di Michela Fioretti *
“C’è un altro mondo, ma è in questo”
Paul Eluard (1895-1952)
Il Metaverso, l’ultima frontiera dell’esplorazione digitale, in un futuro molto prossimo, sembra sia destinato a spostare i confini della plurimillenaria storia dell’umanità, oltre la dimensione fisica spazio-temporale.
Un desiderio che da sempre accompagna l’uomo, quello di rompere i limiti del qui e ora – inesorabile condizione della materia che tutto circoscrive e delimita – per ritrovarsi in un altro tempo o, contemporaneamente nello stesso, ma in un altro spazio.
È il dono rarissimo dell’ubiquità, fin qui superna virtù ad esclusivo appannaggio divino, che si fa facile attributo dell’uomo contemporaneo a cui, come unico requisito, si richiede non una potente inclinazione all’Assoluto, ma una connessione di Rete.
Il Metaverso è Kairos che vince l’impietoso Chronos e che dispensa gaio opportunità istantanee, svincolando l’uomo dal giogo di un battere ineluttabile, dalla certezza della fine e dalla caducità effimera di ogni cosa terrena.
L’estensione della realtà oggettiva in infinite realtà possibili, è un cambiamento di prospettiva tanto ampio da offrire occasioni e prospettive, finora inimmaginabili.
Un angolo di visuale futuribile, illuminato da un’innovazione tecnologica che ha puntato il suo occhio di bue sulle relazioni sociali in questo ultimo ventennio.
Il Metaverso, con la sua tridimensionalità, deriva infatti da un percorso tanto veloce, quanto rivoluzionario, intrapreso a partire dall’anno 2004, anno che, come pietra miliare per la società contemporanea, segna la nascita del primo social network, Facebook, destinato a cambiare gli archetipi dei rapporti interpersonali del nostro tempo.
L’origine del social, che è già storia, ad opera di un visionario studente di psicologia, nonché abile programmatore dell’Università di Harvard, Mark Zuckerberg, si è resa possibile perché, in quegli anni, la tecnologia aveva compiuto l’enorme evoluzione dal web 1.0 al web 2.0.
Il primo tipo di web, l’1.0, detto statico, che prese vita nel 1991 permise la realizzazione delle prime piattaforme, consentendo una pionieristica navigazione in Rete ad un’élite di tecnici, di sperimentatori e avanguardisti sociali, i quali potevano visionare i contenuti immessi nei siti e acquistarne i prodotti, senza però alcuna possibilità di interazione tramite Internet.
Di lì, l’autentica trasformazione dei tempi contemporanei, che ha segnato un nuovo paradigma socio/culturale, è avvenuta con il web 2.0, o dinamico, il quale si è sviluppato quando l’innovazione tecnologica ha eletto l’utente di Rete protagonista incontrastato di Internet, consegnandogli, con un semplice click, la possibilità di scegliere, creare, modificare e condividere contenuti online.
Ciò ha significato dare voce alle masse, trasversalmente e simultaneamente in qualunque luogo del mondo tecnologizzato, favorendo enormi flussi di aggregazione.
L’acume e la visione del giovane Zuckerberg di assecondare la naturale propensione umana alla compartecipazione di intenti e di interessi, ha così esponenzialmente amplificato il riconoscimento e il sentimento di appartenenza a una comunità, del tutto slegato dal genere, dal ceto sociale, dall’età anagrafica o dalla provenienza geografica, per essere tenuto insieme da un qualsivoglia argomento condiviso.
Il filo di Internet, con una velocità sbalorditiva, quella del tempo reale, ha preso a connettere e a unire non solo interessi, passioni e professioni ma anche, e forse soprattutto, solitudini.
Il processo di globalizzazione già avviato dai mass media, grazie all’accorciamento di distanze, essenzialmente culturali, grazie al tam tam di Rete e soprattutto all’attiva partecipazione di gruppo a contenuti degni di una massiccia attenzione, ha rappresentato il primo, fondamentale corollario della larga diffusione di Internet.
In poco tempo, essendo stato esteso così lungamente il tessuto delle relazioni sociali di ogni utente del web, hanno preso a vacillare le, fin lì valide, teorie semiotiche e sociologiche dei sei gradi di separazione, elaborate per la prima volta negli anni ‘30 da Frigyes Karinthy nella sua raccolta di racconti Catene 1, riducendole in soli dodici anni (ossia dalla nascita di Facebook al 2016, anno di pubblicazione del primo report sul tema, da parte della multinazionale statunitense) a 3,57, per accorciarle ancora nel 2019 a 3,0 gradi e quasi azzerarle con l’avvento della pandemia, che ha dato un’ulteriore, vigorosissima, accelerazione, alle relazioni online.
La presenza sempre più numerosa e costante della popolazione mondiale in Rete; la trasposizione di una quantità, velocemente crescente, di attività sul web, da quelle ricreative, a quelle professionali a quelle di studio, oltreché quelle relazionali, ha mosso in questi anni non solo la ricerca tecnologica a spingersi sempre più in là – in virtù di un’ innovazione digitale basata sull’AI (Artificial Intelligence), sul 5G, sull’IoT (Internet of Things) e sull’IoE (Internet of Everything) – ma ha suscitato anche in ambito umanistico una profonda riflessione filosofico/sociologica sul cambiamento antropologico in atto.
Uno dei più raffinati filosofi e studiosi del tema digitale, Luciano Floridi, professore di filosofia ed etica dell’informazione presso l’Oxford Internet Institute dell’Università di Oxford e professore di Sociologia presso l’Università di Bologna, osservando il nuovo habitat digitale in cui l’uomo si trova immerso, ha spezzato, con estrema perspicacia, la dicotomia dell’essere online oppure offline, con un avverbio che racconta alla perfezione la condizione esperienziale, concreta e fattuale dell’uomo odierno, nell’ essere perennemente onlife, vale a dire racconta quella facoltà del tutto nuova, concessa dalla digitalizzazione, di sovrapporre ogni singola, finita e limitata realtà fisica, ad un’ infinità di realtà virtuali, completamente fluide da cui si entra e si esce senza riconoscerne quasi più la differenza.
Gli algoritmi, i byte e i bit appartengono ormai alla quotidianità di tutti, operando all’interno di strumenti digitali, che rappre-sentano nuove estensioni sintetiche del corpo umano, quelle da cui si accede ai molteplici ambiti di Rete, a servizio ininterrotto di necessità contingenti.
L’ulteriore passo tecnologico, rappresentato dal web 3.0, o web semantico, che contraddistingue i nostri giorni, sta incentrando il proprio impegno alla risoluzione di una comunicazione e interpretazione del linguaggio, tra essere umano e macchina, più coerente ai contenuti ricercati, grazie anche all’ausilio del deep learning, una tecnica di apprendimento profondo che espone reti neurali artificiali a quantità enormi di dati, così da poter svolgere ogni attività richiesta dall’uomo in modo ottimamente esaudiente.
Contemporaneamente il web 3.0, per fornire un’esperienza maggiormente performante, sia che si tratti di intrattenimento o di lavoro, superando i limiti della bidimensionalità, intende offrire quella che, ancora una volta con spirito pionieristico Zuckerberg ha definito “esperienza immersiva”, vale a dire l’accesso in Internet in 3D.
E, seppure nell’ambito del game la tridimensionalità è già dagli anni ‘90 caratteristica fondante di taluni giochi, il Metaverso resta ancora un’ambizione futuristica della tecnologia che ne sta mettendo a punto la realizzazione.
In quella che viene definita l’evoluzione di internet, sarà infatti non il personaggio di un gioco, ma l’utente stesso ad entrare in miriadi di realtà altre e intangibili, proiettate nel passato, nel futuro o in un presente parallelo, ovunque sulla terra e nell’ universo.
Elaborando tutte le informazioni e i dati biometrici degli utilizzatori della realtà virtuale, il Metaverso verrà popolato da altrettanti avatar, completamente rispondenti per caratteristiche fisiche, fisiologiche e comportamentali, agli originali che vivono e si muovono nella concretezza dell’esistenza reale.
Un hic et nunc illimitatamente dilatato, in cui perfetti replicanti umani dall’univoca identità, agiranno nei più variegati ambienti olografici.
Il Metaverso così come annunciato, prima con una lettera ai founders e poi con una presentazione divulgativa in un video nell’Autunno 2021 da Zuckerberg, che nel progetto ha già investito miliardi di dollari e continua a farlo nonostante si stiano riscontrando severe difficoltà tecniche, reca “sempre la stessa missione: tenere le persone insieme”.
Ribadendo gli obiettivi che hanno portato alla creazione del primo social, il CEO di Facebook rivendica la precipua intenzione della sua impresa di “progettare la tecnologia intorno alle persone, perché l’esperienza più importante di tutte è connetter(le)“, sostenendo che “la presenza realistica è la chiave per sentirsi connessi”.
Pertanto, dalla stessa voce di uno sviluppatore della piattaforma, nel video che sancisce la sfida a quel “non plus ultra” che Ercole incise sui monti Calpe e Abila per segnare i confini del mondo, arriva la promessa che il Metaverso rispetterà fedelmente “la comprensione ambientale, il posizionamento dei contenuti e la persistenza dell’interazione vocale e delle interazioni manuali standardizzate”, cosicché ogni tipo di esperienza umana visiva, uditiva e tattile possa farsi, nella Virtual Reality, aderente il più possibile a quella della realtà fisica.
Un impegno non solo tecnologico enorme, quello di progettare avatar con un cuore di algoritmi che prende a pulsare al solo segnale di online, stabilito da un visore indossato dal corrispondente umano, ma che prevede anche grandi investimenti di creatività e talento artistico per arricchire il metaverso sia di ambienti fantastici e stupefacenti, sia di spazi degni del miglior design, sia di zone e aree assolutamente identiche al vero.
In questa ecosfera virtuale, le persone, così come le definisce Zuckerberg, fluttueranno, senza vincolo di gravità, da un’ambienta-zione all’altra, entrando dentro un’opera d’arte, un libro, uno spartito, uno strumento musicale, toccando così, con mani digitali, l’emozione viva dell’arte e della bellezza.
E non solo, perché in quell’ “oltre”- a cui già il nome Meta, sostituendo di fresco quello dell’azienda Facebook Inc., rimanda – sarà possibile vivere qualsiasi tipo di esperienza immersiva che pool di storici, geografi, archeologi, astronomi, scienziati, assieme a programmatori, grafici e creativi, animeranno per i frequentatori di quell’altrove.
Uno spazio artificiale, al di là di quello ludico e ricreativo, autentico Paese dei Balocchi per mirabolanti effetti speciali, che sarà anche specchio di luoghi e ambienti reali, in cui poter far vivere agli avatar una realtà alternativa, passeggiando tra le vie dello shopping, facendo acquisti, guidando auto, frequentando locali, abitando case… e, soprattutto, facendo muovere la macchina poderosa dell’economia, in direzione Metaverso.
A partire dal mercato della moda, che già da tempo è sbarcato nel gaming tridimensionale con esclusive collezioni digitali, per assecondare l’esigenza vivida della Generazione Z di conformare l’outfit del personaggio in gara allo stile o all’umore del momento del giocatore, molti sono i brand che hanno scelto, come nuova frontiera commerciale, il continente olografico.
Il settore Luxury, dal Fashion, all’Automotive, al Real Estate, sta trasformando in digitale le proprie iconiche produzioni, per regalare il sogno, agli abitanti di Metaverso, di una ricchezza a portata di tasca, poiché gli acquisti degli oggetti del desiderio, avranno nella realtà virtuale prezzi meno proibitivi che nella realtà fisica.
Ma, a parte gli NFT che hanno un effettivo valore economico, quale motivazione potrebbe indurre gli avventori di un paese inesistente a spendere il proprio denaro in beni intangibili e illusori?
La risposta è da rintracciarsi nella totale trasposizione della vita reale nella vita degli algoritmi, a tal punto che Zuckerberg, ricordiamolo, nella presentazione del Metaverso, si riferisce esplicitamente a persone e non ad avatar, quindi ad abitanti digitali con vizi, virtù, vanità e desideri pulsanti e vivi.
A passeggio in Via Montenapoleone, in via Condotti o nelle strade di Maranello, esattamente come nelle stesse vie di bit e byte, gli occhi degli umani si illuminano alla stessa stregua di quelli degli alter ego che vivono di emozioni riflesse.
Oltre ad assolvere il ruolo di collante per relazioni sociali, con l’annullamento di ogni distanza spazio temporale, che consentirà agevolmente incontri interpersonali in qualsiasi luogo virtuale, il Metaverso ambisce a farsi dispensatore di felicità a buon mercato, spostando aspettative ed ambizioni al di là dei device in possesso dei metanauti.
Abitare in una villa a Miami Beach; sfrecciare su una Ferrari rombante al Monza Meta Circuit; indossare gioielli e accessori griffati Gucci e Louis Vuitton saranno desideri che, sfregando la lampada tecnologica, il genio di Zuckerberg potrà prontamente soddisfare.
Il miraggio di paradisi artificiali alla portata di tutti, con un Internet incarnato accessibile in virtù dell’enorme impegno tecnologico messo in campo e in virtù di un esborso assai contenuto per gli utenti, su cui Meta si sta prodigando, se da un lato mantiene la visione primigenia di una connessione largamente partecipata tra persone, con eguali opportunità a disposizione, dall’altro apre a scenari distopici di allarmante gravità sociale.
Quale sarà infatti la soglia per restare in equilibrio tra realtà concreta ed oggettiva, misurata in rapporti interpersonali tra umani, autenticamente in contatto per mani che si stringono e per respiri che hanno necessità della stessa aria, e una realtà virtuale che, mentre connette un avatar con il resto del mondo, isola l’uomo dalle persone vicine?
Se una realtà che non esiste offre ambientazioni e circostanze estremamente attraenti, come ci si salva dalla tentazione di non delegare tanta parte della grigia quotidianità a una vita sintetica, vissuta da un’immagine digitale che si assurge a persona, in un luogo non luogo, dove tutto è possibile, ma dove ogni emozione prima di essere provata, viene filtrata da lunghe sequele numeriche in sistema binario?
La pioggia che non bagna, il sole che non scalda, la neve tra le dita senza il freddo, il pane caldo senza il profumo di buono, nelle varie ambientazioni virtuali, potranno sì, raccontare agli occhi un’ altra verità, che non verrà però ascoltata dai sensi, traditi da dei falsi, replicati senza anima, essenza e valore.
E i bambini, con cui ogni genitore vorrebbe condividere esperienze entusiasmanti e divertenti; e gli animali domestici che sono, senza riserva alcuna, membri di ogni famiglia, protagonisti indiscussi di un tempo e uno spazio felice a loro dedicato, anche i bambini e gli animali indosseranno visori per crescere, correre e saltare nei luoghi incantati di Meta?
E la morte, varco estremo di non ritorno, soglia ultima e sacra dell’essenza umana terrena, verrà vilipesa con resurrezioni digitali?
Potrebbe non essere questa solo un’ ipotesi agghiacciante, una delle inedite versioni di Blade runner, ma una possibilità concreta in mano ai Big Tech, che avrebbero facilmente modo di alleviare il dolore per la perdita del caro estinto, riassemblando il suo avatar con tutti i dati in archivio nei cloud, così da restituirlo, dopo un cospicuo atto di vendita, ai suoi affetti disperati. Un replicante fatto della sua minuziosissima memoria digitale, un fantasma di algoritmi, tra le vie di Metaverso, in mezzo ad avatar vivi.
Ma un pensiero, più di tutti, si fa martellante circa le conseguenze che l’ Eldorado digitale potrebbe avere sulle persone fragili che, per un riscatto sulla vita reale o per un qualsiasi tipo di disagio fisico, psicologico ed emotivo, potrebbero scegliere di abdicare alla loro esistenza per una fantasmagorica vita… inesistente.
Molti sono i motivi che potrebbero indurre, a partire dai giovanissimi, ad una volontaria segregazione dalla socialità reale, per andare alla ricerca di gratificazione e appagamento in una perfezione artificiale che, se regala infinite vite in 5G, consuma nell’isolamento la sola fatta di carne e sangue nelle vene.
Si conoscono ampiamente da tempo i gravi danni recati da forme di nuove dipendenze, annoverate come “dipendenze senza sostanza”, tra cui spiccano la ludopatia, lo shopping compulsivo, il workaholism e le dipendenze da internet, per cui non è difficile ipotizzare che anche il Metaverso, con tutte le sue promesse di facili felicità, possa compromettere la capacità di gestire moderazione, buon senso e misura nell’utilizzo della piattaforma, in una percentuale, purtroppo alta, della popolazione mondiale.
Congegnata come un’enorme macchina mangiasoldi, al di là delle intenzioni socialmente benefattrici del fondatore di Meta, la VR ha l’obiettivo di muovere parte dell’economia globale, come detto, vendendo illusioni materiali, per conferire maggiore prestigio sociale agli avatar che frequenteranno i diversi scenari tridimensionali, sempre in cerca di accettazione e consensi.
Anche qui a rischio saranno le fasce più deboli, non di avatar ma di persone che, abbagliate da case, auto, vestiti e accessori patinati, per un mix di dipendenze in agguato, potrebbero giungere a dilapidare beni personali e/o familiari, per sentirsi, almeno nella società virtuale, ammirati e imitati, perché da sempre la necessità di gradimento, è una priorità sociale.
Ma, se i danni di un abuso dello strumento tecnologico in questione, sono prevedibili già prima della sua diffusione di massa, preventivamente stavolta si dovrebbe agire massicciamente per contrastare, responsabilizzando l’utente di Rete, gli effetti deleteri di un utilizzo distorto del Metaverso.
Traendo insegnamento da quel che è accaduto con l’arrembaggio ad internet, avvenuto senza una doverosa preparazione informatica, e soprattutto culturale, di gran parte della popolazione globale, ora conoscendo già le criticità del nuovo sistema, anticipatamente gli avatar, dietro cui vivono persone, potranno e dovranno essere tutelati in toto, a partire dal basso, nella struttura dell’intera comunità del web 3.0.
L’approccio confuso, disordinato e approssimativo alla Rete, a cui si sono piegate anche le ultime sacche di resistenza durante la pandemia, per necessità relazionali, ha generato come macro esito la prolificazione di attacchi hacker, e quindi l’assestamento definitivo del nuovo danno sociale rappresentato dal cybercrime.
Come si diceva, l’entrata in scena di un avatar in una qualsiasi ambientazione della realtà virtuale, può avvenire solamente dopo aver raccolto, archiviato, incrociato ed elaborato una serie infinita di sue informazioni, a partire dai dati biometrici, per ottenere l’univocità del corrispondente umano.
Con tale presupposto, ovvio che si aprano scenari assai dubbiosi sul tema nodale della privacy, già così tanto mortificata nel web 2.0 dai grandi players mondiali dell’IT, i GAFAM (Google, Apple, Facebook Amazon, MIcrosoft), i quali cedono ogni informazione che l’utente, volente o nolente, dissemina in Rete, a terze parti, a scopo pubblicitario.
Con l’ulteriore accumulo, fino all’inverosimile, dei mini data, necessario per popolare il Metaverso, le multinazionali del Tech finirebbero per esercitare, molto più di adesso, una forma di vero controllo su ogni singola persona, spartendosi il bottino dell’accaparramento dei dati, nuovo e abbondantissimo oro dell’universo digitale.
Prioritaria, dunque, prima della discesa in campo degli eserciti degli avatar, una normativa che disciplini le attività in quella terra di nessuno che è la realtà altra ma, essendo Internet una langa senza confini, chi e in che modo potrebbe avere l’autorità di legiferare al di sopra delle sovranità territoriali?
Il paese di Metaverso, al di là della ridente panoramica dipinta dal suo più grande fautore Zuckerberg, appare piuttosto un grande campo disseminato di mine, in cui gli avatar dovranno far bene attenzione a dove mettere i loro piedi privi di impronte, per non far saltare in aria i burattinai umani che li muovono.
Ma, ed è forse anche per questo che la realizzazione effettiva dell’intero progetto sembra rallentare rispetto ai piani designati, qualora si trovasse la perfetta quadra, il VR potrebbe effettivamente allargare gli orizzonti e le opportunità umane in modo esponenziale.
Uno degli ambiti che più e meglio potrebbe trarre benefici dall’utilizzo del Metaverso sicuramente potrebbe essere quello della Formazione, potendo offrire direttamente sul campo, un’esperienza piena e coinvolgente della materia di studio.
A partire dai più giovani, con lezioni di storia, ad esempio, vissute in ambienti coevi al periodo preso in esame, permettendo loro di aggirarsi per le vie di Cartagine, di salpare su una caravella assieme a Colombo, di respirare il clima di forte fermento dell’Illuminismo o di esultare per l’arrivo dei partigiani a liberare la città; con lezioni di geografia incontrando popoli e visitando luoghi; di astronomia, come novelli astronauti nello spazio.
Dalle scuole quindi, per un apprendimento esperienziale attivo, fino a giungere ad un’alta formazione specialistica, facendo pratica, in tutta sicurezza, nella medicina, come nell’aviazione, o nell’urbanistica.
Anche dopo gli studi, nell’esercizio pratico delle professioni, il Metaverso potrebbe offrire nel campo di ogni tipo di progettazione, uno strumento unico di lettura sulla perfettibilità del programma da portare a compimento, facendolo vivere in dimensione reale, per poterne anticipare punti di forza o debolezza, così da intervenire in corso d’opera sulla sua ottimizzazione, e non solamente dopo la realizzazione definitiva dell’intero progetto.
La realtà virtuale potrebbe inoltre avere un considerevole impatto sulla sostenibilità ambientale, favorendo, su amplissima scala, uno smart working di estrema qualità, in virtù di una riproduzione di uffici e spazi di lavoro effettivi, in cui team di professionisti si ritrovino, in ambienti consoni, spalla spalla per portare avanti, in squadra, il proprio lavoro.
Non più dunque, improbabili spazi domestici, qualche volta nascosti da sfondi, per lo più pessimi, con familiari che attraversano la stanza, dimentichi della videocamera che inquadra il coinquilino in videocall, ma un luogo conformato, in cui poter lavorare, intrattenendo la stessa tipologia di relazioni che si avrebbe in presenza.
In più, si avrebbe un notevole risparmio di emissioni di Co2 per i tempi di percorrenza; di energia elettrica non sperperata in aziende fisiche, che non avrebbero ormai senso di esistere; di abbassamento dell’inquinamento acustico da traffico e, non in ultimo, si avrebbe una migliore qualità della vita del lavoratore, dovuta a un considerevole tempo ritrovato e al maggiore comfort di uno spazio privato.
In conclusione, l’innovazione tecnologica ha un senso ed è un fondamentale valore aggiunto, solo quando si assume l’impegno sociale di svolgere il ruolo di facilitatore della quotidianità, in modo distribuito per la comunità globale, diffondendo egualmente opportunità per il benessere integrale.
Di contro, una tecnologia che, con ambiziosa vanità si specchia nelle acque dei propri trionfi, unicamente per spostare i limiti del possibile o per sfidare l’ordine superiore della Natura, senza un’impalcatura fortemente etica, è destinata a far crollare l’intera costruzione della civiltà umana.
Il Metaverso, oggi che ancora deve giungere alla sua perfetta realizzazione tecnologica, di fronte al nevralgico bivio, può scegliere quale tipo di strada intraprendere per condurre l’uomo nel futuro:
quella di uno scenario distopico, dai contorni inquietanti e assai pericolosi, oppure quella per il raggiungimento di una qualità di vita sempre più alta e distribuita, data da una tecnologia a totale servizio dell’umanità.
In questa ultima, auspicabile prospettiva, verrà aborrita ogni tentazione mostruosa di sostituire totalmente la persona con la macchina e il grande impegno dell’evoluzione tecnologico/scientifica, saprà garantire la padronanza della guida dell’uomo su ogni innovazione.
Un sussidio, dunque, alle molte attività, ma mai una conversione dell’ umanità, che ha una preziosissima storia fatta di infinita bellezza, meraviglia, stupore e conoscenza, con algoritmi e stringhe di hash.
“E quindi uscimmo a riveder le stelle”, fino alla fine del tempo, in ogni tempo, sarà destinazione e senso della vita umana. Un viaggio irto di cadute, ostacoli e fatica, ma che da sempre narra il coraggio, la forza e la grandezza dell’uomo e l’indicibile mirabilia dell’Universo che lo accompagna, mai e poi mai barattabile con qualunque viaggio in banda larga.
* Michela Fioretti
Michela Fioretti si è laureata con lode in Materie Letterarie, indirizzo Filologico Moderno, all’Università La Sapienza di Roma.
Dal 2005 è insegnante presso Roma Capitale e, come freelance, svolge l’attività di ghostwriter ed editor (tra i testi curati, degno di nota, per il tema dei diritti civili e, in particolar modo quelli delle donne, è “Ti racconto l’Iran. I miei anni in terra di Persia” – Armando Editore 2018 – a firma della giornalista e antropologa culturale Tiziana Ciavardini).
Dopo la triennale partecipazione alla master class “Scrivere una canzone”, ha vestito con i propri testi le note del musicista e musicologo Marco Freni.
In tale produzione, rientra “Bucaneve”, canzone utilizzata anche da Amnesty International (tradotta e diffusa dall’Associazione nazionale belga Europa Idea) nella versione francese e in lingua pashto per le donne afghane, quale strumento di sensibilizzazione contro la violenza di genere.
Negli ultimi cinque anni, da madre e insegnante, in primis, sta dedicando attenzione, studio e impegno all’innovazione tecnologica, così da comprendere con una lettura critica, per poi farsi ponte, la trasformazione del nostro tempo, dovuta alla digitalizzazione.
Ha frequentato, conseguendone l’attestato, il corso di alta specializzazione Blockchain-Elite che, con i più qualificati docenti in campo internazionale, le ha offerto una visione trasversale del cambiamento in atto, da quella filosofica, sociologica e antropologica, a quella espressamente tecnologica, fisico/matematica.
La sua frase ispiratrice, da sempre, è quella di Fernando Pessoa “non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo”, a raccontare per lei che, nell’ umiltà del piccolo, è racchiusa tutta la potenza dell’Universo perché, solo chi sogna può muovere il mondo e, talvolta, sovvertirne le regole.