Intervista alla Professoressa Vincenza Pellegrino, Formatrice, già Docente di Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (1)
Domanda: Professoressa Pellegrino, gli hackathon sono eventi finalizzati alla soluzione di problemi tecnici. Tuttavia, Lei ne propone una visione più profonda e quasi filosofica. Può spiegare il suo punto di vista?
Risposta: Gli hackathon sono effettivamente molto più di un semplice spazio dedicato alla risoluzione di problemi tecnici. Essi rappresentano una vera e propria praxis aristotelica, un’azione che va oltre la produzione di un oggetto, per diventare un mezzo di trasformazione personale e collettiva. Aristotele, nella sua Etica Nicomachea, distingue tra poiesis, ossia l’azione volta alla creazione di qualcosa e praxis, che è invece orientata al raggiungimento del bene comune e della virtù. Negli hackathon, questo principio si riflette nel modo in cui i partecipanti, con il processo stesso di collaborazione, oltre ad inventare prototipi, costruiscono anche relazioni, abilità e identità professionali.
Domanda: Quindi, la dimensione etica e sociale di un hackathon è altrettanto importante quanto quella tecnica?
Risposta: Esattamente. Negli hackathon vediamo un’espressione di ciò che Aristotele descrive come azione virtuosa. Le persone che vi prendono parte, sono certamente impegnate in un compito produttivo, ma, al contempo, attraverso il lavoro comune, si trasformano, sviluppando competenze relative alla leadership, alla gestione del rischio ed alla capacità di collaborare in modo interdisciplinare. Questo processo di crescita collettiva, si allinea alla nozione aristotelica di philia, o amicizia, che rappresenta la base della cooperazione umana e del progresso sociale.
Domanda: A proposito di philia, come si manifesta questa forma di amicizia in un hackathon?
Risposta: La philia si riflette nella comunità di pratica che si forma tra gli individui durante un hackathon, giacché l’apprendimento non avviene in modo isolato, ma grazie all’interazione continua, al dialogo ed al confronto. In questo senso, l’hackathon diventa un microcosmo sociale, una comunità inoperosa, per dirla con Nancy, dove l’obiettivo non è esclusivamente quello di conseguire un risultato, bensì essere parte di un processo di co-costruzione della conoscenza, in cui ci si riconosce reciprocamente, come co-autori di nuove soluzioni e del sapere condiviso; l’evento, insomma, si trasforma in un’esperienza di apprendimento profondamente collaborativa.
Domanda: La sua analisi si estende anche al concetto di eros platonico. In che modo il desiderio di conoscenza e innovazione viene stimolato negli hackathon?
Risposta: Platone, nel Simposio, descrive l’eros come la molla che spinge l’anima verso la conoscenza e la verità. Questo desiderio si manifesta chiaramente negli hackathon, dove i partecipanti sono stimolati, sia dalla necessità di risolvere un problema tecnico, quanto da una curiosità intrinseca, che li porta ad esplorare nuovi confini del sapere. La libertà creativa, che caratterizza questi incontri, risveglia proprio quel tipo di eros conoscitivo, che Platone identifica con la ricerca della bellezza e della autenticità. In questo modo, l’hackathon non è solo uno spazio di innovazione, ma diventa anche un’esperienza formativa, che sollecita l’aspirazione di ciascuno a scoprire nuove prospettive e soluzioni inedite.
Domanda: Questo ci porta a riflettere sul ruolo del gioco. Qual è, secondo Lei, la funzione del gioco in un hackathon?
Risposta: Per comprendere il contesto degli hackathon, il gioco è un elemento fondamentale, che richiama l’immagine di Homo Ludens di Huizinga. Il gioco, infatti, oltre ad essere un’attività accessoria o infantile, è pure una delle forme primarie, attraverso cui l’uomo crea cultura e significato. Nell’hackathon, la dimensione ludica libera il talento da ogni vincolo formale, realizzando uno spazio in cui è possibile sperimentare, senza il timore dei fallimenti. Tale ambiente, agevola il fiorire del pensiero laterale e l’emergere di soluzioni ancora sconosciute. Huizinga ci ricorda, in definitiva, che il gioco, come il pensiero creativo, è un’attività profondamente culturale, capace di dare forma a nuove strutture di pensiero e di innovazione.
Domanda: Lei ha affermato che la dialettica hegeliana può rappresentare una chiave interpretativa dell’hackathon. In che senso?
Risposta: La dialettica hegeliana, con la sua dinamica di tesi, antitesi e sintesi, offre una metafora perfetta, per interpretare il flusso degli hackathon. Ogni hackathon inizia, infatti, con un problema – la tesi – che viene messo alla prova dalla sfida tecnica proposta – l’antitesi. Il confronto, tra le due dimensioni, genera una sintesi, ossia la soluzione innovativa e proprio questo processo dialettico, secondo Hegel, è il vero motore del progresso umano. Al riguardo, Nolte ed altri hanno evidenziato come la natura collaborativa degli hackathon permetta di fondere prospettive diverse, producendo una sintesi di idee, che supera i risultati che i singoli partecipanti potrebbero raggiungere autonomamente.
Domanda: Ha anche fatto riferimento al concetto di kairos. Come si applica agli hackathon?
Risposta: Il kairos, nella filosofia greca, rappresenta il “momento opportuno” per agire. Negli hackathon, i partecipanti, non solo devono risolvere problemi rapidamente, ma devono anche cogliere quel momento critico in cui un’idea, o una scelta, appare all’improvviso come la più adatta. In pratica, è una intuizione temporale, che trascende il tempo lineare (chronos) e che può determinare il successo stesso di un hackathon. I partecipanti devono, allora, essere in grado di riconoscere il kairos, l’istante più fecondo, in cui l’innovazione può davvero prendere forma. Nonostante la breve durata degli hackathon, questi eventi riescono, dunque, a creare esperienze dense di significato e di possibilità.
Domanda: Nella sua analisi ha introdotto anche la “performatività” di Butler. Come si applica negli hackathon?
Risposta: Butler ci insegna che l’identità è un atto performativo, costruito per mezzo di azioni ripetute nel tempo. Negli hackathon, i soggetti non si limitano a creare soluzioni tecniche, ma “performano” il ruolo di innovatori, sperimentatori e leader. Questo processo, di partecipazione attiva, permette loro di ridefinire le proprie identità professionali e creative, esplorando funzioni che non potrebbero sperimentare, in altri contesti, più formali. In tal senso, l’hackathon diventa uno spazio in cui, identità e competenze vengono costantemente messe in gioco e trasformate.
Domanda: Infine, ha parlato dell’hackathon come laboratorio etico. Quali sono le implicazioni bioetiche di questi eventi?
Risposta: Gli hackathon spesso affrontano questioni complesse, legate all’innovazione tecnologica, come l’intelligenza artificiale, la salute digitale, o il cambiamento climatico e ciò pone domande bioetiche fondamentali. Jonas, con il suo principio di responsabilità, ci ricorda che, nell’attuale epoca tecnologica, appare inevitabile considerare le conseguenze, a lungo termine, delle nostre azioni. In questa prospettiva, gli hackathon sono laboratori etici, dove l’innovazione tecnologica deve essere bilanciata con la responsabilità sociale.
Gli esperti non possono limitarsi a ricercare soluzioni rapide; devono riflettere sull’impatto delle loro innovazioni e assicurarsi che queste non generino danni futuri, alla società o all’ambiente.
Domanda: Grazie, Professoressa Pellegrino, per questa conversazione che ha reso evidente come l’hackathon sia, non soltanto, una competizione tecnologica, ma un vero laboratorio di riflessione filosofica e sociale.
Risposta: Credo fermamente che gli hackathon rappresentino un’opportunità unica per esplorare nuove frontiere, non solo tecnologiche, ma anche umane e sociali, in quanto, attraverso la collaborazione, la creatività e l’etica, sia possibile ripensare il nostro modo di essere e di agire nel mondo.
(1) Vincenza Pellegrino. Già Docente di Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione e contrattista presso diversi Atenei italiani. Esperta di progettazione e realizzazione di percorsi e sperimentazioni didattiche, da sempre interessata alle problematiche dell’insegnamento e dell’apprendimento, ha sviluppato, nel tempo, una “passione” per le dinamiche dei processi cognitivi, che chiamano in causa l’educazione, come fattore determinante e formante di qualsiasi identità. È autrice di studi e pubblicazioni che pongono in rilievo il rapporto tra società, scuola e famiglia. La sua riflessione pone al centro l’allievo inteso come futuro cittadino e unico architetto del proprio destino e indaga le prospettive offerte dalla post-modernità, interrogandosi sull’ adeguatezza dei modelli e dei metodi formativi che vengono proposti alle giovani generazioni