Piero Chiabra
Si parla tanto, oggi, di scuola.
Si susseguono interventi, da parte di tutti, in cui si dice tutto e il contrario di tutto, e si indicano ricette, alcune miracolistiche, altre più serie.
Come orientarsi in questo discorso, complesso e variegato? Forse, ad opinione di chi scrive, converrebbe, per capirci qualcosa, iniziare l’analisi a partire dai dati fondamentali di base, mettendosi dalla parte dei ragazzi, e cercando di comprendere quanto e come la scuola sia in grado di assicurare non solo un futuro professionale ai giovani, e a inserirli nel mondo produttivo, ma formarli in modo tale da farli sentire a loro agio nella cultura generale di questa nostra modernità. E, eventualmente, che cosa sarebbe necessario cambiare perché ciò possa accadere.
Allora, iniziamo.
E, iniziando, non possiamo non partire dal quadro generale in cui i giovani si troveranno ad operare nei prossimi anni. Un primo dato da tenere presente sono le prospettive sulla situazione occupazionale generale: le prospettive di occupazione in Italia sono esemplificate in figura 1 (fonte: Unioncamere).
Come mostrato in figura, sono stati elaborati due scenari, A e B, che corrispondono a due diversi livelli di velocità della ripresa economica post-pandemia. Entrambe questi scenari, tuttavia, prevedono una rilevante crescita dell’occupazione, crescita legata sia al recupero fisiologico delle attività, sia agli effetti benefici del Recovery Fund.
Questa crescita occupazionale non riguarderà, come in altre situazioni pregresse, soltanto i quadri medio-bassi, ma si tradurrà in una forte richiesta di laureati.
A fronte della disponibilità di laureati in uscita dall’Università italiana, infatti, le richieste previste, sia pur fortemente altalenanti, apparirebbero infatti in grado di soddisfare la domanda di lavoro espressa dalla percentuale di neolaureati che si affaccerà sul mercato del lavoro (Fig. 2: dati Unioncamere)
Quindi, tutto bene? No, purtroppo.
Infatti, quando si va ad esaminare il fabbisogno di laureati rispetto alla disponibilità di offerte di lavoro ripartite per indirizzi di studio ed impiego professionale, emerge un elevato grado di disallineamento tra il tipo di preparazione dei nostri laureati e le richieste del mercato del lavoro. Come emerge dalla fig. 3 (dati sempre di Unioncamere), esiste un elevato scollamento tra l’elevata disponibilità di richieste di lavoro per laureati in discipline STEM, in particolare per le discipline scientifiche, ingegneristiche e mediche e l’effettiva offerta di laureati. Viceversa, con l’eccezione di un picco di disponibilità nell’ambito delle professioni giuridiche, un picco giudicabile come episodico in quanto legato alle assunzioni della riforma Cartabia, e che va comunque ad impattare su un pregresso di eccesso di offerta di laureati molto consistente, si osservano viceversa un forte eccesso di neolaureati in discipline umanistiche rispetto alle disponibilità di lavoro, in pressoché tutti i settori.
Queste considerazioni sono ancora più critiche se si considera che il fabbisogno di laureati non si confronta solo con la disponibilità di nuovi laureati indicata in tabella, ma anche con la loro disponibilità pregressa. In questo caso, i dati emergono in tutta la loro drammaticità: mentre le richieste di lavoro in discipline STEM vanno ad aggiungersi ad una serie di paurosi vuoti già presenti nelle aziende italiane, e pari, secondo uno studio dell’Università Niccolò Cusano, addirittura a circa un milione di posizioni (non tutte riguardanti laureati, ma comunque moltissime), l’eccesso di offerta di laureati in discipline umanistiche va ad aggiungersi a un consistente pool di laureati già presenti che faticano a trovare una prima occupazione, e/o che devono accontentarsi di lavori non adatti ai loro studi (l’aneddotica sui laureati che fanno gli operatori di call center riguarda essenzialmente questi giovani).
A tutto questo si aggiunga il ritardo nella preparazione e nella pratica delle tecnologie digitali. Come mostrato in fig. 4 (dati: Commissione Europea), l’Italia, per quanto riguarda le competenze digitali, è sotto la media europea in tutti gli aspetti, ma il punto veramente catastrofico riguarda la preparazione del capitale umano al loro utilizzo, settore nel quale il nostro paese è ULTIMO tra tutti i paesi della UE (sapere che la seconda potenza manifatturiera d’Europa dispone di personale digitalmente meno competente rispetto a paesi come la Romania o la Slovacchia, con tutto il rispetto per questi paesi, dovrebbe forzarci a un doveroso bagno di umiltà).
In un panorama come questo, sarebbe lecito aspettarsi una corsa dei giovani a iscriversi a facoltà scientifiche o tecnologico/ingegneristiche, essendo quelle in grado di assicurare percorsi di carriera e di crescita professionale più soddisfacenti e appaganti.
Nulla di più sbagliato: nonostante la situazione sopra esposta, secondo i dati di Almalaurea solo poco più di un quarto di chi si iscrive all’Università, il 27% per la precisione, si iscrive a facoltà STEM; gli altri scelgono facoltà umanistiche. Con le prospettive sopra citate.
Perché un comportamento così, diciamolo pure, autolesionista? In realtà, se andiamo a vedere le cose da vicino, esiste una giustificazione, i giovani hanno le loro ragioni: infatti, sempre secondo Alma Laurea, solo il 44% degli iscritti a corsi di studi STEM termina il proprio percorso universitario, contro il 54,2% degli iscritti a corsi non STEM. A quanto pare, sembra evidente che i giovani operano queste scelte perché sono indotti a studiare quello che sono capaci di apprendere, vale a dire le tematiche di studio che sono stati addestrati meglio ad affrontare. Ed è questo che li conduce verso questi incerti sentieri.
E qui, allora, il discorso si sposta su cosa viene prima, su come questi giovani vengono formati per affrontare gli studi universitari, il loro futuro, la loro vita. Ed appare chiaro, da tutto ciò che i dati affermano, che esiste un disallineamento tra la formazione tradizionale fornita dalla scuola superiore italiana e le reali necessità non solo del mercato del lavoro, ma della stessa partecipazione consapevole alla vita della società moderna, un disallineamento che ha effetti seri sul futuro di molti giovani.
Da cosa dipende questo disallineamento? Il discorso è complesso, e comincia da lontano, da molto lontano.
Da Hegel.
Come è noto, Georg Wilhelm Friedrich Hegel è il padre di una teoria filosofica, nota come “idealismo”, che ha costituito uno dei principali movimenti di pensiero nel XIX e nel primo XX secolo, trovando ancora seguaci oggi. Non intendo qui esporre in dettaglio questa teoria, che è molto complessa e, a tratti, non del tutto chiara (anzi, gli eventuali lettori studiosi di Hegel mi perdonino le grossolane semplificazioni che farò per essere comprensibile a tutti). Comunque, la teoria della conoscenza dell’idealismo hegeliano si può in generale riassumere nello slogan “Tutto ciò che è reale e razionale, tutto ciò che è razionale è reale”.
Per Hegel, tutto è spirito, e il mondo fisico stesso è una emanazione “inferiore” dello spirito, che uniforma e pervade di sé tutto ciò che esiste. Ne consegue che la “vera” conoscenza è la conoscenza metafisica dello spirito, da ottenersi attraverso mezzi che consentano di praticare la spiritualità, come la dialettica, l’arte, le scienze umane. La conoscenza scientifica, in quanto finalizzata ad un mondo “inferiore” e “imperfetto”, è una conoscenza “scadente”, subalterna e carente, anche se con una superiore dignità delle discipline logiche e matematiche rispetto alle scienze sperimentali. La conoscenza tecnica, poi, il “saper fare”, è completamente svalutata: è una “vile arte meccanica”, utile per soddisfare le necessità dell’industria e rispondere ai bisogni animali degli esseri umani, ma totalmente priva di valore sul piano conoscitivo.
Sul finire del XIX secolo, e nella prima metà del XX, la cultura italiana, prima permeata di valori positivisti, viene fortemente influenzata dall’idealismo, che assume il carattere di fattore ideologico-filosofico dominante. Ciò, essenzialmente, a causa dell’opera di due importanti figure intellettuali, diversissime tra loro ma dominate entrambi dalla comune fede nell’idealismo: Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Con la loro opera, oltre alla “conversione” in senso idealistico della cultura italiana, influiscono pesantemente sulla struttura della scuola, attraverso una serie di radicali riforme, fino ad imprimere nella sua forma e nei suoi metodi le caratteristiche dell’idealismo hegeliano, e a darle una impronta peculiare, tracce importanti della quale, nonostante successivi tentativi di riforma e rielaborazione, perdurano in parte ancora oggi.
Quali sono le caratteristiche di questa scuola “Idealista” di Croce e Gentile? Esse si possono sostanzialmente riassumere nei punti seguenti:
- La «vera cultura», quella alta, qualificante, è la cultura umanistica, perché è quella che permette di «conoscere» lo spirito, sia delle persone che delle cose. La priorità è quindi all’insegnamento della letteratura, della filosofia, della storia e delle lingue morte (secondo Hegel, esiste lo «spirito» della Nazione, che queste discipline aiutano a comprendere), fino alla logica e alla dialettica.
- La conoscenza scientifica è reputata di livello «inferiore», come semplice conoscenza del mondo fisico, e inadatta, da sola, a formare la personalità e lo «spirito» dei discenti. Quindi, gli insegnamenti scientifici devono essere comunque accompagnati da robuste iniezioni di cultura umanistica, e privilegiare l’aspetto matematico e logico-matematico sopra le scienze sperimentali.
- Tipologia di scuola deputata alla piena maturazione e al completo sviluppo della personalità è il Liceo, strutturato sulle due tipologie di base scientifica e classica, le quali tuttavia presentano una forte base comune qualificante di cultura umanistica, filosofica e letteraria (chi scrive ha fatto il Liceo Scientifico, e ricorda come, almeno ai suoi tempi, le ore di insegnamento di materie umanistiche superassero quelle di materie scientifiche anche lì).
- L’Università riveste carattere specialistico ma anche di maturazione della personalità e di affinamento delle capacità conoscitive e delle modalità di apprendimento. Essa non comunica tanto nozioni, quanto un metodo di studio. In tal senso, tutte le facoltà hanno pari dignità, incluse le facoltà scientifiche, almeno finché si occupano di argomenti teorico-matematici.
- La cultura tecnica, del «saper fare», è considerata una cultura «meccanica», incapace di far sviluppare armoniosamente la personalità, e buona solo per formare le professionalità necessarie a soddisfare le necessità dell’industria e del commercio. Essa viene quindi somministrata in tipologie di scuole, gli Istituti Tecnici, progettati per fornire una serie di conoscenze professionali ma reputate di minor valore formativo. Tale preclusione verso la cultura tecnica si spinge anche al livello degli studi universitari, fino addirittura a considerare, da parte di molti intellettuali, la laurea in Ingegneria come una laurea «inferiore», a volte confinata in una «università a parte», il Politecnico.
(anche qui chi scrive, ingegnere elettronico, ricorda, ahimè molti anni fa, appena laureato, illustri Professori Ordinari della Facoltà di Lettere della mia Università pontificare che quella in Ingegneria “non era una vera laurea”, e che non forniva “una vera cultura”).
Appare ora più chiaro come la permanenza di più di un elemento di questa cultura scolastica nell’ordinamento attuale, nonostante alcuni suoi pregi di cui dirò tra poco, abbia contribuito a penalizzare l’educazione scientifica e, ancor più, la cultura tecnologica, svilendone l’oggettiva dignità e il valore informativo, rendendo i giovani diplomati inadatti a integrarsi, professionalmente ma anche culturalmente, nel mondo attuale, e procurando loro difficoltà ad affrontare con profitto profili di studi a contenuti STEM.
E allora, che fare?
Se diamo uno sguardo attorno a noi, Il mondo, del lavoro e non, si sta avviando verso sempre più incerti e complessi futuri. Le tendenze sono, ormai, consolidate:
- La scienza e la tecnologia raggiungono e superano sempre nuovi traguardi, senza più avere confini riguardo alle loro applicazioni. Il mondo è in tumultuosa trasformazione, con tecnologie, aziende e metodi che nascono, si affermano e muoiono in tempi sempre più rapidi.
- Tutto questo si traduce a sua volta in una estrema variabilità delle tipologie di figure professionali, delle casistiche e modalità di lavoro, dei percorsi di carriera e di crescita
- Le posizioni di lavoro consolidate saranno, quindi, sempre più rare e precarie. Ci saranno, sì, sempre i posti di lavoro a tempo indeterminato, ma le aziende nasceranno e moriranno in modo sempre più veloce, rendendo questa stabilità sempre più illusoria. L’unica isola residua di “posti fissi”, vale a dire l’impiego statale, non è detto resista anche lei per sempre, e non scopra essa stessa nuove modalità di lavoro subordinato.
- Per questa ragione, le possibilità di reddito e di successo dipenderanno, in misura sempre maggiore, dalle competenze e dalle professionalità specifiche dei singoli soggetti, e sempre meno da parametri quali l’anzianità e le posizioni preordinate.
- Visto l’alto tasso di variabilità e imprevedibilità degli scenari in tutti i settori le competenze che si imporranno in futuro, in quanto significative ai fini del successo o del fallimento, saranno sempre più non solo le competenze tecniche specifiche, che pure acquisiranno e manterranno una grande importanza, ma anche i cosiddetti “soft skill”, vale a dire quelle caratteristiche, sia esperienziali che caratteriali, tali da permettere di affrontare e gestire con successo situazioni sempre più flessibili, impreviste e suscettibili di sviluppi inattesi. Grande importanza, tra questi soft skill, andrà sempre più alla flessibilità del processo di apprendimento personale, vale a dire, alla capacità di imparare sempre nuove cose, continuamente e con prontezza.
In questo scenario, così complesso e tumultuoso, paradossalmente, la scuola tradizionale, la scuola che abbiamo conosciuto, la scuola “idealistica” di Croce e Gentile, può vantare qualche residuo punto di forza. Per come è stata concepita, infatti, la scuola italiana tradizionale, soprattutto il liceo, fornisce una buona, a tratti ottima, cultura generale, per molti versi superiore a quella delle scuole superiori di paesi molto più “celebrati” (rispetto, ad esempio, a un diplomato di una media High-School americana, un liceale italiano che abbia seguito con profitto il suo corso di studi è quasi un intellettuale!). Ciò rimane fondamentale per elaborare una mentalità flessibile e aperta, in grado di valutare le situazioni e gestire il cambiamento. Inoltre, l’approccio tradizionale della scuola italiana privilegia la formazione della personalità rispetto alla fornitura di competenze specifiche. Questo è importante ancora oggi, per sviluppare «soft skill» quali la capacità di comunicazione, la capacità di lavorare in squadra, di interfacciarsi con gli altri, etc.
Sono vantaggi importanti, che sarebbe un peccato perdere per un malinteso spirito iconoclasta di distruzione dell’esistente. Tuttavia, risulta evidente che la scuola italiana, così come è stata concepita, e nonostante tutti i tentativi di aggiornamento sin qui compiuti, non è in grado di fronteggiare la modernità.
Bisogna cambiare. Come? In termini generali, diverse sarebbero le cose da modificare:
- La scuola dovrebbe mantenere il suo approccio verso la formazione della personalità, spostandolo tuttavia verso lo sviluppo di mentalità pragmatiche, da “problem solver”, introducendo e potenziando le componenti che facilitano la costituzione di “soft skill” quali la comunicazione, il lavoro di squadra, etc.
- È sicuramente indispensabile incrementare, nella scuola italiana, il bagaglio di conoscenze matematiche, scientifiche e tecniche al fine sia di sviluppare i caratteri di cui sopra, sia di calare gli studenti all’interno della realtà di un mondo dominato dalla scienza e dalla tecnologia, e che sarà sempre più da queste permeato in ogni aspetto della vita sociale. A questi inoltre, andrebbe conferita una importanza pari alle discipline umanistiche, anche in termini di “dignità”, e ciò con particolare riferimento ai contenuti tecnici e del “saper fare”, il cui valore formativo, anche in termini di formazione della personalità, è stato sino ad oggi ingiustamente trascurato.
- Con parziale riferimento al punto precedente, va compiuto un grande sforzo per migliorare a tutti i costi la formazione nel campo delle tecnologie digitali, e il loro padroneggiamento a tutti i livelli scolastici e per tutti i corsi di studio. Ciò è fondamentale non solo per la preparazione dei giovani al loro futuro, ma, senza per nulla esagerare, per la stessa sopravvivenza dell’Italia come paese industriale a tecnologia avanzata, come, sebbene con qualche acciacco, ancora è.
Tutto questo, in teoria. E in pratica, che si fa?
La realtà è che alcuni dei punti sopra citati rappresentano una vexata questio, i cui termini sono in discussione da ormai molti anni. Tuttavia, purtroppo, la maggior parte delle soluzioni implementate sono stati provvedimenti parziali, settoriali, locali, e maggiormente improntati alla volontà di singoli enti o persone (presidi, singoli istituti, etc.) che a un disegno politico generale.
Ma qualcosa, forse, sta cambiando.
Negli ultimi anni, sta emergendo un nuovo tipo di scuola, che costituisce una novità assoluta per il panorama italiano, e costituisce forse il primo, serio tentativo di superare il modello pregresso, ridando la dovuta dignità e peso al contenuto formativo dell’esperienza tecnologica e del “sapere fare”: gli ITS, Istituti Tecnici Superiori.
Nati quasi in sordina, e ribattezzati ora ITS Academy dalla legge che ha dato loro la sistemazione giuridica definitiva, gli ITS sono istituti scolastici gestiti da fondazioni costituite da imprese, università, istituti tecnici e/o strutture formative accreditate, e il loro compito è quello di formare personale dotato di una cultura tecnica di livello superiore. Questo cosa vuol dire? Vuol dire formare giovani capaci di padroneggiare la conoscenza di un intero settore tecnologico complesso, di risolvere problemi complicati in quel settore, e di essere in grado di ideare e/o promuovere l’innovazione in quel settore specifico. Si tratta quindi di profili ad alta professionalità, e, sissignore, di alto livello culturale, tanto che un diploma ITS è parificato ad un diploma universitario triennale, e perfettamente inseriti nel panorama economico del territorio in cui si trovano (gli ITS sono sponsorizzati dalle aziende del territorio, e i diplomati in questi istituti trovano lavoro pressoché istantaneamente dopo il diploma). Attualmente, esistono in Italia 111 ITS, frequentati da circa 18000 studenti, e, per una volta, la politica ha compreso la loro importanza, tanto è vero che il PNRR prevede una loro grande espansione, stanziando, per il loro sviluppo, somme di denaro molto rilevanti.
Questa è una iniziativa importante. Ne avremmo bisogno di altre così.
Siamo un paese vecchio. Abbiamo pochi giovani, non possiamo permetterci di sprecarli.
Non possiamo buttare al vento il loro entusiasmo, la loro creatività, la loro voglia di fare, il loro idealismo, il loro desiderio di cambiare il mondo. Dobbiamo dare loro gli strumenti per vivere nella modernità, e trarne profitto. Per consentire all’Italia di mantenere la posizione di eccellenza industriale, scientifica e culturale che i nostri padri hanno conquistato per lei, e che, forse troppo spesso, noi stessi abbiamo messo a repentaglio con scelte sconsiderate o, ancor più spesso, non scegliendo. Per mantenere e recuperare i cardini della nostra cultura, e trasformarli, adattarli in una nuova sintesi. Quale sintesi? Decideranno loro. In breve, dobbiamo dare loro gli strumenti perché questo paese rimanga vivo. Per il loro interesse.
E per il nostro.