Dalle collezioni settecentesche alle connessioni digitali, da “tempio” a “casa”: il Salinas, un museo in piena evoluzione nel panorama digitale

 di Elisa Bonacini[*]

Premessa

La parola lockdown ha un significato pregnante, connesso a ciò che la pandemia COVID-19 ha rappresentato nel 2020-2021 per l’umanità e per i luoghi della cultura, costretti a chiusure più o meno prolungate, a visite contingentate e ai più vari accorgimenti per la fruizione, fisica e digitale.

A guardare sotto la lente dell’oggi quanto accaduto ieri, esiste una realtà museale italiana che una forma di lockdown l’aveva già sperimentata al pari della reazione social a quella chiusura forzata: il Museo archeologico regionale “Antonino Salinas” di Palermo, già celebrato per questo negli anni passati come un vero case study[1].

Se il lockdown ha evidenziato quanto di irrealizzato vi fosse a livello di digitalizzazione del patrimonio culturale e di competenze e professionalità, soprattutto in Sicilia, ha anche messo in evidenza come certe modalità, percorse in modo sperimentale e autonomo, siano state non solo portatrici di una nuova ventata nella comunicazione culturale ingessata dell’intero sistema italiano, ma precorritrici di quella rivoluzione, che la pandemia ha accelerato.

In questi ultimi anni, e proprio a partire dal lockdown, ho avuto modo di tornare a riflettere e scrivere più approfonditamente di musei, storytelling e nuove tecnologie. La spasmodica necessità dei musei chiusi di rimanere “connessi” con il pubblico, mi ha portato a individuare un nuovo modello di museo, il museo di connessione o di narrazione connessa, che si è rivelato assolutamente calzante per le modalità di reazione social o online alla pandemia e che, a tornare indietro a quasi dieci anni fa, ha avuto proprio nel Museo Salinas il suo indiscusso precursore. Per comprendere come si sia approdati a un nuovo modello di museo (collezione/connessione)[2] e a un nuovo sentiment (tempio/casa), voglio ripercorrere brevemente la storia della definizione di Museo[3].

LA NASCITA DEL MUSEO E IL MUSEO DI PALERMO:
DA “MUSEION-TEMPIO” A “MUSEO DI COLLEZIONE”

Se l’idea di museo come “luogo sacro” o “tempio” nacque all’epoca del Mouseion di Alessandria d’Egitto, è nel tardo Medioevo e nel Rinascimento che apparvero le primigenie forme di museo di collezione, raccolte di antichità e persino stranezze o rarità, costituite per il godimento dei fondatori e di ristrette élites, oggetti di una forma di culto intellettuale da raccogliere, studiare, esibire.

Fu con la donazione dei bronzi Capitolini al popolo romano da parte di Sisto IV nel 1471 che apparve una moderna concezione di collezione aperta al pubblico godimento.

A Paolo Giovio si attribuiscono generalmente l’ideazione e la creazione del primo luogo progettato appositamente per esporre una collezione d’arte (la villa nei pressi di Como, costruita nel 1537-1543), da lui definito Musaeum, secondo una definizione d’ellenistica memoria.

Con l’istituzione dell’Ashmolean Museum di Oxford, nel 1683, sorse il primo museo pubblico moderno che, dietro il pagamento d’un biglietto, per la prima volta esponeva opere d’arte per la conoscenza e l’educazione di tutti. L’esempio di Oxford fu seguito da molte città, dove furono fondate accademie, musei e biblioteche aperte e con intento chiaramente didattico: la trasmissione della conoscenza fu riconosciuta come una responsabilità pubblica, condizione essenziale per il progresso sociale.

Centodieci anni separano il Museo di Oxford dal Musée du Louvre, fondato nel 1793 e figlio della Rivoluzione. Con il Louvre la collezione divenne patrimonio collettivo, strumento di identità e diffusione del sapere, di proprietà del pubblico, della Nazione che se ne prende cura e, attraverso essa, educa. Così, le grandi nazioni europee iniziarono a proporsi come custodi di un patrimonio culturale di interesse sovranazionale. Il valore artistico si distinse, definitivamente, da quello politico o religioso, e fu diretta premessa delle razzie perpetrate ai danni delle culture antiche, giustificando il sorgere del collezionismo di Stato.

Mentre si sviluppava il prototipo di un museo razionale-positivista, che voleva classificare il passato, dall’altro si accreditava il modello romantico, che celebrava l’identità nazionale attraverso l’arte.

Questo è il momento storico, in cui appare sulla scena il Museo di Palermo[4].

Mentre non si era ancora pienamente esaurita la tumultuosa esperienza napoleonica, a Palermo nel 1814 veniva fondato il Real Museo dell’Università, che ebbe sede presso la Casa dei Padri Teatini di San Giuseppe. Le sue collezioni si arricchirono già nel 1816 dei reperti rinvenuti a Tindari da Robert Fagan (che rischiavano di prendere la via dell’Inghilterra o del mercato antiquario), poi delle metope del Tempio C di Selinunte, rinvenute nel 1823 dagli inglesi Harris ed Angell (la casa reale borbonica, preoccupata che si replicasse quanto accaduto nel 1812 con i marmi di Partenone, riuscì ad impedire il “contrabbando” delle opere d’arte rinvenute a Selinunte), e, a partire dal 1831, delle pregevoli donazioni al Museo da parte dei regnanti borbonici, Francesco I e Ferdinando II.

Con l’Unità d’Italia, le collezioni storicizzate diventarono pubbliche: da un lato, dalle collezioni reali, principesche o accademiche nacquero i Musei civici e nazionali; dall’altro, per applicazione delle leggi eversive, gli stessi musei videro incrementare le collezioni con gli espropri dei beni degli ordini religiosi[5].

Così accadde anche al Museo di Palermo: nel 1860, su decisione del governo dittatoriale di Garibaldi, venne staccato dalla Regia Università e innalzato al grado di Museo Nazionale. Le collezioni si incrementarono con l’acquisizione e l’acquisto di altre collezioni (Museo Salnitriano dei Padri Gesuiti nel 1863; legato Valenza nel 1864; collezioni Astuto di Noto e Bonci Casuccini di Chiusi nel 1865). Già dal 1863, un regio decreto stabiliva che i reperti provenienti dagli scavi della Sicilia centro-occidentale confluissero a Palermo. Nel 1866, il Museo venne trasferito nella attuale sede della secentesca Casa dei Padri Filippini all’Olivella[6], dove finì per raccogliere altre opere di pregio e collezioni, come quella del Museo Benedettino di San Martino delle Scale (1870) e la stessa collezione privata di Antonino Salinas, nominato direttore del Museo nel 1873. Ebbe così inizio una stagione illuminata di scavi e ricerche quarantennale (1873-1914), precorritrice di una concezione modernissima di museo (che arricchì le collezioni del Museo con i reperti da Mozia, Selinunte e Tindari).

Meritano di essere riprese in questa sede le considerazioni, già espresse in passato, proprio in merito alle posizioni di Antonino Salinas[7]. La modernità del suo messaggio, ben evidenziata nella mostra Del Museo di Palermo e del suo avvenire. Il Salinas ricorda Salinas 1914-2014[8], era palese nella forza con cui esprimeva il suo concetto di museo, come bene pubblico dedicato all’educazione e non alla vanità dei singoli, e quello di appartenenza e accessibilità del patrimonio culturale alla collettività[9]. Antonino Salinas si rivelò quindi vero precursore del moderno concetto di museo, che lui intese come bene di pubblica utilità, condiviso e partecipato, accessibile a tutti, come rivelano quelle che oggi possiamo definire le “parole chiave” da lui utilizzate: condivisione, bene pubblico, proprietà comune, memoria, tempo, futuro. Una idea, tipica del ruolo didattico che il museo tardo ottocentesco aveva iniziato a rivestire e che veniva pienamente sposata da Salinas, il quale ebbe il merito di organizzare scientificamente tutte le differenti collezioni che confluivano nel Museo di Palermo, da quelle archeologiche a quelle storico-artistiche. Quella lezione, riattualizzata alla riapertura del Museo nel 2016 che al pensiero originario di Salinas si è rifatto per la sua strategia di comunicazione sui social, rientrava nel contesto politico-sociale dell’epoca, orientato alla modernizzazione e democratizzazione della cultura, come bene riconosciuto e garantito direttamente dal potere politico, dallo Stato.

Proprio per il suo carattere oscillante fra modello razional-positivista e nazional-romantico, il museo ottocentesco ebbe due modalità di comunicazione del suo messaggio: la grandezza nazionale o l’evoluzione, dando in entrambi i casi per scontato (origine di un errore fondamentale sulla comunicazione culturale) che il livello di comunicazione verso il pubblico fosse lo stesso e il visitatore sapesse interpretare ciò che vedeva.

IL MUSEO CONTEMPORANEO: DA “MUSEO DI COLLEZIONE” A “MUSEO-FORO”

Il Novecento è stato un secolo di grande dibattito sul ruolo dei musei. All’inizio, alla luce delle riflessioni avanguardistiche, i musei iniziarono a “pesare” per l’ingombrante autorevolezza nei confronti dell’aspetto creativo, al punto da essere definiti “cimiteri”, “dormitori pubblici” o “assurdi mattatoi di pittori e scultori”.

Quel concetto di “carcere di monumenti”, che il Salinas aveva combattuto trent’anni prima, riaffiorava pesantemente di fronte al battage negativo contro il conservatorismo che, secondo certe correnti intellettuali, i musei rappresentavano.

Mentre nei paesi europei, impegnati nella ricostruzione postbellica, i musei stavano attraversando una delle loro peggiori stagioni, negli Stati Uniti (dove, nel frattempo, dal 1870 in poi si erano istituiti alcuni dei più importanti musei americani) si iniziava a indagare il rapporto tra musei e visitatori e discutere di una nuova configurazione del museo.

Gli anni del dopoguerra furono decisivi per tanti musei italiani e internazionali, anche grazie al riconoscimento, da parte dell’International Council of Museums, nel 1948, del ruolo delle istituzioni museali nello sviluppo sociale.

Anche per il Museo Nazionale di Palermo quelli furono anni cruciali.

Le collezioni, che erano state interamente trasferite al monastero di San Martino alle Scale per preservarle dai bombardamenti alleati del 1944, tornarono al museo con un nuovo allestimento su base tipologica, curato a partire dal 1949 dalla direttrice Jole Bovio Marconi e rimasto praticamente invariato fino agli ultimi lavori di riallestimento, in via di conclusione.

Qualche anno dopo, si decise il distaccamento della collezione storico-artistica (che aveva nella quadreria universitaria uno dei suoi nuclei maggiori), con la creazione della Galleria per le collezioni d’arte medievale, che trovò sede a Palazzo Abatellis, il cui allestimento museografico fu affidato all’archistar Carlo Scarpa (1954)[10].

Dopo la lunga gestazione della ricostruzione, fra gli anni ‘60 e ‘70, il museo europeo era riuscito a ripristinare la sua funzione educativa e, attraverso nuove esposizioni, a trasformarsi in luogo di memoria e conoscenza.

In quest’ottica rientra il cambiamento di percezione espresso dall’americano Cameron Duncan, direttore in quegli anni del Brooklyn Museum[11]: egli sperava che i musei potessero praticare la loro responsabilità sociale nei processi di democratizzazione della cultura, divenendo capaci di creare un’effettiva uguaglianza nelle opportunità culturali, evolvendosi dal modello di museo-tempio a quello di spazio di discussione e interazione democratica, il museoforo.

A partire da allora, i musei avviarono un processo di cambiamento storico, aprendo le collezioni al grande pubblico e ripensando la propria missione educativa.

In Sicilia, intanto, il passaggio delle competenze in materia di beni culturali dallo Stato alle Regioni nel 1977 comportava, per il museo palermitano come per quello di Siracusa, il passaggio da Nazionale a Regionale.

La “scoperta del pubblico” negli ultimi decenni del secolo scorso, ha portato con sé profondi cambiamenti nella percezione e nella politica stessa dei musei[12]: sono nati il marketing e il branding museale; le teorie della comunicazione, della percezione e dell’apprendimento, soprattutto costruttivista, hanno iniziato a essere applicate agli allestimenti museografici, con l’inserimento delle prime installazioni tecnologiche e interattive[13]; sono state organizzate attività complementari varie, da workshop a mostre temporanee, adattando le esperienze di visita ai visitatori.

Negli anni ’80 (anche se le prime sperimentazioni datano sin dagli anni ’50), nell’ottica di facilitare la comprensione autonoma degli allestimenti museali, iniziarono a diffondersi le audioguide portatili, che dovranno aspettare l’inizio degli anni ’90 con l’evoluzione digitale dei formati audio (.mp3), per fare il primo vero salto di qualità.

LA RIVOLUZIONE DIGITALE: DA “MUSEO PARTECIPATIVO”
A “MUSEO DI COMUNITÀ” E IL MUSEO SALINAS, CASO DI SOCIAL-MUSEUM

Il quadro, appena delineato, si è chiuso con la descrizione di ciò che i musei erano fino alla fine del secolo scorso. Nell’ultimo ventennio il cambiamento è stato epocale grazie alle nuove tecnologie digitali della comunicazione e all’evoluzione del modello di cultura, che ha il punto di svolta nelle definizioni di Convergence Culture e di Participatory Age (infrastruttura semantica in grado di riunire media tradizionali e digitali, contenuti prodotti dagli utenti, piattaforme digitali e dispositivi mobili)[14], e nel conseguente sviluppo del modello di museo partecipativo[15], contemporaneo all’adattamento del modello museale costruttivista anche al web[16].

La comunicazione social ha facilitato la trasformazione da museo di collezione a museo partecipativo, aperto alla co-produzione dell’offerta museale da parte degli utenti tramite contenuti digitali da loro generati (i celebri user generated content), attivando processi di co-creatività e di creazione di senso di appartenenza e di valore culturale.

Quelli erano gli anni della mia ricerca sulla visibilità digitale del patrimonio culturale siciliano sul web[17]. Il panorama che ne venne fuori, a differenza della “corsa al digitale” che avveniva altrove, appariva desolante, in un panorama generale che la museologa Alessandra Mottola Molfino definì di veri e propri “musei negati”[18].

Mentre la Sicilia si teneva ai margini dell’evoluzione digitale e il Museo Salinas iniziava quello che oggi potemmo definire “il suo primo lockdown”, chiudendo in parte nel 2009 e definitivamente nel 2011 per un restauro dell’intero complesso architettonico e delle stesse collezioni, l’uso dei social media nei musei nel resto del mondo aveva suggerito già un ulteriore modello, il museo connesso, legato alle nuove forme di comunicazione culturale digitale, modulate sull’utente e non più su una prospettiva autoreferenziale di trasmissione della conoscenza[19].

Proprio di quegli anni è anche l’adozione del doppio concept di museo, come  museo-sensibile[20] e, rivitalizzando il modello di Duncan, di museo-agorà[21], modelli collegati entrambi a tutte quelle nuove forme di democratizzazione, di linguaggi e contenuti, favoriti anche dalle nuove tecnologie.

Il museo sensibile, che propone esperienze di fruizione a livello cognitivo ed emotivo, semanticamente abbraccia sia l’aspetto della sperimentazione con i sensi dei contesti fisici, sia l’evoluzione nella “sensibilità” del museo, dettata da una maggiore permeabilità alle istanze di cambiamento, con politiche orientate all’audience engagement e all’user experience.

Con il rilancio del concept di museo-agorà ritorna in auge per il museo il ruolo di agente di cambiamento sociale e urbano. A questo modello si è ispirato, nella ristrutturazione dei suoi ambienti, il Museo Salinas: una delle sue sale più accoglienti è stata chiamata agorà, spazio all’apparenza aperto nella sua ariosità, circondato su due lati dalle sale del museo, come fossero antiche stoai, reso luminoso dall’imponente lucernaio. Questa agorà è il luogo di dialogo, dibattito, confronto e socializzazione, con cui il Salinas ha riaperto il pian terreno alla comunità e ai visitatori nel 2016, sotto lo sguardo frammentato del gorgoneion del Tempio C di Selinunte (fig. 1), e con #lestoriedituttinoi, il core slogan sui social della sua strategia comunicativa[22].

Fig. 1. L’Agorà del Museo Salinas.

Il Salinas, offrendo al pubblico prima il suo spazio virtuale sui social (2014- metà 2016), poi il suo spazio fisico come piazza pubblica, è riuscito a creare connessioni empatiche con la collezione, raccogliendo intorno a sé voci ed espressioni delle persone, communities virtuali divenute comunità fisiche, che hanno contribuito a co-costruire il racconto di un Museo “chiuso per restauro ma aperto per vocazione” (così recitava il primo teaser della comunicazione sui social alla fine del 2013) in modo partecipativo, favorendo il senso di appartenenza a una comunità patrimoniale individuale e plurale allo stesso tempo, in linea con i principi della Convenzione di Faro (fig. 2).

Il Salinas non si è mosso e tuttora non si muove a caso, in una realtà siciliana, rimasta troppo a lungo ingessata e quasi insensibile ai cambiamenti (per richiamarci alla “sensibilità” di cui abbiamo parlato). La ricerca di connessione con la comunità si è manifestata prima solo virtualmente, creando un variegato pubblico di followers virtuali, che si è trasformato in quella comunità capace e desiderosa di riappropriarsi fisicamente del suo museo.

Non è un caso che l’attenzione del Museo si sia focalizzata spesso sulle comunità patrimoniali locali: il ripensamento del rapporto fra istituzioni e comunità, messo in campo proprio dalla Convenzione di Faro, ha favorito un passo in avanti nell’elaborazione di altri modelli museali, come il museo di comunità[23] da un lato, e il museo di narrazione dall’altro, con cui restituire nuovo significato alle collezioni, viste alla luce del ruolo che la narrazione ha nelle modalità di trasmissione e relazione proprio con le comunità locali: storie da ri-scoprire e far scoprire, per favorire nuove connessioni[24].

Fig. 2. Oltre 1.400 persone alla Giornata Internazionale dei Musei (19 maggio 2019).

IL MUSEO CONNESSIONE

Nell’ottica dell’attivazione dei processi di accessibilità e coinvolgimento, che appunto la Convenzione di Faro richiede, bisogna diminuire la distanza percepita a livello cognitivo, frutto di due variabili, difficilmente tenute in considerazione quando si parla di pubblici: la padronanza di codici simbolici e la padronanza di conoscenza associata[25], legate alle problematiche relative alla comprensione e leggibilità delle opere; in una parola, all’accessibilità cognitiva dell’arte.

Partendo dalla visione antiquaria del museo di collezione, nel tentativo di andare oltre i citati modelli, e alla luce delle riflessioni prodotte in seguito alla pandemia COVID-19, credo che l’idea del museo di connessione o museo di narrazione connessa riesca a fondere in sé i precedenti modelli in un insieme unico, in cui le tecnologie (centrali nella comunicazione e disseminazione del patrimonio culturale) hanno un ruolo preponderante ma non esclusivo e trovano nello storytelling – già considerato la chiave per costruire narrazioni[26] – il  “facilitatore” di nuove forme di connessione[27].

Nel modello che propongo di museo di connessione, lo storytelling (attraverso le sue molteplici funzioni: comunitaria; referenziale; empatica; mnestica; identitaria; valoriale; “trampolino”; connettiva, che le assomma e comprende tutte) favorisce nuove forme di connessione, fisiche e digitali, tra istituzioni e patrimonio, tra individui e collettività, tra oggetti, simboli, segni, materiali e immateriali e tutto ciò che essi rappresentano nel sistema valoriale individuale e collettivo.

I musei devono coinvolgere le persone in processi di co-progettazione, co-creazione, co-design non solo di contenuti culturali, analogici o digitali che siano, ma di attività proattive che inneschino sui luoghi, nelle comunità fisiche e nelle communities virtuali, processi virtuosi di creazione di valore culturale e sociale, di creazione di senso di appartenenza e di riconoscimento del significato del patrimonio comune, così come di un’espressione propria di ogni singolo individuo all’interno di un’intera comunità.

I musei devono scendere fra la gente, chiamarla a voce, interessarla, farla entrare; devono cercare fuori chi non vuole entrare dentro: solo così creeranno pubblici nuovi, communities che nascono dentro le comunità, che sentono profonda l’affiliazione all’istituzione. Solo così, memorie e identità individuali e collettive possono incontrarsi, riconoscersi, ibridarsi, co-creare e co-costruire insieme narrazioni nuove e comuni. In questo ruolo di co-costruttori di memorie collettive e identitarie, tipico del modello partecipativo e di comunità, le istituzioni culturali hanno un potente alleato nelle narrazioni e proprio nello storytelling: per questo il modello di museo di narrazione connessa ricomprende gli altri citati. E, per questo, vogliamo presentare le progettualità condotte nell’ultimo anno al Museo Salinas, anche in previsione del nuovo allestimento.

IL SALINAS , DA MUSEO A “CASA”

Con il primo lockdown forzato e la sua comunicazione social, rivoluzionaria per quei tempi (2014-2016), il Museo Salinas aveva già messo in atto tutte le varie modalità di espressione, con cui si è declinato il modello di museo negli ultimi anni: museo partecipativo, connesso, sensibile, museo-agorà, di comunità e di narrazione. Raccogliendo in uno le caratteristiche di questi modelli, riconosco proprio nel Salinas il museo al quale tutte queste caratteristiche si adattano (nonostante le difficoltà infrastrutturali della rete, attraverso cui il museo fino alla fine del 2023 si connetteva col mondo, recentemente superate grazie al progetto di implementazione della connettività con Vodafone Italia, cui si accennerà a seguire).

Con il vero lockdown, dal D.P.C.M. dell’8 marzo 2020, il Salinas ha voluto farsi percepire come “altro” sui social, candidandosi a spazio pubblico comune di avvicinamento sociale anziché di distanziamento, in grado di coinvolgere le comunità di prossimità, di farsi percepire come luogo dal sapore intimo, familiare e quasi privato, dove sentirsi al sicuro, come può esserlo solo una “casa”. Lo slogan che ha caratterizzato il primo vero lockdown è stato, per noi tutti, #iorestoacasa e, sfruttando questa idea di base, di ricerca e garanzia di protezione, la social media strategy del Salinas ha sviluppato un nuovo concept, quello di #CasaSalinas, un museo che ti accoglie come a casa (fig. 3). Lo spiegava bene lo stesso Sandro Garrubbo, social media manager del Museo, nonché ideatore delle strategie social sin dalla fine del 2013:

«il complesso monumentale sede del museo [ex convento, già Casa dei Padri Filippini] diventa il nuovo habitat narrativo da declinare sui media social[i] per dare continuità alla prossimità con la community e per prefigurare, da aperti, una salubre residenzialità fisica oltre che affettiva. Viene veicolata l’idea del museo/casa come nostro secondo luogo di salvezza [dopo casa nostra], attivatore di benessere psicofisico, valorizzando al meglio gli ampi spazi esterni dei chiostri circondati dalla natura e dalle collezioni archeologiche: un esclusivo connubio tra natura e cultura»[28].

E sono state le #archeotellers del Museo, le archeologhe dello staff inclusa la direttrice Caterina Greco, a fare “gli onori di casa”, accogliendo poi fisicamente gruppi contingentati di visitatori, utilizzando la narrazione, lo storytelling, come “facilitatore di connessione”, sia virtuale (nei video su Facebook durante il lockdown), sia fisico (in presenza appena è stato possibile).

Fig. 3. Invito su Facebook per la riapertura del Museo Salinas dopo il lockdown.

IL SALINA , UN LABORATORIO DI STORYTELLING DIGITALE

La pratica dello storytelling digitale è stata ulteriormente messa in atto con nuove strategie di coinvolgimento e comunicazione delle collezioni, legate al completamento dell’allestimento e alla recente realizzazione della mostra Sicilia//Grecia//Magna Grecia. E dunque, quello che cercavo, sono, il cui coordinamento e realizzazione sono stati affidati alla scrivente[29].

Declinata in modalità brandizzata (con un proprio logo e una propria grafica), multimediale, interattiva, cross e transmediale, la mostra si è subito rivelata un unicum in Sicilia, sia per tipologia di dispositivi e contenuti, sia per le modalità di engagement attivate, aprendo una nuova stagione di mostre archeologiche in Sicilia: quelle che si avvalgono delle nuove tecnologie e di uno storytelling partecipativo, coinvolgente, personalizzato ed evocativo, per raccontare le infinite connessioni “nascoste” dietro un reperto.

Fig. 4. Screenshot delle schermate della app della mostra Sicilia//Grecia//Magna Grecia. E dunque, quello che cercavo, sono.

Introdotta da un teaser proiettato nella prima sala, nell’atrio minore, e lanciata sui social con un trailer, il Museo ha messo a disposizione un primo strumento digitale per apprezzare i contenuti della mostra: l’app multimediale, per Android e iOS (fig. 4), che ospiterà a seguire i contenuti di storytelling digitale dell’allestimento permanente, di cui parlerò alla fine di questo contributo; i contenuti della mostra resteranno accessibili dalla app, anche a mostra ultimata. La app affianca e supporta in modalità transmediale un catalogo aumentato, in vendita al bookshop. Il catalogo è stato pensato come una tradizionale porta di accesso alla conoscenza dei reperti in mostra, attraverso le schede scientifiche, ma diventa appunto aumentato e transmediale perché rimanda a contenuti diversificati realizzati in modalità storytelling digitale audio e animato: le narrazioni delle storie dei reperti attraverso 37 podcast e quelle di 6 video animati sui miti, tutti anche accessibili in lingua inglese.

I podcast, oltre che dalla sezione della mostra sull’applicativo, sono stati resi accessibili tramite dei Qr code, collocati sia accanto alle schede sul catalogo cartaceo e disseminati fisicamente lungo il percorso, attraverso i pannellini brandizzati della mostra, che è stata pensata a monte priva di una pannellistica tradizionale scritta, poiché i reperti sono dotati esclusivamente di brevi didascalie, proprio al fine di invogliare i visitatori ad accedere ai contenuti multimediali. Le narrazioni, di cui mi è stata affidata la scrittura, sono state elaborate secondo un linguaggio tipico dello storytelling digitale e con un tone of voice che fosse il più possibile avvolgente e coinvolgente. Si è voluto raccontare non il singolo reperto, certamente descritto nelle sue caratteristiche, potrei dire, scientifiche, ma si è voluto mettere in evidenza, piuttosto, le connessioni che si possono stabilire non solo fra i reperti in mostra, ma anche e soprattutto con quelli della collezione permanente. Riporto di seguito due esempi di narrazione adottata, il primo relativo al rilievo della Atene pensosa da Atene:

«Gli dèi dell’Olimpo avevano un ruolo fondamentale per i Greci, che li immaginavano coinvolti negli eventi umani, pronti a dispute di ogni genere, a prendere le parti di un eroe piuttosto che di un altro, a farsi reciproci dispetti…

Immobile ma decisiva presenza al fianco dell’eroe Perseo, immortalato nella metopa del Tempio C mentre taglia la testa alla Gorgone Medusa, Atena è una delle divinità che più hanno condizionato le sorti dei popoli. Non solo nella guerra, in cui eccelleva, ma anche nell’astuzia, nelle arti e nella tecnica.

Sapremo mai cosa pensavano gli dèi greci? Questo interrogativo nasce proprio osservando il rilievo della “Atena pensosa”, scolpito nel 460 a.C., quasi 2500 anni fa. Oggi il rilievo spicca nel candore della pietra, ma le indagini hanno rivelato che la figura della dea risaltava su un bel fondo azzurro, che ricordava il cielo di Atene.

Questo capolavoro giunge qui in Sicilia dal Museo dell’Acropoli di Atene e fa il “paio” con la scultura acefala, anch’essa in prestito dal museo ateniese, che avete appena ammirato esposta nella Sala delle piccole metope.

Lì Atena appare ancora protetta dalla sua corazza, l’egida, forse trionfante dopo una battaglia. Qui Atena indossa ancora l’elmo, ma sembra sopraffatta da un invisibile peso; poggia sulla lancia, lo sguardo immobile e fisso su una bassa colonna che le sta di fronte.

Sarà stata certamente una vittoria, ma a quale prezzo? Sembra chiedersi la dea. Non sappiamo per quale occasione fosse stata scolpita: alcuni studiosi pensano che si volesse celebrare i caduti di Salamina, la terribile battaglia, vinta dai Greci nel 480 a.C., che vide l’epocale scontro con i Barbari persiani.

Con il suo sguardo perso nel vuoto Atena sembra riflettere sul senso stesso della guerra e sembra chiederci: “Ne vale la pena”?»

Il secondo racconta invece la testa di Io da Metaponto:

«Ecco davanti a voi una delle mitologiche amanti di Zeus, Io, bellissima principessa, figlia del re di Argo e sacerdotessa di Era!

Questa testa proviene dal Tempio di Era a Metaponto, uno dei più importanti della Magna Grecia e ci racconta un mito che ha a che fare con gelosie, tradimenti e vendette.

Qui al Museo conserviamo la rappresentazione delle sacre nozze di Zeus ed Era in una delle Metope del Tempio E, che proprio ad Era fu innalzato sulla collina orientale di Selinunte. Ma non possiamo dire che fosse una coppia affiatata: Zeus non era affatto un “marito modello” ed Era diventava la più gelosa delle mogli!

Ma torniamo alla testa di Io, stilisticamente vicina ai resti delle prime metope del tempio E, datate agli inizi del V sec. a.C., oltre 2500 anni fa. Vedete quei due fori in fronte? Non lasciano dubbi! Lì era collocato un bel paio di corna di mucca!

Se, come ci racconta la piccola metopa di Europa, in quel caso Zeus si trasformò in un seducente toro per trasportare lontano la fanciulla, in questo caso Io fu trasformata da Zeus in una mucca per evitare che la sua infedeltà fosse scoperta! Ma non era facile da ingannare, la divina Era! La povera mucca fu catturata da Era, legata ad un albero di olivo presso Nemea e fu affidata in custodia ad Argo dai cento occhi! Grazie all’aiuto di Ermes, messaggero di dei, Zeus riuscì a far liberare Io, ma Era la fece pungere da un tafano. Pur di sfuggire all’insetto Io fu costretta a correre per tutto il mondo, solcando mari e terre, arrivando infine in Egitto, dove partorì Èpafo, frutto dell’amore con Zeus. Solo allora Io tornò finalmente umana!» 

Questi esempi sono indicativi del tipo di dialogo, non solo informativo, ma il più evocativo possibile, che si è cercato di intessere fra reperti, personaggi, storie, anche attraverso richiami all’attualità.

Per dare seguito alla vocazione partecipativa del museo, si è chiesto a numerosi amici del Salinas di contribuire a questo racconto multivocale (e volutamente non professionale) con le proprie voci: chi scarichi la app e acceda ai podcast potrà ascoltare non solo le voci di chi questa mostra ha curato, Caterina Greco, Flavia Frisone (nelle introduzioni alla mostra) e la scrivente, ma, appunto quelle di chi ha accettato questa “chiamata”[30]. Questa scelta è a sua volta discesa da una prima attività, condotta nel corso del 2022-2023, focalizzata poi su un voice casting, indetto in occasione del processo produttivo dei contenuti di storytelling per la app dell’allestimento, di cui parlerò a seguire. Si è voluto declinare ulteriormente, dunque, come in un unico circuito virtuoso e partecipativo, lo slogan #lestoriedituttinoi con #levocidituttinoi, per cercare di aumentare ulteriormente il senso di appartenenza della comunità coinvolta alle molteplici storie che il Museo Salinas ha da raccontare.

Fig. 5. Screenshot di una scena del video su Demetra e Kore, con i reperti provenienti dal Santuario della Malophoros.

In una seconda sezione della app, sono consultabili anche i 6 video in computer grafica (CGI), a loro volta accessibili in modo crossmediale con la realtà aumentata alla fine del catalogo, inquadrando gli appositi marker con il proprio dispositivo: le storie dei miti e dei culti di Demetra e Kore (fig. 5), Atena (fig. 6), Zeus, Afrodite, Dioniso e dell’eroe Eracle prendono vita, con un linguaggio visuale e grafico accattivante e adatto a piccoli e grandi, connettendosi sia ad alcuni dei reperti archeologici in mostra, che a quelli dell’allestimento permanente, per raccontare in modo evocativo quel senso religioso, cultuale, culturale, simbolico che ha accomunato i popoli del Mediterraneo e che si è fortemente voluto descrivere in questa mostra.

Fig. 6. Screenshot di una scena del video su Atena, con il mito della nascita della dea dalla testa del padre Zeus.

La scelta grafica ha puntato, anche in questo caso, ad associare il racconto visual animato con i reperti del Museo o con elementi archeologici e storico-artistici che contribuissero a rendere ulteriormente più evocativo il racconto, ancorando quei miti ai contesti archeologici siciliani: ecco allora che, raccontando di Zeus, protagonisti non possono che essere la statua colossale dello Zeus di Solunto e la metopa di Zeus ed Era dal Tempio E di Selinunte; o che, narrando del mito di Demetra e Kore, accanto ai numerosi busti della Malophoros, si è deciso di dar risalto alla splendida testa di Ade in terracotta da Morgantina, mentre il celebre dipinto di Persefone col melograno di Dante Gabriele Rossetti restituisce l’idea di quel morso, che legò per sempre Persefone al mondo degli inferi.

Per la prima volta, il Museo Salinas ospita anche una emozionante esperienza immersiva, anche in questo caso predisposta in italiano e inglese. Quattro postazioni con visori sono state posizionate nella splendida sala delle metope selinuntine, per consentire al visitatore di entrare in contatto diretto il Tempio C dedicato ad Apollo sull’acropoli di Selinunte. Grazie a questa mostra, il Museo Salinas si è dotato (in modo permanente) di una innovativa soluzione di racconto, che consente ai visitatori di immergersi in una ricostruzione virtuale del tempio di Apollo, del suo Gorgoneion (fig. 7) e delle metope, ma con una attenzione ad accentuarne l’aspetto cultuale e non esclusivamente di rendering architettonico. L’esperienza è accompagnata dalla voce narrante di un antico devoto, che si trova quasi catapultato nel tempo moderno. Questo “spaesamento” iniziale del protagonista costituisce l’escamotage narrativo per fare un salto indietro nel tempo, in un paesaggio archeologico ricostruito, il tempio con il suo altare, che consente al visitatore di apprezzare la spazialità del contesto architettonico, restituito alla sua monumentalità, entrando quasi a contatto con il Gorgoneion e con le stesse metope del fregio, i cui miti sono raccontati proprio dal devoto di Apollo. L’esperienza si conclude con una suggestione volutamente quasi onirica: in lontananza, mentre finiamo di osservare il tempio con la fiaccola accesa accanto all’altare, sentiamo i versi del canto omerico di Apollo, recitati da una seconda voce, accompagnata dal suono della lira greca tradizionale:

Dovunque, o Febo, si offre materia al canto in tuo onore:

e sulla terra nutrice di armenti, e nelle isole.

A te sono care tutte le cime, e le alte vette

dei monti sublimi, e i fiumi che si versano in mare,

e i promontori digradanti nelle acque, e i golfi marini.[31]

Fig. 7. Esperienza immersiva in VR sul Tempio di Apollo.

Il linguaggio evocativo della poesia, antica e moderna, non è un unicum nell’esperienza virtuale, ma si declina sin dal “sottotitolo” della mostra che richiama un verso di Odisseo Elitis, per poi tornare nell’Agorà. Qui è stato installato a parete un artwall, che accompagna il visitatore in un viaggio visuale attraverso panorami e riprese suggestive di quei molteplici siti archeologici siciliani, da Tindari a Selinunte, da Siracusa a Solunto, da Mozia a Morgantina fino alle isole Eolie (fig. 8), che sono al centro della mostra e della stessa collezione permanente del Museo. Alla forza delle immagini, si accompagna la potenza del racconto, cui ha prestato voce Flavia Frisone, che, quasi in un continuo rimescolamento di riprese, suoni, parole, flash poetici, antichi e moderni, offre al visitatore un momento di profonda “sosta emozionale”, con cui si conclude l’esperienza della mostra.

Fig. 8. Alcune scene evocative dell’artwall, su Selinunte e Morgantina.

Se la fisicità della visita si conclude nell’Agorà del Museo, la sua esperienza digitale viene prolungata e resa accessibile, in tutti i suoi contenuti, attraverso un ultimo prodotto multimediale, realizzato a mostra lanciata e che resterà fruibile ben oltre la fine programmata della mostra temporanea. Si tratta di un tour virtuale interattivo, realizzato su piattaforma Matterport, che consente di fruire in modalità remota della mostra, con una passeggiata virtuale fra le sale e le vetrine in cui sono esposti i reperti in prestito, che consente di interagire con hotspot interattivi da cui fruire dei racconti digitali dei podcast e dei video (fig. 9). Si tratta di uno strumento volutamente pensato sia per favorire forme di accessibilità digitale a chi non può ammirare fisicamente l’esposizione, sia per prolungarne digitalmente la durata, ma anche per favorire l’idea di una “mostra digitalmente diffusa”, da poter mettere in rete con gli enti prestatori, siciliani, italiani e internazionali.

Fig. 9. Screenshot del virtual tour interattivo su Matterport, con hotsposts dei podcast in italiano e inglese.

Prima di concludere questo contributo, si presenta il progetto di storytelling realizzato per l’app del Museo, la stessa che attualmente “ospita” i contenuti della mostra, progettata come hub digitale di accesso alle informazioni riguardanti il nuovo allestimento del Salinas, i cui lavori sono in via di ultimazione.

Un percorso interattivo in 46 punti di interesse (di cui 11 video), con corredo fotografico, testi e voiceover in italiano e inglese, ed altrettanti approfondimenti testuali, distribuito fra i tre livelli, racconta le tante vicissitudini e i tanti protagonisti di questo Museo, che si dipana, a partire dal piano terra, con le vicende connesse alle necessità di salvaguardia del territorio con l’istituzione da parte del governo borbonico nel 1827 della Commissione di Antichità e Belle Arti (come risposta istituzionale e di tutela ai tentativi di “sottrazione archeologica”, perpetrati ai danni delle metope selinuntine), svolta fra Tindari e Mozia, fra Solunto e, appunto, Selinunte, i cui reperti sono già splendidamente esposti da luglio 2016.

Al primo piano il racconto proseguirà con le tante storie delle collezioni, acquisizioni e donazioni che, fra Settecento e Ottocento, sono confluite nel Museo di Palermo, grazie soprattutto all’infaticabile attività di personalità come il Duca di Serradifalco, Michele Amari e quell’Antonino Salinas, che resse la direzione del museo per quarant’anni: dalla collezione universitaria, a quella dei Gesuiti del Museo Salnitriano e dei Benedettini di San Martino alle Scale; dalla collezione del barone Astuto di Noto alle donazioni borboniche da Pompei e Torre del Greco; dalle raccolte provenienti dal collezionismo ottocentesco locale, come la collezione Campolo con meravigliosi reperti da Gela, a quella, strepitosa, del barone Casuccini con i corredi provenienti dalla necropoli etrusca di Chiusi. Ampio spazio è dato alle collezioni di gioielli, monete e medaglie, mentre in una specifica esposizione di antichità egizie, nel nuovo allestimento, troverà la sua sede naturale la Pietra di Palermo (attualmente esposta a piano terra, nella Sala della scrittura).

Il secondo piano, infine, racconterà, attraverso i reperti provenienti dalle ricerche sul territorio, gli importanti contesti archeologici della Grotta dell’Addaura, di altri siti pre e protostorici del territorio, da Mokarta a Sant’Angelo Muxaro e Polizello fino a Castronovo di Sicilia. Un focus a parte hanno il sito pluristratificato di Palermo, raccontato nelle sue differenti fasi, fenicio-punica, romana, araba e medievale; poi i due centri di Lilibeo e Solunto. Concluderanno l’esposizione i reperti provenienti da alcuni contesti bizantini e medievali, dai tesori di Campobello di Mazara e della Basilica di San Miceli a Salemi, fino ai siti fortificati di Castello della Pietra e Brucato.

Nove personaggi sono i protagonisti di questo racconto, insieme a tanti altri personaggi narranti, anche simbolici, cui si è chiesto di dar voce attraverso una call for voices (fig. 10).

Lanciata sui social dalle pagine del Museo e dell’azienda sviluppatrice, ETT, #levocidituttinoi ha raccolto l’adesione di dozzine di followers, che si sono messi in gioco e hanno partecipato al contest inviando delle “prove” di registrazione per candidarsi alla selezione. Diciannove personaggi diversi hanno così preso vita, per consentire al visitatore di scoprire le tante storie, che questo Museo aveva da raccontare[32].

Fig. 10. Call for voices #levocidituttinoi lanciata dal Museo Salinas in collaborazione con ETT.

A nove personaggi principali si è voluto restituire anche un volto (fig. 11): resi con un elegantissimo stile da grafic novel, ecco così animati personaggi “storici”, come Antonino Salinas (protagonista assoluto di tante storie lungo il percorso sui tre livelli, incluse quelle che lo riguardano personalmente, come la passione per la numismatica, trasmessagli dalla madre, e per la fotografia), il Duca di Serradifalco (presidente della Commissione di Antichità nel 1842, nonché autore della splendida opera enciclopedica Le antichità della Sicilia esposte e illustrate, pubblicate fra il 1834 e il 1842), Ferdinando II di Borbone (che, col padre Francesco I, donò al Museo di Palermo un’ampia selezione di opere, rinvenute scavando la Casa di Sallustio a Pompei e la villa romana di Torre del Greco, ma anche splendidi vasi a figure rosse rinvenuti ad Agrigento), Antonino Astuto barone di Fargione di Noto (la cui collezione archeologica, formatasi soprattutto sul mercato antiquario, fu trasferita al museo, dopo essere stata acquistata nel 1862per evitarne la dispersione), Pietro Bonci Casuccini (parte della sua ricchissima collezione dalla necropoli etrusca di Chiusi fu acquistata nel 1865 per volere del governo regio dal Museo di Palermo alla cifra di 35.000 lire, evitandone la vendita a musei europei del calibro del Louvre e del British Museum). A questi personaggi ne abbiamo aggiunti altri: Reshef, il bronzetto da Sciacca, che racconta le storie delle città fenicio-puniche di Mozia e Solunto; Selinous, la celebre scultura bronzea dell’Efebo di Selinunte, voce narrante della storia della città che reca il suo nome; il Genio di Palermo, che introduce tutte le fasi dell’antica città; infine, un’archeologa, che si presta a raccontare le storie relative a contesti di rinvenimento più recenti. Tutti i nove personaggi, storytellers immaginari, si presentano in apposite bio, raccontando le proprie storie.

Fig. 11. Alcuni dei protagonisti graficati della app del Museo Salinas che raccontano le collezioni (da sinistra: Antonino Salinas, il Duca di Serradifalco, il re Ferdinando II di Borbone, il barone Astuto, il conte Casuccini).

Bio dei personaggi, punti di interesse e approfondimenti relativi saranno accessibili dalla applicazione (figg. 12-13), attraverso le mappe interattive dei tre livelli, nonché da Qr code graficati, posizionati lungo il percorso.

Anche in questo caso, tone of voice e narrazione sono stati sviluppati in un’ottica che, rispettando l’aspetto informativo, potesse risultare avvincente e coinvolgente all’ascolto.

Ecco le storie relative alla collezione del Museo di San Martino:

«Dopo Padre Salnitro, tocca a me descrivervi la storia del museo della mia Abbazia, San Martino delle Scale di Monreale.

Fui proprio io, fra’ Salvatore Maria di Blasi, a farmi cogliere da improvvisa passione per l’arte e l’antiquaria, quando ammirai la collezione di Padre Salnitro!

Fu proprio quel museo a ispirare il nostro… Ma da dove cominciare? I Gesuiti godevano di ben altra dote di noi benedettini! La regola del nostro fondatore, San Benedetto, non ci consentiva di avere denari o beni…Dunque fu necessario inventarci qualcosa!

Era il 1744. Io e i monaci miei confratelli iniziammo raccogliendo oggetti d’arte da familiari, amici e chiunque volesse farcene dono. Poi usammo anche parte del ricavato delle messe per comprare ceramiche, monete e quant’altro, ma lo tenemmo ben nascosto ai Gesuiti, con cui iniziammo una silenziosa gara a chi creasse la collezione più bella!

Ma era necessaria una rendita fissa… Fu allora che mi venne un’idea geniale, nel pieno rispetto della nostra regola! Iniziammo a vendere uova! Uova?! Direte voi… esattamente! Ovviamente era un commercio in grande scala e per questo comprai ben 1300 galline, che produssero tante uova da poter comprare ceramiche, cammei, lucerne, bronzi e persino sculture, quadri e armi, che resero la nostra collezione pari a quella salnitriana!

Poi, anche noi benedettini subimmo l’abolizione degli ordini religiosi: così nel 1867 la nostra collezione, frutto di tanti sforzi e altrettanta intraprendenza, finì qui, al Museo di Palermo!»

e dell’Ariete bronzeo:

«Avvicinatevi, non mordo mica, sono in bella mostra proprio per farmi ammirare!

Conoscete la mia storia? Si dice che fossimo due ad abbellire la reggia del tiranno di Siracusa Agatocle, nel III secolo a.C., oltre 2200 anni fa.

Ma non vi svelerò chi riuscì a raffigurarmi come se fossi vero, in carne, vello e corna!

Col mio gemello decoravamo il portale del Castello Maniace di Siracusa, costruito da Federico II di Svevia, poi, nel 1448, re Alfonso d’Aragona ci donò a Giovanni Ventimiglia, marchese di Geraci, in premio per avere sedato una rivolta a Siracusa. Così arrivammo a Castelbuono, dove decoravamo la tomba del Marchese. Nel 1510 fummo confiscati a suo nipote Enrico, accusato di tradimento, e trasferiti a Palermo, prima a Palazzo Chiaramonte, poi al Castello a Mare, infine al Palazzo Reale, dove adornavamo la “Stanza delli Crasti”.

Nel 1735 il re Carlo III ci volle a Napoli, ma i palermitani protestarono a tal punto che tornammo a Palazzo Reale, diventando una delle “attrazioni” principali per i nobili viaggiatori!

Avrei avuto con me il mio gemello, se una cannonata non l’avesse colpito in pieno, durante i moti del 1848, finendo fuso per farne palle d’artiglieria!

Io riportai qualche danno, pertanto si decise che il luogo più consono per me fosse il Regio Museo dell’Università di Palermo, cui nel 1866 mi donò il Re Vittorio Emanuele II in persona!

Da allora e dopo un bel restyling, posto su questo piedistallo, mi godo i vostri sguardi, che ammirano la mia bellezza!»

I visitatori, che avranno modo di scoprire il nuovo allestimento del Museo, potranno godere delle storie che abbiamo pensato per loro.

A ulteriore corredo, altri quattro racconti girano in loop nell’artwall dell’Agorà: la Grotta dell’Addaura, la Pietra di Palermo, Selinunte e Palermo sono raccontate con il medesimo linguaggio visuale, evocativo e narrativo utilizzato per la mostra, con alcuni effetti grafici particolarmente coinvolgenti, quali l’animazione dei graffiti dell’Addaura e dei geroglifici della Pietra.

Fig. 12. Alcuni screenshot delle schermate iniziali di visualizzazione della app del Museo Salinas.

Fig. 13. Alcuni screenshot delle storie raccontante dalla app del Museo Salinas.

Ancora una volta il Museo Salinas, consolidatosi come best practice e disseminatore di nuovi linguaggi e forme di comunicazione, rappresenta un esempio del modello di museo di connessione, che ha nello storytelling il suo “facilitatore” e il suo nuovo concept nel museo-casa, aperto alla partecipazione di tutta la comunità.

Ringraziamenti

Da oltre un decennio sono a fianco del Museo Salinas nel suo percorso di svecchiamento dei linguaggi. Mi preme qui ringraziare della sua stima, amicizia e fiducia, la direttrice Caterina Greco, che mi ha voluta al suo fianco in questa “sfida narrativa digitale”, sia per l’allestimento che per la mostra temporanea; l’amico della “sfida social” Sandro Garrubbo, nonché tutte le amiche e colleghe del Museo e gli amici e colleghi studiosi, che mi sono stati a fianco in questo percorso di rielaborazione narrativa della conoscenza scientifica: Alessandra Carrubba, Lucia Ferruzza, Letizia Graditi, Renata La Grutta, Alessandra Merra, Elena Pezzini, Costanza Polizzi, Sandra Ruvituso, Giuliana Sarà, Vittoria Schimmenti (Museo Salinas); Giuseppina Battaglia (Soprintendenza Beni culturali e ambientali di Palermo, per le Grotte dell’Addaura); Laura Cappugi e Maurizio De Francisci (Centro regionale per il Catalogo, l’Inventario e la Documentazione, per la documentazione grafica e video fornita); Massimo Cultraro (CNR, per la fase preistorica); Francesco Gabellone (CNR, per il modello 3D del Tempio C di Selinunte); Roberto Graditi (per le collezioni Casuccini e del Museo Salnitriano); Massimo Limoncelli (Università degli Studi di Torino, per le ricostruzioni 3D del Santuario della Malophoros); Giuseppe Messina (Parco archeologico di Selinunte); Massimiliano Nuzzolo (Università degli Studi di Torino, per la Pietra di Palermo); Dario Piombino Mascali (Vilnius University, per la testa di mummia egizia); Giuseppe Sarcinelli (Università del Salento, per le collezioni di monete e medaglie medievali); Lavinia Sole (Università degli Studi di Palermo, per le collezioni di monete antiche). Aggiungo i miei ringraziamenti anche alla Graphimated Cartoon di Antonino Pirrotta e Alessandra Ragusa, per aver concesso l’utilizzo del loro video documentario “Selinunte città fra due fiumi” e, ultimi ma non ultimi, i professionisti di ETT S.r.L., Adele Magnelli con Alessandro Cavallaro, Sara Cipullo, Carol Hassan, Claudio Sparacio e Giulia Sperandeo, che hanno saputo concretizzare le mie visioni narrative.

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[1] Bonacini 2016.

[2] Il tema è stato più ampiamente discusso in Bonacini 2023a.

[3] Per una bibliografia essenziale vedi Mottola Molfino 1992; Schaer 1996; Bertuglia, Bertuglia, Magnaghi 1999; Schubert 2004; Cataldo, Paraventi 2007; Fiorio 2018.

[4] Per la formazione delle collezioni storico-artistiche e archeologiche del Museo di Palermo e l’attività della Commissione di Belle Arti e Antichità vedi in generale Salinas 1873 (che restituisce per primo il quadro delle collezioni scientifiche del nuovo Museo unitario pochi anni dopo l’istituzione); Lo Iacono, Marconi 1992; De Vido 2001; Pelagatti 2001; Marconi 2002; Greco 2022. Per l’attività di Antonino Salinas vedi Salinas 1873 (e bibliografia in Spatafora, Gandolfo 2014); Pace 1926; Pace 1944; Tusa 1978; De Vido 1993; De Vido 2001; Gandolfo 2007. Per la collezione della Regia Università vedi Palazzotto 2015; Barbera, Di Natale 2016; per la collezione del Museo Salnitriano vedi Graditi 2003; per la collezione del Museo Martiniano vedi Equizzi 2006; per la collezione borbonica vedi Spatafora 2019; per la collezione etrusca vedi Villa 2012 e Graditi 2022.

[5] Fiorio 2018, pp. 137-141.

[6] Biondo 1995; D’Arpa 2012.

[7] Per l’attività di Antonino Salinas vedi Salinas 1873 (e bibliografia in Spatafora, Gandolfo 2014 e Vistoli 2016); Pace 1926; Pace 1944; Tusa 1978; De Vido 1993; De Vido 2001; Gandolfo 2007; Vistoli 2016.

[8] Spatafora, Gandolfo 2014.

[9] De Vido 1993; Bonacini 2016.

[10] Barbera, Di Natale 2016.

[11] Duncan 1971.

[12] Pitteri 2006, 34-35.

[13] Hein 1995.

[14] Jenkins 2006.

[15] Simon 2010.

[16] Hellin-Hobbs 2010.

[17] Bonacini 2012.

[18] Mottola Molfino 2010, 23.

[19] Drotner, Scrhøder 2013.

[20] Zuccoli 2016.

[21] Barbanera 2018.

[22] Garrubbo 2018a, b.

[23] Colazzo 2019.

[24] Balzola, Rosa 2019.

[25] Martini 2016.

[26] Da ultimi Brouillard, Loucopoulos, Dierickx 2015; Dunford, Jenkins 2017 e Handler Miller 2020.

[27] Bonacini 2020, 30-32; 49-52; 277-278.

[28] Garrubbo 2021, 246.

[29] Realizzata in collaborazione con l’Assessorato regionale dei Beni culturali e dell’Identità Siciliana, il Ministero della Cultura e la Città di Palermo, grazie al contributo di Vodafone S.p.A. e dell’azienda ETT S.p.A. Dei contenuti multimediali e delle strategie di comunicazione della mostra si è data una prima notizia nel catalogo in Bonacini 2023b.

[30] Ringrazio personalmente chi ha partecipato a questo racconto: Alessandro Barile, Claudia Basile, Sara Cipullo, Angelo Cincotta, Ginevra Di Marco, Patrizia Fiore, Alessia Franco, Alfonso Geraci, il giovane quindicenne Vincenzo Mazzamuto, Ambra Marchese Ragona, Claudia Pecoraro, Valeria Pizziol, Dario Scarpati, Elisa Tesè, Giovanni Zuccarello.

[31] Hymn. Hom. Ap., vv. 20-24.

[32] Anche per questo progetto ringrazio personalmente amici e followers del Museo: Giuseppina Battaglia dalla Soprintendenza di Palermo (Iole Bovio Marconi), Angelo Cincotta (Ettore Gabrici), il giovane attore teatrale Adriano Di Carlo (Selinous), l’atttore Cosimo Frascella (Duca di Serradifalco), la giornalista e “raccontatrice” Alessia Franco (Archeologa), Alfonso Geraci (Ferdinando II), l’attore Francesco Giordano (Genio di Palermo), Roberto Graditi, già studioso della collezione Casuccini e salnitriana (Padre Ignazio Salnitro), Ambra Marchese Ragona (la Casa dei Padri Filippini all’Olivella), l’antropologo Gian Mauro Pandolfini (Ariete bronzeo), Giulio Paolucci, direttore Fondazione Rovati (Pietro Bonci Casuccini), Fabio Piazza, speaker del Museo Diffuso dei 5 Sensi di Sciacca (Reshef), Costanza Polizzi, archeologa del Museo Salinas (Tanit), Jonathan Prag, University of Oxford (lord Fagan), Raffaella Salamina (Pietra di Palermo), Giuliana Sarà, archeologa del Museo Salinas (Astarte), Dario Scarpati, ICOM Sicilia (padre Salvatore Maria Di Blasi), Giuseppe Spataro (Barone Astuto), l’attore Giovanni Zuccarello (Antonino Salinas).


[*] elisa.bonacini@uniba.it, Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari, Dipartimento di Ricerca e Innovazione Umanistica. Questa riflessione sul tema dell’evoluzione del museo attraverso il case study del Museo Antonino Salinas di Palermo rientra all’interno del progetto di ricerca “Museums: Back to the future”, nel settore scientifico disciplinare Museologia (L-Art 04) di cui è titolare la scrivente, referente scientifico il prof. Andrea Leonardi, referente di progetto il prof. Giuliano Volpe, attivato all’interno del progetto “Cultural Heritage Active Innovation for Sustainable Society – CHANGES” codice progetto n. PE00000020 – CUP: H53C22000860006, indirizzato alla individuazione delle relazioni esistenti fra musei digitali, partecipazione e Convenzione di Faro.