di Elisa Bonacini (*)
Premessa
Questa riflessione sul tema del significato delle collezioni e dell’evolversi del museo (e della sua percezione) in un’ottica contemporanea (e futura) rientra all’interno del progetto di ricerca “Museums: Back to the future”, nel settore scientifico disciplinare Museologia (L-Art 04) di cui è titolare la scrivente e referente scientifico Andrea Leonardi, attivato all’Università di Bari all’interno del “Cultural Heritage Active Innovation for Sustainable Society” – CHANGES” codice progetto n. PE00000020 – CUP: H53C22000860006.
Il progetto è indirizzato alla individuazione delle relazioni esistenti fra musei digitali, partecipazione e Convenzione di Faro e mira a cercare di fornire una risposta all’interrogativo su quale sia il “museo del futuro”.
Introduzione
Il tema “museo” è stato affrontato da molteplici punti di vista: quello più strettamente museografico, orientato alla descrizione degli allestimenti; quello museologico, legato alla ricostruzione della definizione stessa di museo e della storia del collezionismo fino alla attuale conformazione dei musei contemporanei; quello che identifica il ruolo culturale ed educativo dell’arte; quello mirato all’aspetto del management o del marketing; quello, infine, concentrato sull’aspetto della comunicazione delle collezioni.
Come approcciarsi al museo di oggi e, ancor più, al museo del futuro?
Il digitale ha pervaso ognuna delle differenti visuali con cui, finora, si è osservato il “fenomeno museo”:
- il fenomeno del collezionismo, oggi anche divenuto digitale e persino intangibile, con il mercato legato alla tecnologia NFT1;
- l’allestimento, diventato multimediale, interattivo e con prospettive in via di esplorazione in materia di metaverso e di sfruttamento dell’intelligenza artificiale nel più vasto campo delle digital humanities2;
- l’aspetto educazionale, che oggi usa strumenti digitali di ogni tipologia, dal gaming all’esperienza immersiva;
- il management e il marketing museali, che hanno fatto un balzo in avanti a livello di gestione, vendita e promozione di prodotti e servizi;
- infine, la comunicazione e la fruizione, in situ o remota, fisica, digitale, phygital, aumentata o immersiva delle collezioni.
Questo necessario adeguamento, da parte dei musei, all’evolversi della società e delle sue forme di comunicazione e fruizione del patrimonio culturale, ha favorito una continua interpretazione e reinterpretazione del ruolo del museo che risponde, secondo alcuni, alla docilità e duttilità del museo stesso a prestarsi «ad essere interpretato e dunque a cambiare repentinamente di immagine e di inquadratura»3, se non persino a lasciarsi condizionare nel suo ruolo “politico” e nella parzialità o imparzialità delle sue narrazioni e della possibilità di scelta di operare azioni disgiunte o meno da condizionamenti politici (argomento di recente dibattito e ben riassunto nell’ultima fatica, online e progressiva, di Giovanni Pinna)4.
Nel processo di digitalizzazione favorito dall’introduzione delle nuove tecnologie, un ruolo importante hanno assunto i processi partecipativi nell’ambito della creazione e fruizione sia delle collezioni che dell’universo di contenuti che vi ruotano intorno, riadattate con linguaggi e formati sempre differenti e sempre più orientati a una targettizzazione di tipo user-oriented.
La definizione del modello di museo partecipativo da parte di Nina Simon5, pietra miliare della reinterpretazione 2.0 del modello tradizionale del museo, ha inquadrato ai primordi il fenomeno di trasformazione dei musei grazie a forme di coinvolgimento dei pubblici attraverso i social media e il valore strategico della partecipazione stessa, assorbita nella mission del museo.
Tale modello, individuato in una ottica di coinvolgimento e concretizzazione dei differenti ruoli che i visitatori o le comunità che ruotano intorno ai musei possono rivestire (con un “crescendo” di partecipazione dal contributore al collaboratore, fino al co-creatore6), è tuttora una utilissima traccia per noi cittadini europei che miriamo alla piena attivazione dei principi della cosiddetta Convenzione di Faro (Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società). Proprio grazie a questa Convenzione, dal 2005 in Europa si è innescato un profondo ripensamento del concetto di heritage e di heritage communities (come qualcosa in continuo divenire e non semplicemente ancorato al passato), nonostante la stessa Convenzione abbia riservato al digitale un ruolo da più parti ritenuto marginale ed esclusivamente strumentale.
Attraverso il museo, la società contemporanea deve rispondere a una serie di domande che rientrano nell’ambito del ruolo stesso che la cultura ha per le comunità locali e globali:
- Cosa dobbiamo conservare del nostro patrimonio, materiale e immateriale?
- Come conservarlo?
- Come comunicarlo?
- Come renderlo fruibile e accessibile?
- Come adattarlo all’evolversi della società?
- Di quali valori si fa portatore il museo e con esso il patrimonio?
- Il museo riesce a rappresentare la cultura di una comunità, costituendosi come luogo di sintesi fra memoria collettiva, patrimonio e identità collettiva7?
- Come connettere il museo e il patrimonio ai pubblici e alle comunità?
Questo contributo vuole, quindi, percorrere brevemente la traccia delle interpretazioni e delle percezioni dalla “forma museo” al “sistema museo”, per cercare di delineare le multiformi espressioni che il museo contemporaneo sta, oggi, adottando, nell’ottica di quanto stabilito dalla Convenzione di Faro e dei suoi stessi necessari aggiornamenti in materia di digitale.
L’evoluzione della percezione del Museo: da tempio a cimitero
Nel suo lavoro, L’invention des musées pubblicato a Parigi nel 1993, Roland Schaer ha ricostruito tutti i passaggi dall’antico concetto di collezione di opere d’arte a una più moderna visione di museo (ancora non coinvolta nel processo di digitalizzazione globale né da alcuna “cyber- prospettiva museale”).
In italiano il titolo del volume è stato tradotto come Il museo tempio della memoria: con questa traduzione, l’azione umana della invenzione del museo è stata ridotta al solo riconoscimento della sua sacralità8. Questo è solo un esempio di come, nella storia della museologia, il concetto di “tempio” abbia a lungo contraddistinto la percezione, sacrale e distante, del museo, che i musei faticano, ancor oggi, a scrollarsi di dosso.
Secondo Mottola Molfino, che scriveva questa definizione prima di qualunque rivoluzione digitale,
«Museo è dove esiste una raccolta di oggetti da conservare: senza oggetti non esiste museo»9.
Possiamo considerare ancora valida questa idea di museo, che presuppone una “fisicità” di oggetti e collezioni e un luogo fisico che li contenga?
Alla luce delle nuove frontiere della virtualità, di musei che espongono opere di digital art, o sono di per sé virtuali e quindi privi di alcuna fisicità, ma anche di quei musei che espongono un “patrimonio assente” (come il Museo dell’Acropoli di Atene, dove le “assenze” o le copie del fregio, delle metope o delle sculture dei frontoni pesano quanto l’esposizione delle porzioni restanti; o come l’architettura simbolica di Daniel Libeskind al Museo Ebraico di Berlino10), ebbene questa definizione non può essere ritenuta valida nella sua interezza.
Partiamo dall’inizio di tutto: da dove nasce il termine ‘Museo’?
Gli studiosi concordano sul fatto che esso derivi, etimologicamente, dal Mouseion di Alessandria d’Egitto. Si trattava, stante quanto raccontato e ricostruito dalle fonti, di un circolo intellettuale sostenuto dal mecenatismo del re Tolomeo I Sotèr (fine IV sec. a.C.) e dedicato alle figlie di Zeus, le Muse protettrici delle arti, su ispirazione dei medesimi principi che avevano influenzato l’Accademia di Platone e il Liceo di Aristotele11. Cosa sappiamo di questo Mouseion? Che era un luogo d’elezione intellettuale in cui scienziati e letterati esercitavano varie discipline. Era dotato di una biblioteca, un osservatorio astronomico, un laboratorio anatomico, un giardino botanico ed uno zoologico. Forse vi saranno state esposte opere d’arte, di scultura come di pittura, ma non siamo certi che la “finalità” di tale esposizione fosse di tipo educativo e culturale o solo semplicemente estetico e di studio.
Secondo alcuni il concetto del museo come di luogo sacro adatto a funzioni contemplative dell’arte nascerebbe ad Alessandria proprio 2300 anni fa12. Secondo altri, «il Mouseion di Alessandria e le due scuole filosofiche ateniesi non hanno nulla a che fare con la concezione di museo che si è venuta formando nel mondo occidentale nel corso degli ultimi sei secoli»13.
Chi di noi, sin da piccolo, non ha collezionato qualcosa, le conchiglie raccolte a mare o le figurine? Ebbene, all’origine del museo stanno proprio quei gesti del collezionare, raccogliere e salvare oggetti che gli studiosi considerano, dal punto di vista antropologico, quali componenti di un comportamento che l’uomo sembra avere tenuto costantemente nel tempo, a partire dal gesto elementare di disporre oggetti attorno a sé14. Diceva Adalgisa Lugli «è la necessità di conservare la memoria che ha sempre motivato e verosimilmente motiverà ogni museo»15.
Alessandra Mottola Molfino definisce «forma museo» proprio quella caratteristica «congenita all’uomo europeo», che ha da sempre sentito necessario raccogliere oggetti «per la propria memoria», per «strappare gli oggetti alla morte (cioè alla loro scomparsa o dispersione); tesaurizzarli per testimoniare di sé […]. E poi sacralizzare il luogo dove essi si conservano: farne il “luogo delle Muse”, cioè delle arti, delle virtù intellettuali e civili. Così il mouseion diventa un monumento: nel senso etimologico del termine uno strumento della memoria. Luogo mitico in quanto luogo della ricreazione, ma anche della negazione, della storia»16.
Quali sono le ragioni dell’accumulazione di oggetti secondo la Mottola Molfino? Eccole elencate:
- Tesaurizzazione
- Piacere delle cose morte
- Desiderio di possesso
- Rispecchiamento narcisistico
- Sogno d’immortalità
- Prestigio sociale
- Bottino di guerra personale o per il popolo
- Culto religioso
- Ostentazione di potere
- Bisogno di classificazione
- Desiderio di riparazione
Il Museo, secondo la ricostruzione della museologia, è quel luogo d’elezione in cui si verificano le condizioni fondamentali affinché un accumulo di oggetti da “raccolta” diventi “collezione”, ma esclusivamente laddove si soddisfi un presupposto di pubblica utilità che presuppone l’apertura delle collezioni al pubblico17.
Possiamo dire che il collezionismo nasca all’epoca del Mouseion alessandrino?
Se la propensione alla raccolta di oggetti è profondamente innata nell’uomo, secondo altri studiosi il collezionismo di opere d’arte sarebbe nato invece in età romana. Sin dalle prime conquiste dell’età repubblicana, i condottieri romani avevano una “usanza”, che ha contraddistinto tutti i conquistatori della Storia: saccheggiare opere d’arte da templi, santuari, città, case private, nelle città siciliane, poi greche e orientali, per esporre quei trofei nelle proprie case, come pura ostentazione privata e pubblica della ricchezza e del successo. Esemplare, in tal senso, il racconto di Plutarco: Lucio Emilio Paolo, vincitore della provincia di Grecia, nel 167 a.C. impiegò un giorno intero a far sfilare le opere d’arte lì saccheggiate su ben 250 carri da trasporto (Vita di Emilio Paolo, 32). A sua volta Plinio, nel raccontare a partire da quale occasione si fosse introdotta a Roma la moda delle perle e delle pietre preziose, fra gli oggetti depredati da Pompeo nelle sue conquiste, menzionava una ricca collezione di gemme, definendola museion (Storia Naturale, 37, 13-14)18.
Il saccheggio perpetrato dai primi condottieri diede un nuovo valore simbolico al significato stesso di “bottino di guerra”: «assumendo chiaramente il segno della vittoria della civiltà romana sulle altre culture, riveste il ruolo di oggetto simbolico e da oggetto materiale si trasforma in oggetto- simbolo», si trasforma nel suo significato da semplice “monumento” a “documento”, prova non più esclusivamente di un successo militare, ma di egemonia culturale, strumento di annichilimento delle identità culturali del popolo vinto19.
La teusarizzazione privata di queste raccolte non riscuoteva, ovunque, seguaci e apprezzamento: già Marco Agrippa, con notevole anticipazione dei tempi, lamentava la loro sottrazione «al godimento del popolo romano»20, in una primigenia forma di difesa del principio della pubblica utilità dell’arte.
In epoca medievale si mantenne l’usanza di raccogliere oggetti più antichi per culto e devozione: custodi di preziosi oggetti antichi (thesauri) furono le chiese e i monasteri, che iniziarono a rivestire un ruolo non dissimile da quello dei santuari del mondo antico21.
Adalgisa Lugli e altri considerano queste raccolte di manufatti, ritenuti degni di una loro salvaguardia, come una prima forma spontanea di museo moderno, dei “musei ante litteram”: tali oggetti potevano essere fruiti da un pubblico di fedeli, ci si preoccupava di come esporli, dando un maggiore risalto a quelli più preziosi22.
Del collezionismo medievale in realtà si conosce poco. Pertanto, viene considerata un unicum, nel XII secolo, la posizione dell’abate francese di Saint Denis, Suger, che, contrariamente ai dettami ufficiali della Chiesa che contrastavano lusso e ricchezze, si compiaceva piuttosto della preziosità dei tesori della sua chiesa (che spaziava dai reliquiari alle gemme preziose). La consapevolezza estetica di quella preziosità era giustificata dall’abate dalla convinzione che la contemplazione di opere d’arte avrebbe consentito l’elevazione spirituale di chi avesse goduto di quella bellezza, rappresentazione a sua volta della grandezza divina.
Tale forma di compiacimento estetizzante appare precorrere quella dell’Umanesimo che, a partire da Francesco Petrarca e Poggio Bracciolini, dal Trecento in poi, riscoprì il mondo classico e diede inizio non solo a una nuova letteratura e poesia, ma anche a nuove forme di conservazione, tutela e persino venerazione del passato23.
In età medievale non c’era stato, invece, il medesimo rispetto per le vestigia antiche: si trattava di edifici spesso in rovina, considerati testimonianza del tempo che sconfigge l’orgoglio umano e, come tali, non degni di una qualche manutenzione utili solo come cave di pietra, a meno che non vi fosse una continuità d’uso, come nel caso dei templi pagani trasformati in basiliche cristiane24. La devastazione di monumenti antichi arrivò al punto che persino i Papi tentarono di porvi riparo con una prima legislazione organica a loro tutela25.
Solo col tardo medioevo e con il Rinascimento italiano i concetti di “collezione”, di “museo pubblico”, di “tutela e salvaguardia” del patrimonio artistico acquistarono le prime compiute e concrete realizzazioni26: da questo periodo in poi, infatti, sia le collezioni antiquarie che i gabinetti naturalistico-scientifici, aprendosi lentamente a un pubblico pur ancora elitario, cominciarono a maturare la loro funzione di «servizio culturale per un pubblico godimento»27. Una concezione moderna per cui il collezionismo arricchiva un oggetto ormai decontestualizzato di un nuovo significato, trasformandosi nel contempo in uno status symbol, utile a consolidare genealogie che si richiamavano alla romanitas28.
Le antichità erano divenute oggetto di un culto tutto laico e intellettuale: venivano raccolte, studiate, ricostruite, esposte, secondo il gusto e la stessa comprensione che all’epoca si aveva dell’antico.
A partire dal 1400, prima in Italia poi in tutta Europa, sovrani, nobili, intellettuali e artisti iniziarono a creare i primi nuclei di quelle che saranno le più importanti collezioni d’arte e antichità della cultura museale moderna. Quella fu l’origine delle collezioni di molti dei moderni musei nazionali europei, che furono spesso frutto della spoliazione di monumenti antichi, di saccheggi come bottini di guerra o ancora di scavi clandestini, questi ultimi spesso realizzati o commissionati da una nuova figura apparsa all’orizzonte socioeconomico dell’epoca, quella del mercante d’arte, capace di corrispondere così a una sempre maggiore richiesta d’arte da parte di una committenza più o meno facoltosa29.
Prima di acquisire un significato di prestigio sociale, nel 1400 il collezionismo per gli artisti aveva un significato funzionale: le opere d’arte degli antichi dovevano essere fonte di ispirazione o di studio e approfondimento di specifiche tematiche, attraverso la loro analisi filologica.
Fra gli umanisti, Poggio Bracciolini fu colui che rivelò maggior passione per l’arte e la collezione, soprattutto di statue antiche: dalla sua corrispondenza si scopre che fece di tutto per procurarsi marmi classici poiché, come un antico romano, voleva ornare di statue il giardino della sua casa di campagna in Valdarno30.
Nel frattempo, in assoluta precocità rispetto agli altri paesi europei, i primi esempi di vere e proprie collezioni pubbliche non potevano che nascere in Italia31: la donazione dei bronzi capitolini al popolo romano da parte di Sisto IV nel 1471 o l’apertura a giovani artisti della sua collezione di sculture da parte di Lorenzo il Magnifico sono elementi rilevatori della precoce costituzione del museo moderno, in cui siano presenti i fattori della pubblicità dell’opera d’arte e del diritto alla comune fruizione32.
Secondo altri studiosi, «la moderna istituzione museale è derivata direttamente dalle collezioni principesche del sedicesimo e del diciassettesimo secolo»33. Si dovrebbe riconoscere all’umanista Paolo Giovio il merito della prima accezione moderna di “museo”: fu lui a classificare per primo gli oggetti della propria collezione, per la quale, tra il 1537 ed il 1543, fece costruire nei pressi di Como un edificio appositamente destinato a custodire quelli che definì “ritratti di uomini illustri”, ricreando un nuovo luogo sacro per le Muse e l’arte, aperto solo ad illustri visitatori34.
Nel frattempo, le opere d’arte, conservate nelle gallerie e nei giardini privati35, finirono per abbellire le facciate di alcuni dei palazzi aristocratici, per il puro scopo di «incitamento morale e glorificazione di una dinastia»36: le opere d’arte, gelosamente conservate all’interno dei palazzi, finirono per trovare pubblica manifestazione all’esterno di essi.
A partire dalla seconda metà del 1500 secolo, il gusto per le antichità si trasformò ulteriormente nel gusto per la curiosità, la rarità, la meraviglia: in Europa fu un moltiplicarsi di cabinets, studioli e Kunst und Wunderkammer in cui i nobili dell’epoca si ritiravano in meditazione e contemplazione della bellezza. Si costituirono, così, i nuclei fondanti di alcune collezioni che già prefiguravano quelle dei musei di scienze naturali e di tecnica della fine 170037 ma che avevano un evidente uso politico, se non persino «un preciso meccanismo per trasformare la conoscenza in potere»38.
Queste stanze conservavano preziose opere d’arte (artificialia), rari oggetti naturali (naturalia), strumenti scientifici (scientifica), oggetti provenienti da terre esotiche (exotica) o che semplicemente suscitavano stupore (mirabilia). Oltre che a rispecchiare la visione del mondo e lo stato delle conoscenze dell’epoca, queste collezioni riflettevano il potere, la ricchezza e la multiforme curiosità del proprietario.
Se, ufficialmente, datiamo la nascita del primo museo pubblico al 1683, con l’Ashmolean Museum di Oxford, dobbiamo invece anticipare al 1584 la prima musealizzazione privata aperta al pubblico, realizzata secondo criteri che potremmo definire museografici, con il progetto della Tribuna ottagonale agli Uffizi, voluta da Francesco I de’ Medici39, e al 1587 l’apertura di un primo museo pubblico, con la donazione alla Repubblica di Venezia delle sculture di epoca classica di Domenico Grimani (oggi in dote al Museo archeologico nazionale di Venezia), che divenne il corpus principale per l’istituzione di uno statuario pubblico, nell’antisala della Biblioteca Marciana40.
L’idea di un museo che esponesse non più per il piacere del capriccioso aristocratico e del suo ammirato entourage ma per la conoscenza e l’istruzione di tutti, si ufficializzò con l’istituzione, da parte di Elias Ashmole, del museo di Oxford, con ingresso aperto a tutti dietro il pagamento di un biglietto41.
Al cardinale Federico Borromeo si deve invece la stesura di uno dei primi cataloghi museali descrittivi, il Musaeum, che accompagnava la donazione nel 1618 della sua collezione all’Accademia di Belle Arti di Milano: era quello il nucleo costitutivo della Pinacoteca Ambrosiana, prova di una nuova percezione dell’arte orientata a più adeguate forme di divulgazione e fruizione a fini educativi e didattici42.
L’esempio oxfordiano venne seguito da numerose città (Bologna, Milano, Basilea, San Pietroburgo, etc.) che, tra la fine del 1600 e gli inizi del 1700, fondarono accademie, musei, biblioteche aperte al pubblico con intento didattico: per chi governava, la divulgazione e la trasmissione del sapere diventarono una responsabilità pubblica, condizione essenziale di progresso sociale.
Il Settecento portò con sé nuovi significati e nuovi valori per i musei, primi fra tutti i concetti di conoscenza, sapere, educazione, cultura: fu quella l’epoca in cui, accanto alle Accademie, nacquero musei d’arte e scienza per fornire modelli di studio agli allievi. Fu poi la Rivoluzione francese a tramutare quei concetti in diritto di tutti i cittadini43.
Un centinaio d’anni separano l’Ashmolianun Musaeum di Oxford (1683) dal Musée du Louvre e dal Muséum National d’Historie Naturelle a Parigi (1793): il primo costituisce il diretto precedente degli altri due, figli dell’Illuminismo prima e della Rivoluzione poi.
Fra i tre musei si collocano le fondazioni di alcune fra le più grandi istituzioni museali pubbliche europee, l’Ermitage a San Pietroburgo (1719), il Museo Capitolino (1734) e quello della Villa Albani a Roma (1746), il British Museum a Londra (1759), la Galleria degli Uffizi a Firenze (1769), il Museo Pio Clementino a Roma (1775), la Galleria del Belvedere di Vienna (1792), il Kaiser Friederich Museum di Berlino (1797)44.
Ecco allora che in tutta Europa il museo fu al centro di dibattiti e riflessioni, supportati anche da una precisa disciplina di nuova ideazione, la museografia45, la cui data di nascita risale al 1727, con la pubblicazione della Museographia di Caspar Friedrich Neickel, una guida dei museo del tempo che anticipava in area tedesca l’impostazione illuminista enciclopedica della classificazione del sapere e l’idea di una istituzione che avesse una funzionalità educativa.
La progettazione architettonica, l’allestimento e l’ordinamento delle collezioni, adeguati a un museo aperto al pubblico, furono oggetto di analisi già nel 1746 in occasione della fondazione del Museo di Villa Albani. Poi, sessant’anni dopo la pubblicazione di Neickel, nel 1787, vide la stesura il primo vero trattato museografico, riguardante l’allestimento del Louvre, in cui si affrontavano non solo i problemi di illuminazione, ma persino i rischi d’incendio46.
Il Louvre, nato come collezione reale, frutto di un primo clamoroso esempio di statalizzazione (attraverso l’acquisizione e la confisca delle collezioni reali e dei beni di nobili ed ecclesiastici) divenne simbolicamente museo a carattere nazionale, gratuito e dotato di didascalie esplicative, figlio a tal punto della Rivoluzione da prenderne inizialmente il nome: Musèe Révolutionnaire. Basato su un programma museologico globale, veniva adibito alla conservazione dell’arte antica, intesa come patrimonio collettivo distinto da qualsiasi valenza politica o religiosa, strumento d’identità e divulgazione del sapere, riconoscendo a tutti il diritto di frequentare il museo, ormai votato alla “pubblica utilità”47.
Le nuove esigenze culturali vennero considerate responsabilità pubblica e le grandi nazioni, fra cui Inghilterra e Francia, entrarono in competizione fra loro nel proporsi “custodi” di un patrimonio artistico e archeologico sovranazionale spesso trascurato (o così era meglio far credere per giustificare le spoliazioni effettuate!) nelle patrie d’origine. Sono questi due paesi, sin dalla fine del 1700, a detenere il primato del collezionismo d’arte in un’ottica di museo universale, anche se con due differenti posizioni. Se, da un lato nella Francia ormai napoleonica la collezione museale era utilizzata come mezzo di autocelebrazione, dall’altro in Inghilterra anche l’evoluzione artistica antica si interpretava in un’ottica evolutiva razionale di stampo darwiniano, considerandola capace di giungere fino allo splendore e alla perfezione estetica e formale dell’arte classica greca48.
Oggi noi celebriamo il Grand Tour sette-ottocentesco come il momento della “scoperta” turistica dei grandi siti archeologici italiani e della grande bellezza diffusa nelle nostre città d’arte. Ma, per il patrimonio italiano, il Grand Tour fu anche molto dannoso, soprattutto quello di alcuni turisti inglesi, che operarono veri e propri saccheggi giustificando come “indegni” di tali opere d’arte gli stessi italiani. Questo saccheggio, denunciato persino da Johann Wolfgang Goethe, veniva motivato dalle modeste condizioni di vita degli italiani e da un certo provincialismo che, agli occhi di chi li stava saccheggiando, non rendeva quei popoli all’altezza di un glorioso passato49. Sul finire del 1700, l’antiquario e collezionista inglese Charles Townley accumulò nella sua casa opere d’arte frutto dei suoi acquisti in Italia e di quelli su commissione a mercanti romani. La sua collezione era talmente importante che, acquisita nel 1805, costituì il primo nucleo di statuaria classica al British Museum.
Non è un caso che, in risposta a sempre maggiori richieste di repatriation, ovvero di restituzione di opere soprattutto sottratte alle colonie africane e sudamericane o ai paesi del bacino del Mediterraneo, come Grecia ed Egitto, nel dicembre 2002 i principali musei d’Europa e degli Stati Uniti abbiano pubblicato una dichiarazione sull’importanza e sul valore dei musei universali50, frutto di sensibilità e valori diversi da quelli odierni e, pertanto, da difendere. L’idea, da parte dei British Museum di operare in un’ottica di museo universale, viene ribadita nel 2010 in occasione della trasmissione della BBC A History of the World in 100 objects51 e, ancor oggi, con il nome stesso del progetto The Museum of the World52, realizzato in collaborazione con Google, per connettere fra loro e nel tempo l’arte e la cultura dei cinque continenti, in un’ottica di collezione universale che, come tale, va ancora difesa, anche in un progetto virtuale.
Le maggiori collezioni europee si costituirono proprio allora, tra il 1700 e il 1800, con la spoliazione spesso frenetica dei più importanti monumenti e siti archeologici: in nome (e con la scusa) del ruolo educativo e di pubblica utilità rivestito dal Louvre, Napoleone fu artefice di una immensa razzia operata dall’Italia all’Egitto. Per dare un’idea della portata di quei saccheggi, basti ricordare che l’esercito napoleonico impiegò due interi giorni per attraversare le strade di Parigi, nel luglio del 1798, col bottino trafugato nelle città italiane, con un fasto che si richiamava a quello degli antichi romani, fra lo stupore dei francesi, che videro sfilare complessi scultorei come il Laooconte, trafugato a Roma, e i Cavalli bronzei di San Marco, da Venezia53.
Se, quindi, da un lato nella Francia napoleonica la collezione museale era utilizzata come mezzo di autocelebrazione, dall’altro l’Inghilterra cercava di leggere nell’evoluzione artistica antica uno sviluppo progressivo di tipo darwiniano che giungesse fino allo splendore e alla perfezione estetica e formale dell’arte classica greca54.
È proprio come reazione a questi saccheggi sacrilegi, che iniziò a radicalizzarsi la coscienza dell’importanza del contesto di un oggetto d’arte: Quatremère de Quincy e Antonio Canova furono tra i primi a battersi contro la rapina delle opere d’arte dai loro contesti, preparando la strada all’accentuazione del valore nazionale del patrimonio storico e artistico locale.
È in questo momento storico che «si sviluppa il prototipo di museo d’impronta razionale-positivista, che conserva e classifica il passato, ma anche romantica, che celebra l’identità nazionale»55. È anche questo il momento in cui, sulla scia di quanto espresso da de Quincy, ha inizio una posizione di condanna nei confronti del museo, considerato come luogo di deportazione di opere, sradicate dal loro contesto56.
L’esperienza devastante dei saccheggi napoleonici aveva favorito il sorgere di un nuovo “sentimento”, ovvero «la coscienza dell’appartenenza a un popolo del patrimonio artistico come fondamento della sua identità culturale»57, da cui derivava, come conseguenza diretta, la necessità di una tutela volta alla salvaguardia del patrimonio storico e artistico dalla dispersione, attraverso saccheggi e vendite ad altri paesi58.
Di nuovo, vittime dirette dei saccheggi napoleonici, furono i Papi a coprire il ruolo di “custodi” dell’arte antica. Dopo numerosi provvedimenti pontifici, il Chirografo Chiaramonti di Pio VII del 180259 ebbe il merito di esaltare il ruolo dei beni artistici come produttori di conoscenza, strumenti di civilizzazione, progresso e miglioramento del genere umano; dall’altro, con uno spirito che oggi andrebbe definito di «sostenibilità economica e sociale della tutela del patrimonio culturale», mise in risalto le sue ricadute sull’economia cittadina60.
Nel corso del 1800, di pari passo all’evoluzione sociale e al pieno formarsi della borghesia, il museo venne organizzato a livello amministrativo e gestionale, riconosciuto e garantito dal potere politico, preoccupato di assicurarne la sopravvivenza. Un’evoluzione cui non si sottrassero nemmeno gli stati in cui la borghesia si andava affermando con maggiori difficoltà, dove le case regnanti, adottando il modello del museo borghese organizzato scientificamente e aperto al pubblico, videro in esso un mezzo «di comunicazione di massa» e una dimostrazione di munificenza verso il proprio popolo61.
Dalla seconda metà del secolo, la prima Esposizione Universale tenutasi a Londra nel 1851 consentì di scoprire l’interesse del grande pubblico per le grandi mostre e la tecnologia: a questo interesse corrispose la fondazione del Museum of Manufactures nel 1852 a South Kensington, con il nucleo della collezione consistente in opere acquistate proprio nell’esposizione dell’anno precedente (collezione poi trasferita in una nuova sede e ribattezzata nel 1899 Victoria and Albert Museum)62.
I sei milioni di visitatori che invasero l’esposizione universale nei primi sei mesi consentirono che si squarciasse un orizzonte totalmente nuovo per i musei dell’epoca: quello dell’esistenza di un generic public, capace di farsi attirare in massa da eventi di questo genere.
Oltreoceano la fibrillazione museale non era da meno, ma l’origine delle prime grandi strutture museali degli Stati Uniti – il Metropolitan Museum di New York (1870), il Museum of Fine Arts di Boston (1870), di Philadelphia (1875) e di Chicago (1879) – è ben diversa (e più borghese) di quella dei musei europei63. I maggiori musei statunitensi nacquero infatti dall’intuizione di alcuni clubs privati o di alcuni magnati che, viaggiando per l’Europa alla ricerca di opere d’arte, arricchivano le proprie collezioni64 collocandole in strutture dagli spiccati richiami architettonici all’arte classica europea, veri e propri “templi” di conoscenza.
Architettonicamente questi edifici, intesi come musei-contenitori, si richiamavano infatti alle grandi progettazioni museali europee d’ispirazione neoclassica, sorte fra la fine del 1700 e gli inizi del 1800, a partire dal Museum Fredericianum di Kasse, fra i primi a essere costruiti secondo questo gusto, fra il 1769 e il 1777, cui fecero seguito altri musei, come il Museo Nacional del Prado a Madrid (1786-1819), la Gliptoteca di Monaco di chiara ispirazione partenonica (1816-1830), la rotonda centrale a forma di Pantheon nel Berliner Realische Museum, oggi Altes Museum (1825- 1830) e il British Museum (1823-1852).
Ma quale tipo di comunicazione c’era nel museo ottocentesco? Innanzitutto, il “messaggio” esplicito per il visitatore era quello della grandezza nazionale o della evoluzione di stampo razionalistico-darwiniana; non ci si preoccupava d’altro, pensando che l’esposizione di un oggetto fosse interna a un dialogo fra pari e che il visitatore sapesse esattamente cosa stesse cercando65. Significativa la posizione di George Brown Goode, direttore del Washington National Museum che, pur riconoscendo il ruolo educativo di un museo pubblico (educational museum), riteneva (era il 1889) che un buon sistema di pannelli esplicativi bastasse a rendere democraticamente accessibile la cultura66. Idea, questa, che in fondo ha caratterizzato a lungo l’apparato didascalico di tanti musei fino ad anni più recenti.
Ma non tutti i periodi furono “d’oro” per i musei, soprattutto quelli europei.
A cavallo fra Ottocento e Novecento il museo europeo divenne rappresentativo di un senso di cultura autoritaria, «ingombrante nei confronti della creazione artistica»67 tanto da attirare le aspre critiche delle avanguardie artistiche, specialmente del Futurismo e del Dadaismo. Nel Manifesto futurista (1909) si leggeva «Noi vogliamo distruggere i musei…» oppure «Musei: cimiteri! […] Musei: dormitori pubblici […] Musei: assurdi macelli di pittori e scultori…». Duchamp, uno dei più famosi esponenti del dadaismo francese, nel 1917 tentò di esporre alla Società degli artisti indipendenti a New York un orinatoio in porcellana, firmato con lo pseudonimo R. Mutter (firma che racchiude la chiave di lettura dell’opera: Mutter significa madre in tedesco; la forma dell’orinatoio ricorda, infatti, quella di un bacino femminile). Con una tale provocazione «l’artista intendeva sottolineare che il riconoscimento dell’oggetto come opera da parte del museo era ciò che fondava il suo “valore”, sia estetico sia economico […] si afferma il rifiuto del museo-tempio […] il potere di consacrazione degli oggetti esercitato dal museo»68. Nel 1923 il poeta Paul Valéry scriveva a sua volta: «Non amo eccessivamente i musei. Ve ne sono molti ammirevoli, non ce n’è alcuno piacevole», a causa di quella «fredda confusione» ch’egli riscontrava a livello espositivo nel «giustapporre opere che si divorano l’un l’altra»69, capace solo di «creare una solitudine tirata a cera, che sa di tempio e di salotto, di cimitero e di scuola»70.
Il Novecento metteva così definitivamente in discussione il ruolo del museo e della sua comunicazione al pubblico: si criticavano le vecchie scelte espositive, fatte di serie ripetitive di oggetti uno accanto all’altro, uno sopra l’altro, ancora secondo quel gusto per l’horror vacui che aveva caratterizzato il collezionismo dei secoli precedenti.
Come ci documenta recentemente Giovanna Brambilla, quella ricostruendo il quadro, non proprio idilliaco, di un museo considerato variamente come un luogo di solitudine, di noia, di fatica, di assenza persino da scrittori della nostra modernità, come Umbero Eco, Tiziano Terzani, Antonio Tabucchi71, che «vive ancora la nomea di luogo di esclusione istituzionalizzata»72.
Il dibattito sul ruolo del Museo nel Novecento
I nuovi allestimenti, influenzati dalla nascita dell’interior design e da queste nuove correnti estetiche73, iniziavano a rispondere a nuove necessità di comunicare l’opera, che desse risalto all’oggetto in sé, valorizzato grazie allo studio delle luci, alla collocazione su sfondi neutri, all’utilizzo di supporti adeguati e non invasivi74.
Se alcuni grandi musei novecenteschi americani, come il Cleveland Museum of Art (1913-1916), il Philadelphia Museum of Art (1919-1929) e il Baltimore Museum of Art (1926-1929)75, si possono ancora architettonicamente collocare nella tradizione ottocentesca della facciata tipica del museo- tempio, la loro organizzazione interna rivelava, piuttosto, il cambio di prospettiva e percezione della “forma museo” dall’interno, a livello di impostazione e organizzazione.
Lo slancio verso una idea più democratica della cultura (cui in Italia rispondeva uno spirito più orientato alla conservazione dl modello ottocentesco) arrivava infatti in Europa dall’ambiente americano, dove i musei, complici gli insegnamenti di grandi museologi George Brown Goode (sostenitore sin da 1889 del già citato concetto di educational museum), John Dewey e John Cotton Dana (sostenitore dell’idea sociale del museo, fautore di una crescita culturale delle comunità), avevano già iniziato a sviluppare servizi didattici, educativi e visite guidate, avevano aperto sale per bambini, biblioteche e persino caffetterie e bookshop.
Il museo viene inteso come un servizio al pubblico che, accanto a percorsi per specialisti poneva percorsi per il grande pubblico; accanto alla biblioteca poneva le attività didattiche: quella che Maria Teresa Florio ha definito la “via americana” a una nuova interpretazione del museo, svincolata dalla tradizione collezionistica europea e dai limiti imposti dalle sedi degli allestimenti, edifici antichi adattati o riadattati all’esposizione76. È questo il momento in cui, intuendone l’efficacia didattica nei confronti del pubblico generico, nacquero le period rooms77, ricostruzioni sempre più dettagliate di matrice ambientalistico-storicizzante, che divennero caratteristiche di tanti musei prima americani (con il Museo di Cleveland a fare da apripista) e a seguire soprattutto nordeuropei.
Al di là degli atteggiamenti incendiari delle avanguardie e di nuove scelte che si affacciavano all’orizzonte negli allestimenti, i principali veicoli del dibattito tecnico e intellettuale intorno al museo in Europa furono una rivista e due convegni: Mouseion, fondata nel 1927 come espressione dell’OIM (l’Office International des Musées), protagonista nel dibattito sul ruolo educativo e sociale del museo; il Convegno di Parigi del 1927, incentrato sul ruolo educativo dei musei e
sull’allargamento della platea dei fruitori alle classi lavoratrici78; e la Conferenza di Madrid del 1934, «i cui atti costituiscono la summa dello sviluppo della museologia internazionale degli anni Trenta […] due temi museografici discussi ampiamente durante la Conferenza di Madrid, il diradamento delle opere nelle gallerie e la creazione di un doppio percorso per il grande pubblico e per gli studiosi, contribuirono a cristallizzare per molto tempo il museo in due categorie: il museo estetico (elitario) e il museo narrativo (educativo e popolare)»79, ovvero quei due percorsi allestitivi, già individuati sulla rivista Mouseion nel 1933 da Clarence S. Stein per il suo ideale di museo di domani e indicati come museo selettivo e museo comprensivo80.
Gli atti, in due volumi, intitolati Muséographie – Architecture et aménagement des musées d’art, abbracciavano temi che spaziavano dalla illuminazione dei musei fino alle scelte degli allestimenti e alle didascalie.
Nel frattempo, se da un lato si criticava il modello ottocentesco di museo, c’era chi invece rilanciava l’idea di matrice illuminista di un museo universale. È il caso di Le Corbusier e delle sue visioni utopiche di museo: mosso dal desiderio di preservare le testimonianze culturali dell’umanità da un nuovo conflitto, per il concorso della Società delle Nazioni per un centro culturale internazionale da fondarsi a Ginevra, nel 1927 propose l’idea del Mundaneum, un museo mondiale. Idea ripresa nel 1939, con la proposta di un museo a crescita illimitata, una sorta di complesso a spirale in continua crescita81. A queste visioni si aggiunge quella, davvero preconizzatrice, di Frederick Kiesler e del suo telemuseo. Immaginata nel 1930 e riletta oggi, ci fa comprendere la portata della rivoluzione operata da Google Arts & Culture come raccoglitore globale dell’arte o del nostro Europeana, per quanto riguarda il patrimonio culturale europeo, che oggi consentono di creare delle gallerie personali di opere d’arte, consentendoci di condividere (nonché di riusare a nostra volta) la proprietà dell’arte con i musei del mondo82.
Erano quelli gli anni in cui in America sorgevano i più grandi musei di arte moderna, primi fra tutti il Museum of Modern Art di New York (MoMA), fondato nel 1929 da alcuni ricchi collezionisti e cultori d’arte con l’intento di ospitare mostre di artisti contemporanei come Gauguin, Matisse, Picasso e Van Gogh83 o il Guggenheim Museum di New York, progettato nel 1934 dall’architetto Frank Lloyd Wright, che inaugurò la moderna architettura museale con la sua celebre galleria d’esposizione la cui rampa spiraliforme si dispiega su cinque piani84.
In Europa la Seconda Guerra Mondiale interruppe drasticamente qualsiasi processo speculativo e qualsiasi dibattito: mentre le città europee, straziate dai bombardamenti, erano impegnate nella ricostruzione del proprio tessuto urbano e civile, le istituzioni museali stavano diventando
«polverosi depositi di cose morte» e sembravano destinate esse stesse all’oblio85.
Fu un momento turbolento nel panorama museale internazionale, che è ben definito da questa espressione: «mentre una parte del mondo artistico lancia anatemi contro il museo prigione dell’arte e, peggio, cimitero dell’arte, altri, soprattutto in America, investigano sistematicamente il rapporto tra museo e visitatori e, a partire da detto rapporto, la nuova configurazione del museo».86 In America, infatti, il secondo dopoguerra vide la decisiva trasformazione del museo in un «contesto produttivo» in grado di creare un «rapporto dinamico tra mercato dell’arte, industria culturale, università e musei»87.
Nel 1948 all’interno dell’UNESCO nasceva l’ICOM, l’International Council of Museum, organismo di cooperazione internazionale in ambito museale che, riconoscendo il ruolo delle istituzioni museali nello sviluppo sociale, aveva il compito di indicare criteri di uniformità e di standard qualitativi88.
Fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del secolo scorso, conclusasi la lenta ricostruzione post- bellica e migliorate le condizioni economiche delle classi piccole e medie di lavoratori, sorgevano nuove necessità di tipo turistico legate all’impiego del tempo libero: nasceva il turismo di massa89. Nel frattempo, anche il museo europeo era lentamente riuscito a tornare a un funzionamento normale e a ripristinare la sua funzione educativa, sempre più «orientato non soltanto alla ricerca e all’esposizione, ma molto più attento al pubblico all’interno, in una prospettiva di servizio»90, ormai definitivamente trasformato nel luogo della memoria e della conoscenza91, anche attraverso nuove soluzioni espositive.
Tali soluzioni privilegiarono dapprima spazi neutri e modulari, come accade al National Air and Space Museum a Washington (1975) e al Centre Pompidou a Parigi (1977), progettato dagli architetti Renzo Piano e Richard Rogers; poi spazi riqualificati e rifunzionalizzati, come il Musée National Picasso a Parigi, in un palazzo secentesco (1985), il Musée d’Orsay nell’ex gare d’Orsay di fine ‘800 (1986), secondo la tendenza architettonica già inaugurata nelle ricostruzioni post- belliche da Carlo Scarpa a Palermo alla Galleria Regionale di Palazzo Abatellis (1954) e al Museo Civico nella fortezza di Castelvecchio a Verona (1964), che ha interpretato «la volontà di rispettare le architetture originali, a volte di imitarle, in ogni caso di integrarsi al contesto urbano ereditato dal passato»92.
Furono queste nuove soluzioni espositive a rielaborare i caratteri spaziali dei monumenti antichi, spesso modificandoli integralmente e senza mantenerne le funzioni originarie93.
Si è trattato di un fenomeno di nuova attenzione ai musei frutto di «una vera e propria febbre museale alla metà degli anni ‘70, particolarmente evidente in Italia e in Francia»94, comprensibile anche per il «ruolo privilegiato che il museo detiene all’interno della riflessione architettonica italiana dell’epoca, nella quale costituisce la sede eletta per il compimento di preziosi esperimenti sul tema della dialettica tra antico e moderno e sulle modalità di una loro integrazione»95.
Fu l’americano Cameron Duncan a dichiarare che i musei avrebbero dovuto mettere in pratica la loro responsabilità sociale, non solo nei processi di democratizzazione della cultura, ma anche nel creare un’effettiva uguaglianza nelle opportunità di accesso culturale che possono offrire alla loro comunità. Era il 1971 e il pensiero di Duncan era rivoluzionario: a lui dobbiamo il ‘salto’ nel modello antiquato e antiquario di museo, dal modello conservativo di museo tempio96 a quello democratico di museo foro, inteso come luogo in cui a gente può interagire, conoscere, dialogare in maniera democratica97.
Il processo fu certamente più rapido in USA e più lento nel Vecchio Continente: abbiamo dovuto aspettare decenni perché nella realtà il paradigma mutasse davvero.
Il primo passo del cambiamento si è verificato nel rapporto fra musei e pubblico: i musei iniziarono ad aprire le proprie collezioni a un pubblico più generalista, a ripensare alla propria missione e a rivolgersi a progetti educativi, con un orientamento sempre più centrato sul pubblico e sulla funzione sociale del museo.
In quest’ottica, la conferenza congiunta di Santiago del Cile di ICOM e UNESCO nel 1972 mise per la prima volta al centro del dibattito internazionale proprio il tema del ruolo dei musei nella società. La Dichiarazione di Santiago, che ne derivò, propose l’idea di un museo nuovo, che dall’idea di museo vetrina si allargasse a una concezione olistica e diffusa del patrimonio culturale: il museo sociale. Non a caso, tale Dichiarazione è considerata il “manifesto” della novelle muséologie e, dalla scrivente, una prima idea in nuce di museo partecipativo:
Il primo punto della dichiarazione afferma il rifiuto di concezioni elitarie ed esclusiviste della cultura, come della sua gerarchizzazione artificiosa in forme alte e basse d’espressione, postulando una concezione olistica e diffusa del patrimonio culturale. Il secondo e il terzo punto sottolineano invece l’urgenza di trasformare il museo-vetrina maggioritario, dominato da relazioni di potere asimmetriche e da progetti rappresentativi egemonici, in un attore territoriale attivo ed integrale in grado non solo di conservare ed esibire il patrimonio diffuso, ma anche e soprattutto di produrre cultura e capitale sociale attraverso la sua tutela e la sua valorizzazione partecipate98.
Un modello di museo, quello proposto dalla Dichiarazione di Santiago, dunque, al servizio della società, in stretto rapporto con le comunità locali, che avesse come missione la promozione della cultura e della sua valorizzazione in modo partecipato, al fine di migliorare la qualità della vita delle popolazioni, in un’ottica di sviluppo locale.
Una idea decisamente rivoluzionaria, figlia di quegli anni e dettata dal netto rifiuto della cultura elitaria e del modello di museo che esso rappresentava, autoreferenziale ed escludente, unidirezionale e paternalistico. Una idea, che appare in linea con quell’intero processo di elaborazione della visione inclusiva di democrazia culturale, definita finalmente nel 1982 nella Conferenza sulle politiche culturali svoltasi a Città del Messico, ovvero quella democrazia basata sulla partecipazione, il più ampia possibile, degli individui e delle comunità nella creazione dei beni culturali, nel processo decisionale sulla vita culturale e sulla disseminazione e il godimento della cultura99.
Questi due momenti di riflessione, maturati nel mondo sudamericano allora in fermento, sono alla base sia di quanto indicato nella Convenzione di Faro (che non mira ad allargare la fruizione culturale alle masse ma a riconoscere il diritto di ognuno, individuo o comunità, di trarre beneficio del patrimonio culturale, di partecipare della vita culturale e di contribuire al suo arricchimento e tradizione alle nuove generazioni) che del modello di museo partecipativo figlio della rivoluzione digitale.
Se da un lato, dunque, si individuava nella tutela e valorizzazione partecipata – e quindi condivisa con altri soggetti – la chiave per convertire i musei in nuovi produttori di cultura e di capitale sociale, ciò di cui si sentiva già allora la necessità era l’apertura a un ruolo attivo e creativo del visitatore a fianco delle istituzioni museali, che avrà proprio nel modello partecipativo il primo vero modello museale del XXI secolo.
La scoperta del pubblico, come è stata definita, inteso secondo la duplice valenza di «fruitori e luoghi della fruizione»100, ha comportato tutta una serie di cambiamenti nella percezione dei musei, intesi come «elementi costitutivi dell’ordine sociale»101, ed anche nella politica museale: dai primi rudimentali concetti di marketing culturale102 alla produzione dei cataloghi di opere d’arte e gadgets, dall’evoluzione del pensiero museografico, museologico e museotecnico103 all’applicazione delle teorie della comunicazione e della percezione ad allestimenti espositivi sempre più tecnologici, dal miglioramento dei servizi di assistenza ad una migliore pianificazione dei percorsi e della illuminazione delle sale e degli espositori104, dalla organizzazione di corsi, laboratori, stages, convegni, conferenze fino ad importanti mostre temporanee.
Tra gli anni ‘70 e ‘80, infatti, un’altra rivoluzione aveva avuto inizio, accanto a quella della Nouvelle Muséologie e del ruolo sociale dei musei contemporanei: da santuario delle collezioni, strettamente dedito alla conservazione, allo studio e alle mostre tassonomiche scientifiche, i musei hanno iniziato a trasformarsi in opportunità sia di formazione che di intrattenimento.
Tutto questo è stato finalmente reso possibile grazie, da un lato, al modello del museo costruttivista, influenzato dalla teoria pedagogica costruttivista dell’apprendimento e della conoscenza. Secondo il modello di George E. Hein (che ha superato la visione del direttore George Brown Goode), i visitatori imparano costruendo la propria comprensione dalle loro esperienze personali, conoscenze o idee innate, e i musei devono adattare il loro ambiente e le mostre alle esperienze dei visitatori stessi105.
Dall’altro, sul finire degli negli anni ’90, fondamentale è stato il contributo di Eilean Hooper- Greenhill che, adattando le teorie della comunicazione e quelle dell’apprendimento all’istituzione museo, ha argomentato la necessità, per il museo di evolversi da un mero modello di trasmissione a un modello “culturale” di comunicazione: il museo come comunicatore.106
Il ruolo del museo nell’era della Convergenza
Tutti gli autori citati finora hanno scritto prima della rivoluzione digitale, ed è quindi normale leggere definizioni che dipingono il museo come un luogo in cui sono conservate collezioni di oggetti.
Alla luce delle nuove frontiere aperte dalla virtualità, definizioni come quelle finora indicate non sono più accettabili e accettate nella sua interezza.
Nella letteratura anglosassone, l’evoluzione del modello museo foro espressa da Duncan, un quindicennio fa aveva già portato a ripensare il rapporto fra il museo e il suo pubblico come un responsive museum107. Si tratta di un concetto ben differente da come oggi si qualifica il concetto di responsive, come di adattabilità di un contenuto digitale nel passaggio dalla visione web alla visione su mobile. Tale definizione di responsive la troviamo associata al museo con ben altro significato: il museo va considerato non solo una piattaforma in grado di adattare i suoi contenuti a differenti dispositivi (web, mobile, schermi touch) ma, come dicono Susan Hazan e Sorin Hermon, un ambiente divenuto, grazie alle tecnologie sensoriali di prossimità, architettonicamente adattabile alle differenti modalità di fruizione e percezione degli utenti, con cui riesce a interagire anche a livello sensoriale108.
Nel dibattito culturale sui musei, la cultura e le nuove tecnologie, che si è aperto nell’ultimo ventennio, un ruolo particolarmente importante è rivestito da Henry Jenkins e dalla sua definizione di Convergence Culture e di Participatory Age109. La definizione di Jenkins di “era partecipativa”, datata 2006, è strettamente connessa al nuovo modello di museo che si è affacciato nel 2010: il museo partecipativo di Nina Simon, che è un modello di tipo folksonomico e non più tassonomico110, e al conseguente adattamento di questo modello a quello di museo costruttivista sul web, sviluppato da Yvonne Hellin-Hobbs sulla scia di Hein111.
La più rivoluzionaria fra tutte le definizioni date nel tempo della società contemporanea è proprio quella della Cultura della Convergenza, che ha colto, nella definizione della rivoluzione digitale il quadro generale capace di mettere insieme i media analogici e digitali, insieme alla produzione di contenuti da parte dell’utenza, le piattaforme digitali e i devices mobili. Attraverso interconnessioni reticolari di ogni genere, questo quadro rivoluzionario è in grado di creare narrative transmediali, che si intersecano fra loro in un flusso narrativo diversificato e attraverso differenti media. Alla base di tutto, sta quella che Jenkins definisce convergence:
By convergence, I mean the flow of content across multiple media platforms, the cooperation between multiple media industries, and the migratory behavior of media audiences who would go almost anywhere in search of the kinds of entertainment experiences they wanted.112
Nel suo blog, che si intitola Confessions of an Aca-fan, fra i numerosi articoli, Jenkins elenca per prima cosa gli 8 elementi che contraddistinguono il panorama dei nuovi media, definendoli come
«innovative, convergent, everyday, appropriative, networked, global, generational and unequal»113. Nella Postilla alla versione italiana del suo volume114, questi 8 elementi cambiano leggermente, diventando innovative, convergent, everyday, interactive, participatory, global, generational and unequal.
Non si tratta solo di un cambiamento dovuto alla traduzione. Nel suo blog Jenkins descrive il carattere appropriativo e reticolare con le seguenti parole, che riporto per intero per non interrompere il flusso del suo pensiero:
New technologies make it easy for people to sample and repurpose media images. We can now quote and recontextualize recorded sounds and images (both still and moving) almost as easily as we can quote and recontextualize words. Increasingly, our culture communicates through snippets of borrowed media content. Young people construct a mix tape to share how they feel with each other. They create a collage of images to express how they see themselves. Their webpages function as the digital equivalent of the old commonplace books, a heady mixture of personal expressions and borrowed materials. Artists have always borrowed and built upon earlier works in their tradition. As the new technologies has expanded who gets to express themselves through media, this practice of creative rewriting of previous works has also become more widespread. We still do not have a well considered ethics of appropriation. We are expressing ourselves in new ways but we do not yet have the conceptual resources to allow us to pull back and reflect on what we are creating. New communications technologies, such as the digital video recorder or the DVD player, allow consumers to more fully control the flow of media into their homes. New modes of entertainment, such as computer and video games, depend on our active engagement: we do not simply consume them; we make them happen. Online fan communities and modding cultures are blurring the lines between consumer and producer. We want to become a part of the media experiences which matter to us; we want to create and share our own media with others. In some ways, mass media displaced the participatory impulses which characterized the folk culture of 19th century America: we moved from a country of cultural producers to one of cultural consumers. Amateur cultural production was pushed underground, hidden from view, through it was not totally destroyed by the rise of mass media. The Web has made this layer of amateur production more visible again, providing an infrastructure where amateurs can share what they created with each other: this ability to share media has helped to motivate media production, resulting in an explosion of grassroots expression.
E poi
Media technologies are interconnected so that messages flow easily from one place to another and from one person to another. Communication occurs at a variety of levels – from intimate and personal to public and large-scale. The one sender-many receiver model which dominated print culture and modern mass media is giving way to a many-to-many model in which any given participant can easily circulate their work to a larger community. The capacity to ‘network’ has emerged as an important social and professional skill. Young people become adept at calculating the advantages and disadvantages of deploying different communications systems for different purposes – trying to decide how to communicate their ideas only to those people they want to see them while maintaining privacy from unwanted observation.115
Mentre le descrizioni sono rimaste le stesse, le definizioni nell’edizione italiana sono diventate interactive al posto di appropriate e partecipative per global. Il “coinvolgimento attivo” che ha descritto come una caratteristica del tratto appropriativo di questo nuovo panorama dei media, e l’intera definizione che ha dato per questa caratteristica, sono stati tradotti al meglio come interactive. La definizione global, invece, è stata maggiormente enfatizzata dalla nuova azione partecipativa (descrivendola come un “modello molti-a-molti” in cui ogni partecipante ha un ruolo concreto). La definizione del tratto partecipativo nella Postilla italiana, infatti, non ricalca bene la descrizione precedente, ma posso credere che Jenkins abbia preferito cambiare entrambe le definizioni perché voleva puntare più sull’azione delle persone e meno sul ruolo della tecnologia, nel discutere proprio di era partecipativa.
Secondo lo studioso, infatti, grazie alla rivoluzione digitale è stata inaugurata un’era ricca di promesse (cittadinanza attiva, consumo consapevole, creatività diffusa, intelligenza collettiva, sapere condiviso, scambio di conoscenze), che Jenkins ha definito proprio età partecipativa e che, molti anni dopo, possiamo considerare una promessa quasi mantenuta. I processi partecipativi sono diventati ormai davvero difficili da invertire, in molti settori della nostra vita e in quella culturale, in particolare.
Nell’ambito del dibattito sull’uso delle tecnologie digitali per un nuovo e costruttivo rapporto tra musei e utenti, è necessario che ti segnali alcuni contributi essenziali116.
In particolare, da un lato, il già citato volume di Nina Simon117, cui si deve la diffusione globale della definizione e del concetto stesso di museo partecipativo con la creazione di una piattaforma open access (di cui è consentita la consultazione testuale gratuita); dall’altro, l’analisi sul valore della partecipazione e della co-creazione culturale discussa dagli economisti della cultura Hasan Bakhshi e David Throsby118, che hanno descritto in modo definitivo quale sia l’importanza concreta della partecipazione nel settore e nel management culturale.
La rivoluzione dei social media ha decisamente favorito un approccio diverso tra musei e utenti, facilitando la trasformazione da un museo di collezione, tassonomico e gerarchico, a un museo partecipativo, aperto al contributo, alla collaborazione e alla partecipazione fino alla cocreazione insieme ai propri followers. Nel modello di museo partecipativo, i processi attivati sono in grado di connettere i vari attori coinvolti («creators, distributors, consumers, critics and collaborators»), sono aperti alla collaborazione degli utenti con l’offerta museale, o persino con la sua produzione diretta, tramite l’utilizzo di contenuti generati dagli utenti (UGC). In questo modo possono essere favoriti processi culturali co-creativi, in grado a loro volta di favorire, in un circolo virtuoso, sia la costruzione del senso di appartenenza a una comunità culturale forte che la coproduzione stessa di valore museale.
Come detto oltre un decennio fa119, i musei non potevano scegliere se tenersi in disparte dall’evoluzione della comunicazione digitale; hanno giustamente iniziato a utilizzare questi strumenti digitali per riappropriarsi di tutte le loro funzioni tradizionali (conservazione, protezione, comunicazione, valorizzazione e fruizione) in modi nuovi. Il grande uso dei social media nei musei ha fatto crescere un altro modello: il modello del museo connesso, che è strettamente legato alla nascita di nuove connessioni sui social media e alle modalità che i musei devono trovare per una nuova comunicazione culturale. Questo modello è descritto come:
the manners and modes of communication and the types of social connection that result from the appropriation by museums of particular technologies and their affordances. […] social media fundamentally invite museums to reorchestrate their communicative models away from a transmission model defined from an institutional perspective (what we want to impart) on to a user perspective (what people may want to know)120.
Come consentire a un museo, allora, di praticare strategie di sviluppo e coinvolgimento del pubblico (quelli che, tra specialisti, chiamiamo audience development e audience engagement)?
In questo generale sistema di riconfigurazione dei saperi culturali e digitali, fondamentale è, prima di tutto, che i musei abbandonino quel comportamento autoreferenziale che caratterizzava il modello del museo di collezione come un tempio e il ritorno al territorio, di cui il museo raccoglie e cura la storia e le testimonianze, secondo quanto già indicato dalla Nouvelle Muséologie. Il museo potrebbe così diventare, per il territorio in cui si trova, un agente di cambiamento sociale e urbano, trasformandosi in un’agorà, una piazza pubblica: ecco tornare il modello del museo foro, adesso declinato come museo agorà. Potrebbe quindi trasformarsi in una piazza in cui creare connessioni, raccogliere voci ed espressioni della gente121; voci ed espressioni che il museo deve imparare non solo a raccogliere ma a cogliere facendole proprie e co-costruendo, insieme alla sua agorà, il senso di appartenenza a una comunità patrimoniale unica, individuale e plurale allo stesso tempo. Il modello del museo foro di Duncan è stato così rivitalizzato nel modello di museo agorà, che implica un comportamento più partecipativo da parte della popolazione locale, che per Duncan ancora non era concettualmente ipotizzabile. Nel frattempo, sono comparsi nuovi modelli, come il museo relazionale di Simona Bodo122, inteso come un luogo di relazioni interne ed esterne al museo, di esperienza conoscitiva, aggregazione sociale, crescita civile e ridefinizione identitaria; il museo di narrazione di Paolo Rosa (celebre fondatore di Studio Azzurro), incentrato sul ruolo delle storie da scoprire all’interno delle collezioni123, e quello del museo di comunità, che deriva a sua volta dal modello del foro e dell’agorà, ma che è strettamente legato al ruolo delle comunità rispetto al rapporto con il patrimonio locale, come previsto dalla Convenzione europea di Faro124.
Lo Storytelling digitale e il modello del Museo di Connessione
Mi riaggancio a quanto recentemente affermato da Giovanna Brambilla su cosa significhi, da parte dei musei, abbandonare il loro comportamento autoreferenziale:
Uscire dall’autoreferenzialità significa capire che per far considerare interessanti nuovi contenuti bisognerà agganciarsi a qualcosa di familiare e rassicurante, rimuovere tutti i possibili ostacoli, evitare di appoggiarci a effimeri specchietti per allodole, che possano generare un interesse transitorio, per investire sull’attenzione all’identità del museo, da una parte, e alle persone dall’altra125.
Quello che propongo, alla luce delle riflessioni degli ultimi anni e della pratica condotta nel campo dello storytelling digitale soprattutto partecipativo, è un nuovo modello museale che, partendo dalla visione antiquaria del museo di collezione e andando oltre i precedenti modelli citati di museo foro o agorà, museo partecipativo, museo connesso, museo di narrazione e, infine, del modello di museo di comunità, raggiunga quello che ho voluto definire un museo di connessione o museo di narrazione connessa, che mira a fondere tutti i modelli citati in un unico insieme, dove le tecnologie e le storie digitali hanno un ruolo cruciale nel favorire e creare comunità.
Da collezione a connessione: è bastato aver sostituito qualche lettera per rivelare quanto profonda sia la distanza fra il modello antiquario precedente e quello che oggi si propone.
I musei si sono rivelati, negli anni, i candidati privilegiati a diventare laboratori, attraverso i quali memorie e identità individuali e collettive si incontrano, si riconoscono, si ibridano, co-creando e co-costruendo insieme narrazioni nuove e comuni. Sono fulcri attorno ai quali si intrecciano relazioni e connessioni tra memorie, identità del territorio o tra tradizioni e comunità: sono i testimoni di un heritage che deve essere considerato “vivo” per restituire senso di appartenenza. Non più cimiteri di cose morte, ma un living heritage hub, ovvero un centro propulsivo di patrimonio vivo, dove il patrimonio è al contempo materiale e immateriale, fatto di oggetti e di persone, di luoghi reali e di luoghi dell’anima, delle infinite connessioni che si possono instaurare fra loro e, non ultimo oggi, di contenuti born digital, patrimonio digitale anch’esso da tenere in considerazione, come indica bene il lavoro di questi anni di DiCultHer, del Manifesto di Ventotene e della Carta di Pietrelcina.
In questo ruolo di co-costruttori di memorie collettive e identitarie, tipico sia del modello partecipativo che di quello comunitario, i musei e le istituzioni culturali hanno un potente alleato nelle narrazioni e, nello specifico, proprio nella pratica dello storytelling. Secondo il modello di museo di narrazione, le narrazioni rivelano la loro forza nella ricerca di una dimensione emozionale126; e lo storytelling è la chiave per costruire narrazioni che abbiano proprio questo “potere”, coinvolgere, emozionare, connettere. Il ruolo dello storytelling digitale, d’altronde, è ben noto nell’approccio pedagogico127 ed è ormai considerato uno strumento specifico nella politica e nel marketing128, nella costruzione di comunità129 e, infine, nella costruzione di una brand destination130.
In un recente approfondito studio ho analizzato le molteplici forme in cui lo storytelling digitale può essere prodotto e fruito131. In qualunque forma e con qualsiasi strumento lo storytelling venga praticato, la sua importanza nel rapporto tra patrimonio culturale e fruitore è ormai fondamentale, sia che trasmetta, reinterpreti e traduca la vocazione comunicativa proveniente da un manufatto, sia che renda espliciti gli infiniti racconti che un manufatto contiene. Ovviamente questo vale per qualsiasi tipologia di patrimonio portatore di una storia o di una biografia, tangibile (cioè connesso a un oggetto culturale fisico) o immateriale (cioè connesso a un mito, una leggenda, una tradizione, una pratica, un personaggio immaginario o meno noto, ecc.).
In ogni caso, lo storytelling è lo strumento adatto per creare un impatto sempre più emotivo, interattivo e partecipativo, attraverso le innumerevoli storie e gli innumerevoli segni di cui sono portatori gli oggetti, i reperti, i documenti del passato e del presente (se pensiamo ovviamente all’arte contemporanea).
Per chiarire meglio il ruolo che lo storytelling ha nel nuovo modello proposto di museo di connessione, ho analizzato e rielaborato le funzioni dello stesso storytelling, partendo dalle cinque principali funzioni individuate da Chiara Moroni per lo storytelling politico132, includendone altre due indicate da Christian Salmon sull’utilità delle storie nello storytelling management133. Infine, ne ho individuata un’ultima, la funzione connettiva, che è universalmente valida per lo storytelling analogico e tradizionale come per quello digitale, distinguendosi solo per l’evoluzione tecnologica nelle modalità di trasmissione e fruizione. Leggendo le funzioni qui elencate, si nota come l’ultima, la funzione connettiva appunto, raccoglie e unifica in sé tutte le altre elencate; in qualche modo ne è contemporaneamente premessa e somma, e, come tale, posso considerarla la vera base del modello del museo di connessione:
- funzione comunitaria: lo storytelling favorisce la costruzione di senso comunitario;
- funzione referenziale: lo storytelling permette la trasmissione della conoscenza;
- funzione empatica: lo storytelling suscita emozione e coinvolgimento;
- funzione mnestica: lo storytelling permette la trasmissione tra generazioni di memorie individuali e collettive;
- funzione identitaria: lo storytelling permette la costruzione di identità;
- funzione valoriale: lo storytelling permette la trasmissione dei valori;
- funzione “trampolino”: lo storytelling ci permette di capire cosa può succedere nel futuro leggendo cosa è successo nel passato;
- funzione connettiva: lo storytelling favorisce la connessione tra istituzioni e patrimonio, individui e collettività.
Secondo Fabio Viola, il noto game designer italiano, e Vincenzo Idone Cassone si potrebbero elencare tre principali dinamiche nel coinvolgimento del pubblico a livello empatico: attrazione, interazione ed esperienza134; e queste dinamiche sono ancora più valide proprio per lo storytelling e per tutte le funzioni che a esso sono legate. Nel loro contributo i due autori considerano anche le funzioni empatiche, mnestiche e comunitarie tra le dinamiche che ricadono proprio nelle tre nature del coinvolgimento e dello storytelling e che possono essere tradotte con alcune delle funzioni che ho appena elencato: la capacità di trasmettere emozioni (funzione empatica); stimolo alla memoria e alla memorizzazione (funzione mnestica); dinamiche di socializzazione (funzione comunitaria). Tornando proprio alle funzioni sopra elencate, va considerato il forte impatto che lo storytelling può avere nella trasmissione dei valori (funzione valoriale), perché è utile per costruire sia un senso comunitario (funzione comunitaria) che identità (funzione identitaria). Infine, la funzione connettiva, che ho individuato come l’unica in grado di assorbire tutte le altre funzioni, dimostra come la narrazione sia in grado di aiutare la connessione tra oggetti, simboli, segni, patrimoni materiali e immateriali, e ciò che essi rappresentano (e rappresenteranno anche in ambito di produzione strettamente digitale) per il sistema valoriale di un singolo individuo e di una intera collettività.
Tutte le altre funzioni derivano infatti da questa capacità di favorire la connessione.
Il grado di coinvolgimento dello storytelling digitale varia, quindi, non solo in base alle principali capacità del narratore di essere un bravo affabulatore e di indirizzare la propria narrazione al
pubblico giusto; varia anche a seconda delle diverse modalità di comunicazione introdotte: orale, visiva, ipertestuale, crossmediale, transmediale ecc.
In ogni caso, ciò che conta, prima di tutto, è riuscire a creare connessioni emotive, abbandonando linguaggi e modalità autoreferenziali di trasmissione del sapere e trovandone di nuove, capaci di suscitare quella disponibilità all’ascolto e alla conoscenza che sono il “gancio” diretto per ottenere un vero coinvolgimento. Lo storytelling può essere, infatti, riconosciuto come il miglior strumento in grado di garantire un’esperienza di coinvolgimento di successo, poiché garantisce la corretta combinazione di interesse, empatia e immaginazione.
Conclusioni
Per concludere, vorrei replicare qui, quanto già scritto altrove135, indicando una traccia del cambiamento da poter perseguire, una sorta di “manifesto informale” modulato secondo il modello di museo di connessione che ho proposto sin qui.
Intanto, mi sento di affermare che è finito il tempo dell’improvvisazione nei musei, sia nella comunicazione e valorizzazione digitale che nella ricerca di nuove relazioni con il pubblico e gli altri stakeholder.
Come ci documenta recentemente Giovanna Brambilla, persino grandi scrittori della nostra recente contemporaneità, come Umbero Eco, Tiziano Terzani, Antonio Tabucchi, sono restati saldamente ancorati a una percezione di museo come un luogo di solitudine, di noia, di fatica, di assenza136.
Proprio per dismettere definitivamente quei panni, stretti e logori, oggi le istituzioni culturali devono essere pienamente permeabili al cambiamento, devono spronare alla creatività e diventare esse stesse creative, capaci di riorganizzarsi in rete, lasciando più spazio all’intelligenza collettiva e alla co-creazione e co-progettazione di nuovi modelli di acquisizione, conservazione, valorizzazione e diffusione del patrimonio culturale. Questo significa dismettere i panni del museo tradizionale e diventare quell’hub di cui ho parlato, capace di garantire un concreto coinvolgimento delle persone anche nei processi decisionali e nella co-costruzione delle esposizioni.
È tempo che le istituzioni culturali mettano realmente in pratica la loro missione sociale, lasciando definitivamente da parte il loro egocentrismo culturale, la loro dimensione autoritaria, i loro linguaggi tecnici, con i quali, anziché includere, hanno finora piuttosto mantenuto se non accresciuto la distanza sociale e cognitiva con il cosiddetto “pubblico generalista”, che poi altro non è se il pubblico non specialista. Occorre invece acquisire una nuova narrazione, una modalità autorevole ma non autoritaria, quanto piuttosto inclusiva, che abbia al centro del suo interesse la costruzione (o a volte la ricostruzione) di memorie collettive e narrazioni connesse.
I musei devono lasciarsi alle spalle (e fare in modo che la gente si lasci alle spalle!) tutte le metafore, gli attributi e i significati elitari o semplicemente negativi, con cui sono stati definiti (e percepiti soprattutto) nel corso della loro storia: tempio, chiesa, luoghi sacri o polverosi, collezioni di oggetti diventati feticci ecc. Devono accettare definitivamente il cambiamento del modello museale da museo tempio a museo foro e di comunità, ristabilendo così la loro funzione sociale e plurale e il loro essere rappresentativi dell’identità e dell’espressione civica di un territorio e della collettività che lo abita; e devono accettare altrettanto il passaggio dal modello di museo di collezione a quello di museo partecipativo e museo di narrazione, restituendo così il corretto ruolo che gli oggetti devono avere in relazione alle comunità e alle modalità di interazione, connessione e narrazione che si possono instaurare tra loro.
Tornando al modello di museo di narrazione, gli oggetti, i reperti, le opere d’arte non devono essere considerati preziosi per se stessi (oggetti che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono stati decontestualizzati dalla loro collocazione originaria, come monumenti, necropoli, edifici di culto, palazzi nobiliari e così via). Essi acquisiscono valore per la comunità grazie ai valori e alle storie che, a loro volta, rappresentano e contengono. Le loro storie possono essere ancora più facilmente raccontate e restituite digitalmente ai contesti originari, grazie alle capacità comunicative e all’immediatezza consentite dalle nuove tecnologie digitali. Proprio le nuove tecnologie possono essere utili non solo per la revisione radicale degli allestimenti museali (che, secondo quanto ho scritto finora, dovrebbero essere co-progettati per stimolare senso di appartenenza), ma anche per l’indispensabile revisione delle storie legate alle collezioni museali stesse, già storicizzate (e sappiamo quanto difficilmente movimentabili o rinnovabili).
È tempo che i musei ristabiliscano connessioni fisiche, emotive, cognitive e digitali con il proprio territorio. È tempo che i musei ospitino reti, connessioni e comunità di amici, capaci di condividere il patrimonio comune, materiale e immateriale, di riconoscere in quel patrimonio le tracce e le testimonianze di una comune umanità e conoscenza, da tramandare ai posteri, con la giusta consapevolezza, l’adeguata conoscenza e i moderni linguaggi, in modo da renderli accessibili, cognitivamente e democraticamente, al più vasto pubblico possibile, come testimonianza di valori, idee, simboli dai quali si sentono rappresentati.
Anche dal punto di vista disciplinare e formativo, stiamo assistendo a uno “svecchiamento” del sistema, frutto della accelerazione legata alla pandemia. Le nuove forme di narrazione, anche digitali, devono essere considerate fondamentali e non più facoltative nella creazione di nuove forme di comunicazione, anche per intercettare non pubblici o non stakeholder; ed è necessario comprendere che queste narrazioni devono essere create, sviluppate e diffuse da figure professionali competenti, all’interno di una comunicazione ben pianificata e di buona qualità. Il vero valore della cultura – e di chi ne fa mestiere – sta nella capacità di tessere relazioni, di trasmettere conoscenza attraverso connessioni bidirezionali, non in modalità autocelebrative e tassonomiche autoreferenziali.
In quest’ottica, va definitivamente abbandonata anche la accezione negativa associata da alcuni studiosi al concetto di “divulgazione”, a favore di quella di “disseminazione”. In campo metaforico, l’orizzonte si sposta dalla parola latina negativa vulgus, per cui divulgare significa imporre dall’alto il proprio sapere, a quella di “diffondere intorno a semi di cultura” capaci di germogliare e crescere. È tempo che gli strenui difensori della cultura elitaria comprendano come un “racconto culturale” (soprattutto in certi ambiti, come quello di un passato da ricostruire) sia il risultato del lavoro di ricostruzione scientifica e non della voglia di trasformare in un cartone il “sacro bene”, ma di costruire quel ponte tra realtà e immaginazione, capace di restituire comprensione a oggetti e contesti.
È giunto il momento di concretizzare ciò che Cameron Duncan aveva già sperato per quasi 50 anni: che i musei mettano in pratica la loro responsabilità sociale, non solo nei processi di democratizzazione della cultura, ma nel creare un’effettiva uguaglianza nelle opportunità culturali che possono offrire ai la comunità, e quel patrimonio culturale diventa quella «scuola di democrazia» auspicata da Giuliano Volpe, anche attraverso forme di consolidamento – e collegamento possiamo dire – tra «comunità virtuale e socialità reale»137.
La lunga gestazione della nuova definizione di museo da parte di ICOM138 (che, dalla General Conference di Kyoto del Settembre 2019, con la lunga parentesi del lockdown, ha visto la luce nell’agosto 2022) è prova evidente dell’intenso di battito intorno al ruolo del museo.
Dalla definizione approvata dalla Assemblea generale di ICOM a Vienna nel 2007 e inserita nello statuto della associazione:
Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto(ICOM 2007).
si è giunti alla approvazione di una nuova definizione alla Assemblea generale di Praga nel 2022, modificando così l’Art. 3 dello statuto:
Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale.
Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità.
Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze.
Inclusione, diversità, sostenibilità e partecipazione delle comunità sono oggi definitivamente al centro della mission dei musei del mondo. È in questo quadro che le istituzioni culturali globali sono chiamate a compire un ulteriore passo (concettuale e pratico), garantendo, finalmente, ogni forma di connessione fisica, emotiva, cognitiva, culturale e digitale tra le istituzioni e le persone (intese come individuo e come comunità, sia reale che virtuale); questa connessione è veicolata attraverso storie (intese come contenuto, come espressione di conoscenza, identità, memoria, valori, ecc., prodotte anche attraverso processi partecipativi) e infrastrutture digitali (come veicolo di quei contenuti) attraverso le quali, oggi, le storie possono viaggiare, diffondersi, distribuirsi oltre le barriere fisiche e geografiche.
Solo così è possibile creare realmente nuove relazioni tra materiale e immateriale, visibile e invisibile, accessibile e inaccessibile, scienza e conoscenza da una parte, memoria e narrazione dall’altra.
(*) Elisa Bonacini, Università degli Studi di Bari, Dipartimento di Ricerca e Innovazione Umanistica Museologia (L-Art 04)
1 Calveri 2023, pp. 149-162.
2 Calveri 2023 pp. 84-88 e pp. 165-186.
5 Simon 2010.
9 Mottola Molfino 1992, p.129.
10 Harrison 2013, p. 4; Pinna 2019-2023, p. 52.
11 Schaer 1996, p. 13; Marini Clarelli 2005, p. 9; Merzagora, Rodari 2007, pp. 13-14.
12 Schaer 1996, p. 12; Cataldo, Paraventi 2007, pp. 3-4; Vercelloni 2007, pp. 5-6.
13 Fiorio 2018, p. 6; Pinna 2019-2023, p. 105.
14 Vercelloni 1992, p. 21; id. 2007, p. 2.
16 Mottola Molfino 1992, pp. 9-10.
17 Pomian 1978, p. 332; Lugli 1992, p. 11. «L’idea di museo non è, dunque, un’invenzione esclusiva né del Settecento illuminista né dell’Ellenismo: i tre elementi, che ancora oggi possiamo ritenere costitutivi dell’essenza del museo, seppure finalizzati al sacrale, si ritrovano anche in altre culture, sia antecedenti che coeve all’istituzione fondata da Tolomeo I ad Alessandria. Essi sono, in estrema sintesi: 1) la conservazione della memoria e della conoscenza di un popolo attraverso oggetti o scritti raccolti in uno spazio o contenitore fisico, una sorta di ‘magazzino’ dei ricordi fondamentali per la comunità; 2) l’esibizione, l’apertura al pubblico, seppure solo simbolica e diegetica, del magazzino;
3) la rinnovazione del tempo storico e della produzione culturale, la rigenerazione delle idee, attraverso la musealizzazione del già accaduto, la classificazione ed archiviazione definitiva dello ‘ieri’, creando uno iato volontario tra il passato e il presente, il prima e il dopo per le persone illustri, le opere e gli eventi memorabili di cui si perpetua la testimonianza» (Varicchio 2007, p. 32).
18 Merzagora, Rodari 2007, p. 14.
19 Le Goff 1977; Carta 1999, p. 43; Pinna 2019-2023, pp. 161-169.
21 È tipico del valore antropologico del sacro la conservazione di ex-voto o reliquie varie (Vercelloni 1992, p. 11; Corti 2003, p. 21).
23 Fiorio 2018, pp. 26-29.
24 Questo fenomeno, spesso di “sistematico smembramento” da parte dei marmorarii e dei calcararii, viene non a caso considerato «uno dei principali fattori che determinarono l’evoluzione del paesaggio urbano», tanto da lasciare profondo ricordo di sé in un intero quartiere della città medievale di Roma, la contrada calcararia nei dintorni di Circo Flaminio (Heers 1995, p. 68).
25 Si tratta delle Bolle di Martino V Etsi de cunctarum (1425), di Pio II Cum almam nostram urbem (1462) e di Sisto IV Etsi de cunctarum (1474). Nel 1462 Pio II con la Bolla Cum almam nostram urbem previde la scomunica, il carcere e la confisca dei beni a coloro che avessero, senza la “licenza” papale, demolito, distrutto o solo danneggiato gli antichi edifici pubblici o i loro resti esistenti a Roma e nel territorio, anche se in proprietà private. Sisto IV con la Bolla Cum provida (1474) tentò di impedire la spoliazione sistematica delle chiese col furto di marmi ed antichi ornamenti (Carta 1999, p. 48).
26 De Benedictis 1995, p.27.
28 Pirozzi 2002, p. 7. Collezionare antichità incrementava il proprio prestigio sociale, era “espressione di romanitas” da parte di molte famiglie che vantavano illustri genealogie con le antiche famiglie senatorie (Cavazzini 2008, p. 30).
29 Bottari, Pizzicanella 2002, pp. 119-124.
30 Fiorio 2018, p. 30.
31 La donazione dei bronzi capitolini al popolo romano da parte di Sisto IV nel 1471 (Vercelloni 2007, p. 27) o l’apertura a giovani artisti della sua collezione di sculture da parte di Lorenzo il Magnifico (1449-1492) sono elementi indicativi della precoce costituzione del museo moderno, in cui siano presenti i fattori della pubblicità dell’opera d’arte e del diritto alla comune fruizione (De Benedictis 1995, p.27).
32 Vercelloni 2007, p. 27; De Benedictis 1995, p. 27.
34 Alcune delle sale vennero intitolate alle divinità romane e una di esse alle Muse (Binni, Pinna 1989, p.23; Schaer 1996, p. 20; Vercelloni 2007, p. 29; Fiorio 2018, pp. 25-47).
37 Schaer 1996, pp. 21-27; Merzagora, Rodari 2007, p. 6, pp. 16-18. Tuttavia, queste varietà di collezionismo avevano una differenza basilare: se lo studiolo italiano, pur ad uso strettamente privato, presentava elementi tipici della museografia moderna per la stretta corrispondenza tra contenente e contenuto, dall’altro la Wunderkammern raccoglieva gli oggetti più svariati, spesso senza criteri di ordinazione (Binni, Pinna 1989, p. 23).
38 Pinna 2019-2023, p. 113.
39 Fiorio 2018, pp. 41-42.
42 Corti 2003, p. 22.
43 Merzagora, Rodari 2007, pp. 24-25.
46 Mottola Molfino 1992, p. 21; Schaer 1996, p. 47; Fiorio 2018, p. 2; Pinna 2019-2023, pp. 117-118.
47 «L’Illuminismo crea i musei e la Rivoluzione li apre con il gesto memorabile di statalizzare le raccolte reali e di aprire il museo dei re di Francia, il Louvre, il 10 agosto 1793, intitolandolo Musèe Révolutionnaire» (Mottola Molfino 1992, p. 22). Schaer 1996, p. 55; Cataldo, Paraventi 2007, p. 18; Fiorio 2018, pp. 70-71 e pp. 74-76; Pinna 2019-2023,
p. 16.
49 Guioitto 2007-2008, p. 9.
50 https://icom.museum/en/ressource/declaration-on-the-importance-and-value-of-universal-museums/.
51 https://www.bbc.co.uk/programmes/b00nrtf5; Pinna 2019-2023, p. 574.
52 https://britishmuseum.withgoogle.com.
54 Binni, Pinna 1989, p. 53.
55 Candela, Scorcu 2004, p. 149.
58 Alibrandi, Ferri 1985, p. 5.
59 L’azione di tutela dello Stato Pontificio, tra 1600 e 1800, era continuata con numerosi editti cardinalizi (Aldobrandini, 1624; Altieri, 1686; Spinola, 1701 e 1704; Albani, 1726 e 1733; Valenti, 1750) e si rivelava già precocemente rivolta sia alla difesa del bene culturale nella sua materialità che nella sua valenza immateriale e contestualizzata di testimone di civiltà e cultura. Questi provvedimenti avevano già, in nuce, la concezione della duplice valenza, economica e storico-artistica, del patrimonio culturale. In particolare, gli editti dei cardinali Spinola del 1704 ed Albani del 1733 riconoscevano «nel valore culturale dei beni una ricchezza superiore» e nella sua conservazione «incitamento a forestieri di portarsi alla medesima città per vederle ed ammirarle», cogliendo, anche qui con notevole anticipo sui tempi, il valore economico-turistico di quel patrimonio, secondo «una lucida visione prodotta dal funzionalismo illuminista» (Cinquegrana 2003, p. 10).
62 Schaer 1996, p. 92.
63 In particolare, il 1870 è considerato un landmark year per la storia dei musei d’arte americani (Alexander, Alexander 2008, p. 36)
64 I collezionisti statunitensi, infatti, non avevano gusti molto dissimili dagli europei (Schubert 2004, pp. 47-50).
66 Florio 2018, p. 146; Pinna 2019-2023, p. 78.
68 Bertuglia, Bertuglia, Magnaghi 1999, p. 103.
71 Brambilla 2021, pp. 22-33.
73 Nel 1919 l’architetto W. Gropius fondò a Weimar la Staatliches Bauhaus (letteralmente casa della costruzione) prima scuola di disegno industriale della storia, presso la quale si definirà la figura del designer come oggi la concepiamo e si elaborerà una metodologia di progettazione comune a tutte le arti. Gropius affermava: «I tempi nuovi chiedono un’espressione adeguata, una forma esatta e non casuale; contrasti chiari, ordine nelle parti, sequenze di elementi simili nonché unità di forme e colore diventeranno in coerenza con l’energia e l’economia della nostra vita pubblica, gli strumenti estetici dell’architetto moderno».
75 Schaer 1996, pp. 76-79 e p. 87; Fiorio 2018, pp. 96-119 e p. 144.
77 Acidini Luchinat 1989, p. 36.
78 Ducci 2005.
79 Pinna 2019-2023, p. 1059 e 1063.
81 Fiorio 2018, pp. 151-154; Pinna 2019-2023, p. 527.
83 Arestizabal 1991, p. 23.
84 Bertuglia, Bertuglia, Magnaghi 1999, p. 102.
85 Binni, Pinna 1989, pp. 70-71.
86 Bertuglia, Bertuglia, Magnaghi 1999, p. 15.
88 «L’ICOM è l’organizzazione internazionale dei musei e dei professionisti museali impegnata a preservare, ad assicurare la continuità e a comunicare il valore del patrimonio culturale e naturale mondiale, attuale e futuro, materiale e immateriale. Riunendo più di 24.000 aderenti presenti nei 5 continenti, l’ICOM costituisce una rete internazionale di comunicazione e di confronto per i professionisti museali di tutte le discipline e tutte le specialità. Essi partecipano alle attività dell’Associazione, che si svolgono a livello locale e internazionale, attraverso convegni, pubblicazioni, momenti di formazione, gemellaggi e la promozione dei musei. Creato nel 1946, all’indomani della Seconda guerra mondiale, per iniziativa di Chauncey J. Hamlin, Presidente dell’American Association of Museums, con l’obiettivo di diffondere la reciproca conoscenza fra le culture come base comune per la pace, l’ICOM è un’organizzazione senza fini di lucro, in gran parte finanziata dalle quote dei suoi aderenti e grazie al sostegno di diversi organismi pubblici e privati. Organizzazione non governativa (ONG), l’ICOM è associato all’UNESCO e gode dello status di organismo consultivo presso il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite. La Segreteria e il Centro d’informazione dell’ICOM hanno sede a Parigi presso la Maison de l’UNESCO e assicurano il coordinamento delle attività e dei programmi a livello internazionale» (da www.icom-italia.org).
89 Il concetto di tempo libero è «frutto diretto dello sviluppo delle società industrializzate e urbanizzate, in seguito al quale la qualità della vita si modifica completamente, grazie alla trasformazione profonda delle tradizioni e delle esperienze collettive e all’affermarsi di nuovi costumi e di nuovi modelli partecipativi prima e fruitivi poi» (Pitteri 2006, p. 46). Per una definizione di tempo libero, inteso in senso mutevole ed indeterminato, v. Ciappei, Surchi 2010, p.
11. Sul tempo libero e le sue classificazioni (tempo necessario, tempo obbligato, tempo vincolato) v. Richeri 2002; interessante l’analisi sul tempo libero degli adolescenti non-visitatori del sistema museale della provincia di Modena, in Bollo, Gariboldi 2008, pp. 111-112.
92 Schaer 1996, pp. 108-110 e pp. 128-132.
93 «Se è pur vero che qualsiasi monumento fu costruito per rispondere a precise esigenze, è altrettanto vero che nessuno o ben pochi monumenti, hanno conservato le funzioni originarie. Da sempre gli architetti si sono cimentati a trasformare le primitive strutture modificandone i caratteri spaziali originari» (Bertuglia, Bertuglia, Magnaghi 1999, p. 192).
94 Bertuglia, Bertuglia, Magnaghi 1999, p. 189.
96 Che chiaramente intendeva come un luogo diviso dal resto – la radice di templum è temno, che in latino significa separato, tagliato, appunto – dove sono custoditi tesori e beni sacri, a cui possono avvicinarsi solo i fedeli.
98 Cancellotti 2011, pp. 100-101.
100 Pitteri 2006, pp. 34-35.
102 Colbert 2000, p. 15. I primi uffici addetti al marketing e alla comunicazione sorsero al MoMA di New York ed alla Tate Gallery di Londra (Schubert 2004, pp. 93-95).
103 Per museologia si intende la scienza che studia i contenuti e la storia degli oggetti del museo e individua il modo in cui questo sapere deve essere trasmesso all’esterno. La museotecnica comprende le attività e le conoscenze che riguardano i problemi espositivi (Cataldo – Paraventi 2007, p. 70).
104 Bertuglia, Bertuglia, Magnaghi 1999, pp. 100-101; Merzagora – Rodari 2007, pp. 11-12.
107 Lang, Reeve, Woollard 2006.
108 Hazan, Hermon 2013.
110 Simon 2010.
114 Jenkins 2007, pp. 318-324.
115 Jenkins 2006c.
116 Tallon, Walker 2008; Graham, Cook 2010; Parry 2010.
120 Drotner, Scrhøder 2013, p. 1.
125 Brambilla 2021, p. 45.
126 Johnsson 2006; Handler Miller 2008; Bryan 2011; Brouillard, Loucopoulos, Dierickx 2015; Valtolina 2016;
Dunford, Jenkins 2017; Handler Miller 2020.
127 Abrahamson 1998; Robin 2008; Barber 2016.
129 Lambert 2013; Bonacini 2017.
130 Zhong, Busser, Baloglu 2017; Bonacini, Giaccone 2018; Lund, Cohen, Scarlse 2018.
132 Moroni 2017.
134 Viola, Cassone 2017, p. 5.
135 Bonacini 2020, pp.
136 Brambilla 2021, pp. 22-33.
137 Volpe 2016, p. 38.
138 https://www.icom-italia.org/definizione-di-museo/.
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