Ex pluribus unum: unità e frammentazioni della ricerca scientifica

A cura di Gianmaria Ajani, DIST- Politecnico e Università di Torino

Abstract

The developments and dissemination of scientific and technical knowledge is hastening. A new model of production of knowledge and know-how has emerged, combining extreme specialization and cross-disciplinary creativeness. Industry relies increasingly on science to develop new products and scientific research needs equipment with a high degree of technical. But instead of celebrating progress public opinion often perceives scientific ventures and technological progress as a threat. This picture was drawn already by the end of last century in a white paper of the EU Commission. Since then, the acceptance of complexity as the new paradigm of reality has become widely recognized.  However, the structure governing the delivery of university teaching has not been tuned accordingly. This essay considers that two urgencies of different nature, but both central to an effective conveyance of academic teaching, should be considered at the level of political decision. The first urgency, epistemological, calls for a necessary recomposition of knowledge, overcoming an outdated partition between sciences and humanities. The second, practical, focuses on global issues that, by their nature and size, cannot fail to have, and in some cases already have, an impact on our future.

  1.    La conoscenza come unità del sapere.

Il noto affresco di Raffaello Sanzio, “La Scuola di Atene”, situato in Vaticano nei Palazzi Apostolici, presenta, al centro dell’opera, i due principali filosofi dell’Epoca Classica, Platone e Aristotele; il punto di fuga si posiziona tra loro, quasi ad indicare che il vero abbia caratteristiche sintetiche, di conciliazione fra l’opera dell’uno e l’altro. Platone, raffigurato con il volto di Leonardo da Vinci, regge il “Timeo” e solleva il dito verso l’alto a indicare l’Uno (l’Idea delle Idee), così  implicando che l’oggetto della ricerca, e con essa, della produzione artistica, è l’idea di Bene, fine ultimo di un  percorso che muove dalla percezione delle cose sensibili per giungere a ciò che le cose sono in verità, oltre le apparenze.

Diciamo dunque per qual cagione l’artefice fece la generazione e quest’universo. Egli era buono, e in uno buono nessuna invidia nasce mai per nessuna cosa. Immune dunque da questa, volle che tutte le cose divenissero simili a lui quanto potevano. Se alcuno accetta questa dagli uomini prudenti come la principale cagione della generazione e dell’universo, l’accetta molto rettamente. Perché dio volendo che tutte le cose fossero buone e, per quant’era possibile, nessuna cattiva, prese dunque quanto c’era di visibile che non stava quieto, ma si agitava sregolatamente e disordinatamente, e lo ridusse dal disordine all’ordine, giudicando questo del tutto migliore di quello. Ora né fu mai, né è lecito all’ottimo di far altro se non la cosa piú bella. Ragionando dunque trovò che delle cose naturalmente visibili, se si considerano nella loro interezza, nessuna, priva d’intelligenza, sarebbe stata mai piú bella di un’altra, che abbia intelligenza, e ch’era impossibile che alcuna cosa avesse intelligenza senz’anima. Per questo ragionamento componendo l’intelligenza nell’anima e l’anima nel corpo, fabbricò l’universo, affinché l’opera da lui compiuta fosse la piú bella secondo natura e la piú buona che si potesse. Cosí dunque secondo ragione verosimile si deve dire che questo mondo è veramente un animale animato e intelligente generato dalla provvidenza di dio.  [1]

Pare utile muovere proprio dal “Timeo”, l’opera di Platone più influente fino al Rinascimento, per iniziare l’osservazione di quel percorso che, nel tempo della nascita ed evoluzione della cultura occidentale, ha modificato profondamente – in modo particolare, ma non esclusivo, entro le Università – l’approccio alle scienze. Un percorso dapprima“sincretico”, poi progressivamente “specialistico”, per ritornare, in tempi recenti, ad una ricerca di nuova unificazione entro le “teorie della complessità”.

Se nel mondo classico l’unità del sapere è fondata sull’idea di Natura, dalla quale tutto proviene e alla quale tutto ritorna, nel Medioevo l’unità del sapere poggia su una visione teocentrica dell’universo, dal Dio cristiano voluto e creato. In questo ambiente, i progetti di raccolta e catagolazione di tutto il sapere in “Summae”si accompagnano al sorgere delle Università come luoghi specifici vocati a realizzare non tanto l’unità del sapere, piuttosto la convergenza dei diversi rami dello scibile verso la “sacra doctrina”, come segnato dal brocardo: “ad unum vertere” [2].

Il percorso sincretico che emerge all’interno dell’esperienza delle universitates studiorum medioevali [3],  vede le varie conoscenze organizzarsi attorno alla teologia. La sintesi cristiana dell’epoca leggeva la sua visione dell’uomo e del mondo soprattutto nella Sacra Scrittura e nelle Auctoritates, rappresentate dai classici cristiani e dai filosofi dell’antichità, in primo luogo Aristotele, ma anche, più indirettamente, Platone, presente, prima della sua reintroduzione in occidente[4], in modo implicito ma significativo attraverso Agostino, Boezio e lo Pseudo-Dionigi.  Rispetto al sapere teologico, le altre discipline avevano un ruolo sussidiario, ma non strumentale: gli scritti dei filosofi, così come le osservazioni dei fenomeni della natura, rappresentavano infatti un insieme di conoscenze utili a  proporre analogie fra il libro della Natura e il libro della Scrittura. Come ha efficacemente sintetizzato Tanzella-Nizzi:

Il medioevo cristiano aveva in sostanza operato una ‘rilettura’ del concetto di natura alla luce di quello di ‘creazione’, recuperando l’impianto gerarchico in chiave teologica: tutto procede da Dio e a Dio tutto ritorna. (…) Ma una simile reductio non andava intesa, per le diverse discipline, come un assorbimento delle varie discipline da parte della teologia. Il sapere è “uno” non perché reso tale dalla teologia, ma perché “uno”, cioè unico, è il creato ed unica è la sua causa. [5]

È nel contesto delle università di Colonia e di Parigi, per citare uno dei casi più esemplari di “reductio ad unum” del sapere che tende a Dio, che sorge e si diffonde l’opera di Tommaso d’Aquino, impresa degna della fama secolare che lo ha seguito, in quanto centrata sulla recezione dello studio di Aristotele nei “Commentarii” e nelle “Quaestiones” universitarie.

2.        Dalla ricerca delle “qualità” degli enti naturali al metodo quantitativo

Nei secoli XIV e XV lo sviluppo dell’Umanesimo pone l’uomo al centro dell’universo. L’universo è creato per l’uomo, l’uomo lo deve conoscere e governare per rendere gloria a Dio creatore. Si sviluppano le arti e le scienze, si studiano nuove e più complesse macchine, si organizzano spedizioni per conoscere il globo terrestre, ma soprattutto si sviluppano nuove metodologie conoscitive che prescindono dai canoni filosofici e teologici consolidati in epoca medioevale. Per il nuovo spirito dell’umanesimo il sapere umano procede dalla Storia e la conoscenza richiede un metodo: alla consapevolezza filologica si accompagna l’idea di una rifondazione culturale.

Se con il “Timeo” Platone aveva inteso proporre una spiegazione dell’ordine del cosmo, e non tanto della sua origine, al nostro fine ora interessa rilevare la chiusa del brano appena citato: il cosmo come essere animato ed intelligente dotato di “anima”. Concezione, questa, che avrebbe svolto una forte influenza sul pensiero filosofico ed estetico dei secoli successivi, giungendo sino alla magistrale raffigurazione di Raffaello. Arricchito dal misticismo numerologico dei pitagorici, il concetto di mondo/natura quale ente animato ispirato dall’Uno sostenne quella importante declinazione della filosofia classica che consentì, su un percorso diverso rispetto a quello originato da Aristotele, di  proporre l’analogia fra armonia cosmica ed opera d’arte.  E’ questa la matrice  dell’idea di un ordine ideale e immateriale che determinò gran parte della poetica del Rinascimento. Attraverso il filtro del misticismo neoplatonico (documentata è l’influenza di Marsilio Ficino sul giovane Leonardo[6]), quell’idea ha spinto filosofi, artisti, poeti dell’Umanesimo, e poi gli scienziati, a leggere la natura come manifestazione sensibile di qualcosa di più elevato, come un insieme di tracce, simboli, emanazioni della vera, ed unica, realtà. Autore in un’epoca di transizione, Ficino opera una sintesi fondamentale per favorire un primo superamento della riflessione dogmatica centrata sulla vulgata aristotelica: nel suo neoplatonismo, infatti, è agevole individuare quei nuclei di pensiero che hanno avuto impatto sullo studio speculativo del tardo XV secolo e di quello successivo. Riprendendo fedelmente gli argomenti del “Timeo”, Ficino rappresenta il cosmo come uno sconfinato organismo animato, sul quale Dio emana la propria luce e con essa la propria energia generativa. Lo sfolgorìo dell’amore divino si diffonde attraverso le sfere celesti con diversa intensità su ogni creatura vivente e sugli esseri inanimati: pertanto tutte le cose, essendo illuminate da Dio, “sono tra loro collegate e contengono in loro la presenza del divino”. Parte del cosmo, l’uomo è l’unico essere che ha il privilegio di cogliere i legami celati tra i fenomeni della natura attraverso quello che Ficino definisce come slancio d’amore, ossia per via “associativa” e “sintetica”. E qui si pone l’accortezza dell’Autore, che mentre nega che l’Uomo possa conoscere la realtà e da essa risalire a Dio con la razionalità e gli strumenti della logica aristotelica, si pone fermamente entro le linee dell’ortodossia cristiana, affermando che cogliere il significato autentico del mondo manifesto ed esistente significa appoggiare la conoscenza su rivelazioni intuitive, stabilendo catene di analogie tra le cose quali emanazioni di Dio.

Non sfugge, peraltro, la diversità di approccio rispetto alla tradizione tomistica:

L’opera maggiore di Ficino è significativamente intitolata Theologia Platonica(1482): con essa l’Autore si pone il compito di rifondare uno spirito religioso capace di armonizzare la verità dei Testi Sacri con i molteplici temi della filosofia greca (e non solamente con quelli di derivazione aristotelica). Pur ponendo secondo tradizione al centro del suo platonismo la saldatura tra religione e filosofia, Ficino innova nel metodo tramite il quale ricerca tale saldatura, isolando il ritrovamento di una sapienza antica in cui quella unità non si era spezzata. Risulta evidente come tale metodo comporti una rilettura di tutte le rivelazioni, di tutti i tempi e di tutte le culture, per rifondare in esse il nucleo centrale di una religione naturale, di origine antichissima.

Il pensiero platonico appare allora come il luogo teorico in cui questa saldatura si era verificata con maggiore evidenza.

La nascita della scienza moderna occidentale, che tradizionalmente datiamo al XVII secolo, è un fenomeno composito, che immerge le proprie radici nel Rinascimento, dal quale riceve la fiducia nella capacità conoscitive dell’uomo, il distacco da principi sovrasensibili per spiegare la realtà naturale, la ricerca di un sapere empirico, il rifiuto del principio di autorità come criterio di verità: e se nel XVI secolo la nozione di scienza è ancora legata a una visione del mondo in cui la natura è intesa come essere vivente, ordinata e con suoi propri fini come un organismo, sarà solamente nel secolo successivo che si potrà definire la scienza come sapere oggettivamente verificabile, fondato su leggi formulate in termini matematici. Tale formalizzazione del metodo, che aveva trovato solidi argomenti nelle declinazionini neo-pitagoriche favorite dall’opera di Ficino e dell’Accademia neo-platonica di Firenze, portò all’adozione di modelli formali per spiegare la realtà naturale, concepita come insieme di corpi in movimento, che condurrà solamente nel corso del XVII secolo all’affermazione del meccanicismo.

Nell’epoca moderna la sintesi che l’esperienza e la cultura medioevali avevano saputo realizzare si rivelerà non più attuabile almeno per due ordini di ragioni:

– la prima costituita dal progressivo diversificarsi delle varie aree disciplinari, alla ricerca di un proprio statuto metodologico, in cui la crescente ampiezza di competenze iniziava a rendere più complessa quella tradizionale, tomistica, “reconductio” del sapere all’interno di un quadro teologico unitario. Come evidente, tale diversificazione non fu irrilevante per le modalità del dialogo fra i vari rami del sapere, favorendo il sorgere di una progressiva separazione fra materie dette “scientifiche” ed “umanistiche”, i cui presupposti trovano origine proprio nel Seicento, per poi affermarsi in modo  deciso con l’edificazione degli statuti disciplinari fra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, e poi completarsi nella seconda metà del XIX con l’ affermazione positivistica delle competenze umanistiche come “scientifiche” [7];

– la seconda riguardante la possibilità di realizzare una lettura della vita sociale e morale, che astraesse dalla lettura fino a quel momento offerta dalle Sacre Scritture, e dall’ermeneutica a base aristotelico-tomistica. Non solo l’astronomia poteva affermarsi come scienza fondata su osservazione e deduzione di leggi generali, ma anche le regole della convivenza sociale potevano essere comprese applicando il metodo sperimentale e deduttivo.

3.         Proposte (ed ostacoli) per una ricomposizione dell’unità del sapere.

Il superamento metodologico della sintesi di epoca pre-moderna, così come l’affermarsi nei percorsi di formazione universitaria di una progressiva specializzazione e partizione dell’insegnamento secondo il modello humboldtiano, che vedeva nella ricerca scientifica disciplinare finalizzata alla formazione delle “élites” la missione prima degli Atenei, non determinò un azzeramento della ricerca di unità del sapere, piuttosto ne favorì la migrazione verso la filosofia, in particolare ad opera di quegli autori che si cimentarono con il tema della unitarietà epistemologica, dapprima in chiave razionalista (il metodo, per Cartesio e Leibniz, i criteri di validità della conoscenza e le relazioni fra metafisica e scienza, in Kant), poi in chiave idealista con la monumentale ricostruzione hegeliana dell’unitarietà di Spirito, Ragione e Storia.

Per quanto riguarda le Università, esse hanno sì serbato, anche nel passaggio del secolo di decadenza [8], l’idea che fra le diverse Facoltà vi fosse una sorta di quadro comune. Ed anche successivamente al sorgere delle università moderne, modellate sulla traccia disegnata da Wilhelm von Humboldt per Berlino, l’interdisciplinarità ed una certa tensione verso l’unità del sapere hanno perdurato come uno dei caratteri distintivi dell’università in quanto tale, causando così lo slittamento di significato da “Universitas” nel senso di corporazione, ad “Universitas studiorum”, nel senso di “totalità degli studi disciplinari”. Sia Humboldt e Fichte, sia J.H. Newman in Gran Bretagna hanno confermato, nel corso del XIX secolo, l’appartenenza degli studi universitari ad un disegno unitario, vedendo nel campus universitario la configurazione architettonica ideale per contenere l’unitarietà del sapere. Tuttavia, si è trattato di una rappresentazione ideale; la realtà dei “curricula” e dei percorsi formativi, per i due secoli della modernità, appare sempre più finalizzata a una competenza settoriale; ed analogo discorso vale per le modalità di reclutamento, sempre più indirizzate verso la “dimostrazione” di competenze disciplinari, testimoniate dalle pubblicazioni e dallo svolgimento della “lectio magistralis” di abilitazione all’insegnamento. Percorsi formativi e la stessa edilizia dei luoghi di formazione universitaria, in altri termini, declinano, nel corso dei secoli XIX e per buona parte del XX, la concezione della “universitas” di saperi quale accostamento enciclopedico, non dissimile nella teoria dai grandi progetti di “summa” enciclopedica di Bayle, e poi da Diderot e D’Alembert in Francia, o della “Britannica”, frutto dell’illuminismo scozzese.

Come ancora Tanzella-Nitti ha efficacemente osservato:

I progetti di unificazione della modernità, si presentano, almeno in linea generale, sotto forma di ’sistemi filosofici’. È difficile non trovare nella loro genesi — che rimonta spesso alla proposta di un solo autore — una  certa ‘visione’ del mondo, della realtà o dell’uomo, che non venga mediata, spiegata e trasmessa attraverso categorie e precomprensioni di tipo soggettivo e dunque all’interno di una prospettiva in certo modo idealista.[9]

L’idea di una (ri)costituzione dell’unità della scienza si è presentata, entro tali sistemi, come un compito teoretico da svolgere ora riproponendo l’osservazione filosofica quale fattore aggregante (cogliere filosoficamente l’insieme delle scienze come realtà una ed omogenea, che si dà nella storia universale), ora situando al centro della sintesi, quale rinnovato elemento catalizzante, l’analisi logico-formale.

Ora, quanto profonda sia la separazione fra la speculazione teorica relativa alla ricerca di unificazione della scienza, e la pratica attuazione delle politiche di gestione della ricerca appare con esemplare, e preoccupante, chiarezza nel caso italiano: in Italia le infrastrutture di ricerca sono in genere gestite da singoli  studiosi o da gruppi omogenei di ricercatori all’interno di dipartimenti universitari, a loro volta disegnati  in un’ottica prevalentemente monodisciplinare. In modo del tutto conseguente, la valutazione delle Università nella competizione per la distribuzione delle risorse appare come  un oggettivo ostacolo allo sviluppo della transdisciplinarietà: la sommatoria della valutazione dei singoli ricercatori, giocata sul piano monodisciplinare dell’alta specializzazione, costituisce al contempo la base della valutazione della qualità della ricerca nell’ambito delle singole aree disciplinari, dei Dipartimenti e della valutazione complessiva delle singole Università. A fronte di così pregnanti fattori, i margini lasciati alla ricerca interdisciplinare, necessario presupposto per realizzare gli obiettivi di una “scienza aperta” (open science) universalmente proclamati, appaiono esigui, sì da realizzare quanto preconizzato da Dewey più di 70 anni or sono, e più recentemente ripreso in un Libro Bianco dell’Unione europea:

lo sviluppo delle conoscenze scientifiche, la loro applicazione ai metodi di produzione, i prodotti sempre più sofisticati che sono il risultato di questa applicazione, danno origine a un paradosso: malgrado un effetto generalmente benefico, il progresso scientifico e tecnico fa sorgere nella società un sentimento di minaccia, addirittura una paura irrazionale [10].

Merita anche annotare la risposta elaborata nel medesimo documento e assegnata quale compito a istruzione e formazione per contrastare gli effetti nocivi ora indicati:

La prima risposta consiste nella rivalutazione delia cultura generale. In una società in cui l’individuo dovrà essere in grado di comprendere situazioni complesse che evolvono in modo imprevedibile, in cui dovrà affrontare un cumulo di informazioni di ogni genere, esiste un rischio di separazione fra coloro che possono interpretare, coloro che possono solo utilizzare e coloro che non possono fare né l’una né l’altra cosa. In altri termini, tra coloro che sanno e coloro che non sanno. Lo sviluppo della cultura generale, cioè della capacità di cogliere il significato delle cose, di capire e di creare, è la funzione di base, nonché il primo fattore di adattamento all’economia e all’occupazione [11].

I segni qui riassunti, a titolo paradigmatico di più estesi [12] e argomentati[13] richiami, pongono due urgenze, di diversa natura, ma entrambe centrali per il discorso che stiamo svolgendo.

La prima urgenza, epistemologica, richiama ad una necessaria ricomposizione dei saperi, ed è mossa da un fine di maggior efficacia della scienza a fronte delle sfide poste a molteplici settori disciplinari da questioni complesse, di larga scala e di lungo periodo.

La seconda, pratica, pone al centro questioni globali che, per la loro natura e dimensione, non potranno non avere, ed in alcuni casi già hanno, un impatto sul futuro dell’umanità,[14] e che ad ora mancano di un approccio trandisciplinare, unitario, non avendo trovato le diverse discipline che a tali questioni guardano un luogo condiviso di ponderazione competente.

E’ del tutto verosimile che, come già in passato, la ricerca scientifica continuerà ad orientarsi verso i temi ora indicati, proprio in ragione delle sfide di complessità che essi comportano. Meno scontata è una previsione sui luoghi in cui la ricerca si organizzerà. Affinché tali luoghi restino, secondo tradizione, le Università, sono necessarie almeno due condizioni.

Innanzitutto, le spinte alla transdisciplinarità dovranno trovare terreno fertile; una fertilità che implica necessariamente fiducia nella utilitas collettiva degli Atenei, semplificazione amministrativa, autonomia nella gestione, mantenimento della dimensione transnazionale.

In secondo luogo, le linee guida di scienza aperta [15] e di condivisione pubblica della ricerca sui grandi dati [16] dovranno riuscire nel non semplice sforzo di promuovere la condivisione dei grandi progetti di missione scientifica tra i rappresentanti del potere politico e con il pubblico in generale.

L’insuccesso della prima ipotesi condurrà, almeno nel continente europeo, ad una privatizzazione della ricerca, con conseguente perdita di neutralità dei fini della medesima, mentre il fallimento della seconda potrebbe condurre, nella competizione globale, ad una prevalenza, quali luoghi di produzione della ricerca, di quegli ordinamenti statali nei quali la ricerca aperta non è fra le opzioni favorite da regimi a scarsa rappresentanza democratica e a debole trasparenza dei meccanismi di produzione.

Questi i bivi a fronte dei quali si trova, oggi, la tensione positiva verso una ricomposizione dell’unità dei saperi.


[1] Timeo, 27 c-31 b – Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari, 1967, pagg. 476-480.

[2] Seguendo lo schema diffuso dall’Università di Bologna, le facoltà erano, come è noto, quattro: la prima, delle Arti Liberali, propedeutica alle altre, riguardanti i rapporti dell’uomo con il suo corpo (Medicina), con i suoi simili (Giurisprudenza), con Dio (Teologia).

[3] Diversamente dalle numerose e risalenti esperienze di Scuole ed Accdemie presenti già in epoca classica, l’Universitas medievale che sorge a partire dal secolo XII si distingue, sin dalle sue prime origini, per il titolo giuridico riconosciuto a chi ne ha seguito i corsi (la “licentia docendi”).  E’ bene inoltre ricordare che l’espressione “Universitas studiorum”, così come “Studium generale”, non si riferiscono, in tale fase di origine, ad una pretesa unitarietà del sapere, designando invece, la prima (“Universitas”, in tal senso quindi analoga a “Corpus”, o a “Collegium”) la corporazione dei “doctores” (“Universitas magistrorum”)che esercitano l’insegnamento (o, in altri casi, come ad es. a Bologna, la corporazione degli studenti, “Universitas scholarium”) la seconda riferendosi alla apertura verso un indistinto pubblico di studenti che poteva frequentare.

[4] Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli,  Milano, 2013  p. 387.

[5] Giuseppe Tanzella-Nizzi, Teologia e scienza. Le ragioni di un dialogo, Bonanno, Milano, 2003 pp. 180-181.

[6] James Jemkins, La riscoperta di Platone nel Rinascimento italiano, (1992) Edizioni della Scuola Normale Superiore, Pisa 2009.  Vd. anche: André Chastel, Leonardo da Vinci e il neo-platonismo, in Arte e Umanesimo a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico, Einaudi, Torino 1964, pp. 412-451.

[7] Hans Blumenberg, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, Il Mulino, Bologna (1981), trad. it. 1984, pp. 277-285.

In ambito tedesco nasce con Friedrich Schleiermacher (1768-1834) – e sarà amplificata da Wilhelm Dilthey (1833- 1912)-  la divisione tematica fra scienze della natura (“Naturwissenschaften”) e scienze dello spirito (“Geisteswissenschaften”), fondata su una loro supposta irriducibilità ermeneutica.

Nell’opera De la littérature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales (Parigi, 1801), Madame de Staël si riferisce alle scienze della natura come “scienze positive”, tessendone l’elogio in termini di rigore metodologico e precisione. Qualità che, a suo parere, mancherebbero agli studi morali e politici, ove gli errori si moltiplicano, causati dalle passioni e dallo spirito di parte che segnano l’atteggiamento di gran parte degli studiosi.

Rifacendosi a Condorcet, ed al suo tentativo di estendere il metodo scientifico al campo degli studi sociali, Madame de Staël preconizza l’affermazione di scienze morali e politiche – le scienze sociali- fondate sulla “filosofia delle scienze positive”. Una tale trasformazione, a suo parere, favorirebbe un più accelerato e affidabile progresso sociale. La De Staël risulta essere la prima autrice a riferirsi in modo esplicito ad una “filosofia delle scienze positive”, ed a porre questa in relazione con le “scienze sociali”, così ispirando dapprima Henri de Saint-Simon, e poi il suo discepolo Auguste Comte.

[8] Il secolo  XVII, che vide il declino di gran parte degli Atenei storici nelle diverse Nazioni dell’Europa, sia a causa del fermo controllo della Chiesa cattolica, ad esito della Controriforma, sia in seguito alla nascita di luoghi deputati alla ricerca, quali Accademie e Collegi, esterni agli Atenei.

[9] Ivi, p. 182.

[10] Libro bianco su Istruzione e Formazione: insegnare e apprendere. Verso la Società conoscitiva, COM(95) 590 def., p. 6.

[11]  Ivi, p. 7.

[12] Pensiamo all’emergere, in Fisica, di diversi formalismi unificanti, quali l’elettromagnetismo, l’interazione elettrodebole, la teoria unificata dei campi.

[13]  Fra le recenti riflessioni filosofiche sull’interdisciplinarità è da ricordare con attenzione l’opera di Edgar Morin, ed in particolare i suoi lavori sul metodo con cui affrontare il tema della complessità (intesa da Morin come la modalità costante con cui la natura si offre alla indagine della scienza) e della conoscenza umana. Autore di una filosofia che fondi le sue categorie sul comportamento della natura e di una scienza più attenta all’interazione soggetto-oggetto, Morin teorizza la necessità di accedere a modi di pensiero che superino le antinomie dialettiche tipiche del pensiero occidentale.

[14] Vd.: Interdisciplinarity. Why Scientists must work together to save the world, in Nature 2015, pp. 305-311.

[15] Vd.: League of European Research Universities, Open Science and its role in universities: A roadmap for cultural change, Leuven 2018. Vd. anche: Sergio Scamuzzi, Giuseppe Tipaldo (cur.), Apriti scienza. Il presente e il futuro della comunicazione della scienza in Italia tra vincoli e nuove sfide, Il Mulino, Bologna, 2015.

[16] Data sharing and the future of science in Nature Communications vol. 9, Article number: 2817 (2018).