suoi lavori ho potuto osservare l’interesse verso i videogame e verso la presenza dei giovani nel mondo culturale. Quali sono, oltre ai videogame, altri strumenti che i musei stanno iniziando ad adottare o che dovrebbero adottare secondo lei per consolidare il rapporto con il pubblico più giovane?
Il lavoro con i videogame ha più o meno tre anni ed ha generato alcuni casi di eccellenze come “Father and Son” del Mann o Rasma degli Etruschi a Taranto. Quello che a volte dimentichiamo è che i videogame sono forse la più potente forma di editoria in questo momento e non sono una cosa per soli ragazzi. Sono numerosi gli adulti che utilizzano questo modo per intrattenersi ed è un mondo che si sta riempiendo sempre più anche di contenuti educational. Il pubblico dei videogame è molto più vasto di quello delle giovani generazioni. Per quanto riguarda questa fascia di pubblico, sono stati fatti numerosi studi per poter comprendere le motivazioni per cui essi si recano o non si recano presso un museo e cosa si aspettano da esso.
Quello che si aspettano di diverso è una maggiore evoluzione del racconto museale: così come si evolvono ii Pokemon, loro si aspettano che qualunque cosa entri nel loro patrimonio cognitivo abbia delle evoluzioni. Quindi, non potendo far evolvere le opere appese alle pareti, dobbiamo far evolvere costantemente i racconti attorno a queste opere, trovando sempre nuove storie e nuovi modi di presentazione.
Le giovani generazioni cercano più motivazioni, vogliono capire le motivazioni che si celano dietro determinate scelte: perché alcuni beni restano in deposito, cosa viene scelto per essere esposto, chi compie questa scelta e perché sceglie in quel modo. La fruizione del museo da parte delle nuove generazioni è molto più attiva rispetto al passato, dove una persona si recava al museo e osservava quello che era proposto senza domandarsi cosa si celasse dietro. Questo è un cambiamento interessante da seguire ed indagare. In quest’epoca i direttori dei musei sono un po’ più superstar e questo agevola il rapporto con le nuove generazioni perché permette di avere una faccia, un punto di riferimento per indagare le scelte e le motivazioni di un certo museo.
Un argomento al centro di dibattito ultimamente riguarda il rapporto e gli accordi tra i musei e gli influencer, per esempio il caso di Chiara Ferragni e gli Uffizi di Firenze.
Il rapporto tra influencer e condivisione di contenuti riguardanti i musei è regolamentato dal Codice dei beni culturali. Lo scopo di lucro nell’utilizzo dei beni culturali è oggetto di una concessione ed è oneroso. Questa situazione è dettata a livello legislativo, non riguarda le scelte dei singoli musei. L’influencer svolge il ruolo pari a quello di un editore o della televisione, egli genera un prodotto a scopo di lucro, spesso finalizzato a guadagni molto elevati. Questo processo è regolamentato da una legge ed è giusto che venga rispettata. Personalmente sono favorevole a una distinzione tra il grande scopo di lucro e lo scopo di lucro minore: dove puoi fare un business rilevante, è giusto far pagare. Non ha senso perdere importanti fette di reddito, ma non ha altrettanto senso perdere tempo e soldi per contabilizzare le piccole entrate. In questo aspetto hanno ragione i liberisti del movimento pro-immagine libera: bisogna eliminare al più presto questi vincoli e puntare invece sul grande scopo di lucro.
Per la parte di indagine della mia tesi ho somministrato un questionario ad un potenziale pubblico dei musei: è emerso che una parte del campione ritiene che la visione in digitale di contenuti prodotti dai musei svilisca il patrimonio culturale. Secondo lei questa visione è caratterizzata da un fattore generazionale?
Non ritengo ci sia assolutamente correlazione, è un no molto deciso. Dire che la visione in digitale svilisca i contenuti culturali significa avere una visione caratterizzata da fattori di ignoranza, non generazionali. Bisogna essere consapevoli della differenza dell’immagine in un supporto digitale da quella reale, ed anche dal tipo di emozione diversa che questi supporti possono far scaturire. Ma si tratta di fatti complementari, né un’immagine sostituisce l’altra né si può parlare di svilimento del patrimonio culturale.
Forse questa situazione pandemica che ha obbligato tutti, di qualsiasi fascia di età, a sfruttare maggiormente la tecnologia e il digitale, aiuterà a superare questa reticenza verso il digitale anche nell’ambito culturale.
Certamente!
Michela Antino.
Laureata in comunicazione pubblica e d’impresa presso l’Università di Bologna, con un progetto di tesi magistrale in sociologia della comunicazione multimediale dal titolo “Digitalizzazione della comunicazione museale: i musei italiani durante il lockdown”.
[1] MiBACT acronimo di Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo. Con l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del decreto di riordino delle attribuzioni dei ministeri, dal 26 febbraio 2021 ha assunto la nuova denominazione di Ministero della Cultura, con acronimo MiC.