“Cultura digitale”, ma che vuol dire davvero: caratteristiche, ecosistema e sfide.

Di Giulio Lughi (*)

Cultura digitale: cos’è, in cosa si differenzia dalle culture artigiane e industriali, quali sono le sue caratteristiche, cosa forma il suo ecosistema, in quali settori son più visibili i suoi effetti, quali sono le sfide da affrontare.

Cultura digitale come substrato necessario per capire, in tutte le sue sfaccettature e implicazioni, la complessa transizione dall’industriale all’ICT. Cultura digitale come bisogno di spessore concettuale, di profondità di analisi, di visione strategica che non si limiti alle pure competenze tecnologiche.

Ma di cosa parliamo quando parliamo di cultura digitale?

Il termine “cultura” può essere interpretato in diversi modi: l’accezione più semplice, e banale, intende la cultura in senso classicistico, come accumulo di informazioni e conoscenze fini a se stesse.

“Cultura” vista quindi come strato aggiuntivo, per certi versi opzionale, un di più, spesso fortemente orientato al passato, che caratterizza le classi economicamente e/o socialmente privilegiate.

Ma il termine “cultura” può essere interpretato anche in senso socio-antropologico, come l’insieme di comportamenti, conoscenze, norme, sistemi di valori, meccanismi di controllo che una società, in tutte le sue componenti, mette in opera per sopravvivere, e possibilmente per vivere meglio.

In questo senso, la cultura di una società è necessariamente innervata nel suo tempo, nella sua organizzazione politica e civile, nei suoi sistemi di produzione, nelle sue tecnologie: detto altrimenti, dal punto di vista socio-antroplogico non esiste società senza cultura.

Parlare oggi di Cultura Digitale è giocoforza adottare questa seconda accezione, che ci fornisce l’approccio corretto per capire il digitale: la Cultura Digitale non è riducibile, infatti, ad una serie di nozioni tecniche, più o meno approfondite, ma rappresenta la capacità di capire la complessità, la profondità, l’interrelazione dei sistemi che gestiscono il mondo contemporaneo.

Da dove arriva la cultura digitale e da cosa è formato il suo ecosistema

In questo senso, è opportuno distinguere fra competenze e cultura digitale: le competenze digitali sono insiemi di saperi che permettono di procedere a corto raggio e su breve durata, fondamentalmente con un approccio tattico, mentre la cultura digitale rappresenta la capacità di adottare una visione a largo raggio e di lunga durata, con un approccio strategico.

Le competenze di oggi, che riguardino software, linguaggi, sistemi, piattaforme, sono destinate a invecchiare rapidamente, a causa dell’alto tasso di innovazione del digitale, mentre la cultura rappresenta la base teorica profonda che consentirà domani di cambiare software o sistema con la piena consapevolezza dei pro e dei contro muovendosi in una visione di ampio respiro.

Allo stesso tempo, è opportuno vedere la Cultura Digitale in prospettiva storica, come la terza grande fase di organizzazione sociale e mentale derivata dai sistemi di produzione:

– Nell’antichità, le civiltà umane hanno agito entro la Cultura artigianale, legata al modello di produzione della bottega, caratterizzata da rapporti ravvicinati tra i soggetti sociali, dove la trasmissione del sapere avviene tramite la comunicazione orale e l’esempio pratico, con il maestro anziano che mostra all’allievo come si fa;

– A partire dalla fine del Settecento si è sviluppata la Cultura industriale, legata al modello di produzione della fabbrica, caratterizzato da rapporti fortemente gerarchici dove la trasmissione del sapere è formalizzata in forma scritta  da manuali, istruzioni, procedure  e strutturata, sempre gerarchicamente, nell’organizzazione delle filiere produttive.

La Cultura digitale compie un cambio di marcia inedito: si riferisce alla produzione di informazioni e non di cose (dematerializzazione: bit, non atomi), ed è caratterizzata da rapporti decentrati dove la trasmissione del sapere avviene nella forma della rete.

La Cultura Digitale si pone quindi ad un livello superiore che ingloba e assume il controllo e la gestione di tutte e due le precedenti fasi produttive: artigianato e industria non scompaiono, ma sono obbligate a riconfigurarsi attraverso il digitale.

La Cultura Digitale è fondamentalmente complessa: l’acronimo ICT – Information and Communication Technologies indica i due piani intrecciati su cui essa si sviluppa, l’Information, ovvero la grande capacità di processare dati e informazioni, e la Communication, ovvero la capacità di muovere e relazionare dati e informazioni attraverso la rete.

Per questo motivo la Cultura Digitale appare così pervasiva, totalizzante, e allo stesso tempo difficile da definire: è un vero e proprio ecosistema, che controlla e gestisce le attività produttive, ma anche i mezzi di informazione, i rapporti interpersonali, il tempo libero e l’intrattenimento; un ecosistema globale capace di riformulare i saperi del passato e contemporaneamente di proiettarsi nel futuro.

Quali sono le caratteristiche della cultura digitale?

Quali sono gli elementi caratterizzanti della Cultura Digitale? Ovvero le componenti fondamentali necessarie per cogliere nella sua essenza tutta la complessità della trasformazione digitale,  diversi da quelli caratteristici delle precedenti Culture Industriale e Artigianale?

La differenza fra livello superficiale e livello profondo

Nel mondo digitale, tutto ciò con cui entriamo in contatto, attraverso lo schermo di computer, smartphone, o qualsiasi altro terminale, non esiste realmente nella forma in cui lo percepiamo, bensì è frutto dell’elaborazione logica e formale, in tempo reale, di una serie di dati e istruzioni annidati a livello profondo, sequenze di 1 e 0 assolutamente incomprensibili all’occhio e all’intelletto umano.

Al di sotto dell’esperienza di superficie, quella dello schermo, esiste un livello profondo, articolato e complesso, gestito dai linguaggi di programmazione, al quale è affidata la gestione di tutti i processi che agiscono nel mondo digitale. Come recita il titolo di un libro dello scrittore Lev Manovich (2013), “Il software prende il controllo”, e se non si considera questo strato del software diventa impossibile, sottolinea Manovich, comprendere le tecniche contemporanee di controllo, comunicazione, rappresentazione, simulazione, analisi, processo decisionale, memoria, visione, scrittura e interazione.

Possedere una cultura digitale significa quindi rendersi pienamente conto di questo doppio livello, e dell’importanza di saper gestire il livello profondo: per questo, dal punto di vista formativo, sono auspicabili le iniziative, sempre più frequenti, di coding per bambini, non per farli diventare programmatori professionisti, ma per attivare nei cittadini di domani la consapevolezza di come funziona effettivamente il mondo in cui si troveranno a vivere.

Per lo stesso motivo per cui a scuola si impara a leggere, a scrivere e a far di conto: non per diventare scrittori o matematici, ma per poter partecipare pienamente alla vita sociale e produttiva.

Dati, algoritmi e intelligenza artificiale

Se il software rappresenta il sistema nervoso del digitale, i dati sono le cellule che ne costituiscono il tessuto.

Un’altra caratteristica fondante del digitale è infatti la sua struttura logico-linguistica, composta di elementi minimi (alla radice, 1 e 0) che poi si aggregano e riaggregano secondo processi combinatori fino a comporre processi e sistemi finiti.

Rispetto alle culture precedenti, basate sulla trasmissione dei testi lineari, orali o scritti, nel digitale la formazione e la trasmissione del sapere si fondano sui dati e sulla loro organizzazione, secondo quella che è stata definita “la logica del database”: una continua scomposizione e ricomposizione dei dati organizzati che costituiscono la conoscenza.

Nell’età digitale qualsiasi sistema funzionante (amministrativo, gestionale, industriale, commerciale, culturale) ha dietro di sé un sistema di database, invisibile all’utente “normale” ma non per questo meno efficiente e determinante.

In tandem con il database agiscono gli algoritmi: se il database rappresenta il magazzino dei dati (il sistema paradigmatico), gli algoritmi rappresentano l’agente dinamico (il processo sintagmatico) che recupera i dati e costruisce il processo, elaborando una nuova forma di “testualità fluida”, continuamente scomponibile e ricomponibile.

Ma c’è di più: i grandi agglomerati di Dati, i big data, celano al loro interno percorsi di lettura e di interpretazione che sfuggono, per le loro dimensioni, alle possibilità di organizzazione cognitiva dell’umano. Paradossalmente ormai sono gli algoritmi stessi a “vedere” nei big data le costanti culturali che altrimenti sfuggirebbero all’osservazione.

Metaforicamente, si potrebbe dire che i dati sono il nuovo petrolio: grandi quantità di elementi informativi che creano valore, ma solo per chi è in grado di gestirli, analizzarli, interpretarli. I dati da soli infatti non generano valore: come il petrolio deve essere estratto, raffinato, immagazzinato e distribuito, così i dati richiedono competenze tecnologiche di gestione e visione strategica di utilizzo.

La sfida dellintelligenza artificiale, oggi, è affiancarsi all’intelligenza umana per individuare percorsi dotati di senso tra le grandi masse di dati: occorre quindi sviluppare un approccio culturale basato sui grandi “giacimenti di dati” esistenti, per produrre architetture informative in grado di generare nuove prospettive di lavoro, strutture istituzionali, pratiche di fruizione, spinte creative.

Un sistema estremamente complesso, sempre più basato non sulle singole macchine ma sul cloud, che ottimizza le potenzialità della rete: un aumento di complessità che tuttavia offre indiscutibili vantaggi di economia e interoperabilità, e garantisce lo sviluppo di automazione e interattività, due caratteristiche peculiari della Cultura Digitale rispetto alle culture precedenti.

Un nuovo concetto di spazio

Il digitale dipende sempre meno dalle postazioni fisse, come il desktop computer, che ne hanno caratterizzato e condizionato la nascita e la prima diffusione, mentre acquista sempre maggiore mobilità, prima con i laptop e poi con gli smartphone, che a loro volta hanno subito un’importante mutazione: da strumenti di comunicazione interpersonale a terminali mediatici.

Un cambio di tecnologia e di abitudini che incide profondamente sul concetto stesso di spazio: secondo il sociologo Manuel Castells (2006), con l’avvento del digitale accanto allo spazio dei luoghi, ovvero lo spazio fisico caratterizzato da rapporti interpersonali di vicinanza e presenza, si assiste all’avvento dello spazio dei flussi, ovvero il contesto virtuale di rete dove le relazioni interpersonali avvengono in assenza e a distanza.

Un fenomeno accelerato, e quindi messo in evidenza, dalle restrizioni imposte dalla pandemia: in ambito amministrativo, molte pratiche burocratiche vengono eseguite non allo sportello fisico ma online; in ambito sanitario, i medici di base hanno moltiplicato l’uso delle ricette elettroniche, riducendo sostanzialmente gli spostamenti fisici dei pazienti; in ambito commerciale, le vendite online hanno validamente sostituito l’accesso i negozi; in ambito culturale, musei e gallerie hanno attivato le visite virtuali ovviando alla chiusura degli ambienti fisici.

Non si tratta solo di “migliorie”, o della semplice comodità offerta dal digitale: si tratta di un vero e proprio cambio di paradigma mentale e comportamentale, il paradigma mobile-locative basato sulla mobilità e sulla geolocalizzazione dei servizi, dove il cittadino ha preso coscienza di vivere in uno spazio complesso, certamente ancora fisico, ma soprattutto “mediato”, attraversato cioè da infiniti flussi di informazione.

E questo vale sia sul piano individuale sia su quello collettivo. Oggi, anche le città in cui viviamo sono digitalizzate: si tratta di una “mediatizzazione profonda”, basata sulle reti di sensori di rilevamento, sulla infrastruttura dell’IoT, sull’ubiquitous computing, sulla raccolta sistematica dei big data e sulla loro gestione mediante gli algoritmi di AI.

L’ambiente urbano si configura quindi come struttura complessa, articolata in diversi livelli codificati ed interagenti fra loro, dove la digitalizzazione dei dati è ormai la condizione tecnico-scientifica indispensabile su cui si basa tanto la pianificazione urbanistica quanto la gestione dei servizi della pubblica amministrazione: è la “smart city”, o, per citare ancora Castells, la “città globale”, intesa come infrastruttura che connette gli spazi fisici, tecnologici, emozionali e culturali in cui le persone si riconoscono come cittadini del mondo, reale e virtuale.

L’estensione della cultura digitale

La complessità della Cultura Digitale risulta evidente dall’estensione del campo su cui si applica: salvo poche eccezioni, qualsiasi attività umana richiede oggi una profonda consapevolezza dell’impatto esercitato dal digitale (Miller 2020), e soprattutto del fatto che le diverse attività sono in qualche modo interconnesse. Senza avere la pretesa di stilare una mappa esaustiva, che andrebbe costantemente aggiornata, vediamo quali sono i settori in cui maggiormente incidono i processi di innovazione e trasformazione digitale:

– Settore legislativo-normativo: in primo piano, le problematiche legate alla privacy e alla raccolta dei dati sensibili, sia nelle attività online degli utenti, con conseguente loro profilazione, sia a causa della diffusione dei sistemi di telesorveglianza e riconoscimento facciale; rilevante è anche la questione del copyright, mentre resta sullo sfondo il problema del cybervoto, con tutte le problematiche legate alla cybersecurity;

– Settore bancario finanziario: oltre alle applicazioni di online banking, che hanno impattato potentemente sulle abitudini delle persone, il settore sviluppa in maniera massiva il deep learning e l’applicazione dell’AI all’analisi predittiva dei dati; prospettive interessanti sono aperte dalla blockchain in termini di decentralizzazione, disintermediazione, tracciabilità dei trasferimenti, trasparenza/verificabilità; sullo sfondo, le problematiche della virtualizzazione e della weightless economy;

– Settore produttivo industriale: il digitale guida da sempre i processi di automazione e gestione delle tempistiche produttive; sul piano gestionale, va segnalato il diffondersi della network enterprise, che delocalizza e razionalizza le strutture organizzative, facilitando i processi di globalizzazione; complessivamente è l’etichetta di “industria 4.0” che ben rappresenta l’estensione della digitalizzazione a tutti i livelli (formazione del personale, gestione degli ambienti di lavoro, progettazione, produzione);

– Settore commerciale: uno dei settori in cui l’uso del digitale, attraverso gli acquisti di merci e servizi online, ha inciso maggiormente sulla mentalità e sulle abitudini degli utenti, oltre che naturalmente sulla organizzazione e sulla logistica delle aziende venditrici, mettendo in moto processi di disintermediazione che mettono alla prova la tenuta (o la sopravvivenza) dei sistemi di distribuzione e vendita pre-digitali;

– Settore amministrativo: la digitalizzazione dei sistemi amministrativi, e in particolare della PA, rappresenta una delle sfide più importanti per la società civile, per il grande impatto che può avere nella vita delle persone, ma anche per l’efficientamento e semplificazione di un apparato spesso eccessivamente burocratizzato; un segnale positivo in questo senso, sotto la spinta della pandemia, viene dall’aumento esponenziale di cittadini che hanno attivato l’Identità Digitale (SPID), hanno scaricato l’app IO per fruire del cashback, hanno usato il sistema di pagamenti pubblici PagoPA;

– Settore sanitario: un traguardo da raggiungere in questo ambito è certamente la diffusione generalizzata del Fascicolo Sanitario Elettronico, lo strumento con cui è possibile ricostruire tutta la vita sanitaria del cittadino, uno strumento attivato già nel 2012 ma ancora in forte ritardo in molte regioni italiane; uno strumento che consentirebbe di interfacciarsi con l’innovazione digitale che già caratterizza il sistema farmaceutico, quello ospedaliero, e le varie applicazioni per la gestione dell’healthcare, in particolare dei pazienti anziani;

– Settore politico e di cittadinanza: oltre al problema delle fake news, sempre esistite, lo scenario della partecipazione politica viene fortemente modificato dalla diffusione delle reti sociali, incidendo sulla definizione e gestione della leadership, sulle modalità del dibattito ideologico (vedi il fenomeno degli hater), sullo sviluppo stesso di nuovi raggruppamenti, ad esempio i movimenti populisti da una parte, le iniziative di hacktivism dall’altra;

– Settore dell’arte, dell’intrattenimento e dei media: nel campo dell’arte. è importante la diffusione delle visite virtuali, che modificano le politiche tradizionali di fiere, musei e gallerie, oltre a sviluppare interi nuovi settori artistici basati su interattività, spettacolarizzazione, intelligenza artificiale; nel campo dell’intrattenimento è ormai assestato il dominio dei videogiochi, che oltre a rappresentare il segmento di consumo più rilevante in termini quantitativi, impatta anche sulla struttura narrativa dei media tradizionali; in campo editoriale, il digitale incide in primo luogo sulla dematerializzazione, erodendo progressivamente la quota dei prodotti cartacei, in secondo luogo attiva tutta una serie di “nuove testualità” (ipertestuali, multimediali, crossmediali, transmediali, interattive) decisive nella costruzione della Cultura Digitale;

– Settore dei rapporti interpersonali: qui si è imposto il dominio dei social network, che hanno ridisegnato le mappe della vicinanza/lontananza e quindi della parentela, dell’amicizia, delle relazioni di lavoro; a livello più profondo, hanno inciso sulla definizione dell’identità stessa delle persone, attraverso forme apparentemente banali come i selfie, o come la costruzione degli avatar, ma anche con lo sviluppo dei blog e delle pagine web personali. che obbligano a ripensare il proprio posizionamento nel delicato rapporto fra pubblico e privato.

Riconoscere e accettare la complessità: la sfida della cultura digitale

La Cultura Digitale è saper riconoscere e accettare la complessità: non solo conoscere i vari elementi che la compongono ma anche, e soprattutto, riconoscere le connessioni tra questi elementi.

Ogni settore è connesso agli altri: il marketing online attraverso la profilazione degli utenti si deve misurare con le problematiche legali di tutela della privacy; la libertà di espressione dei social network è connessa con il problema delle fakenews e con le nuove aggregazioni politiche; la facilità di duplicazione dei testi editoriali si scontra con i problemi di ridefinizione del copyright in ambito digitale e così via.

Nella Cultura Digitale, va riconosciuto il diverso ruolo della tecnologia. Le culture precedenti erano a bassa tecnologia: scrivere un libro, dipingere un quadro, progettare un format televisivo erano attività che non richiedevano competenze tecnologiche particolari, anzi, erano nettamente separate dal lavoro dei “tecnici” come poligrafici, tecnici del suono e delle luci, macchinisti,  che svolgevano compiti esclusivamente esecutivi. Nella Cultura Digitale ideazione e tecnologia sono molto più interconnesse: un architetto, un progettista di videogiochi, un responsabile di sistemi amministrativi affiderà certamente alcuni pezzi del suo lavoro a singoli specialisti digitali, ma fondamentalmente nella sua visione “culturale” tecnologia e progettualità sono strettamente connesse.

Infine, la complessità della Cultura Digitale emerge dal suo carattere ibrido e trasversale. Alvin Toffler (1980) ha coniato il termine “prosumer” per indicare la nascita di una nuova figura ibrida, il produttore-consumatore, tipico abitante della rete; da allora non si contano le etichette che replicano questa mescolanza: infotainment, videogame, wreader, spettattore.

Il mondo della Cultura Industriale era un mondo gerarchico, dalle articolazioni ben definite, strutturato in base alle filiere produttive: cinema, discografia, manifattura, editoria, logistica, distribuzione, con identità, finalità, procedure ben differenziate tra loro. Il mondo della Cultura Digitale ha fatto saltare, almeno in parte, queste distinzioni: si pensi ad Amazon, che da venditore di libri diventa venditore di qualsiasi merce, impianta un sistema digitale innovativo di logistica e distribuzione e infine diventa produttore di spettacoli televisivi e cinematografici; o ad Apple, che dalla produzione di software e hardware diventa un fornitore di immaginario, di modelli di estetica e di vita.

Proprio per la sua trasversalità, per la sua onnipresenza, per il fatto di essere ormai un vero e proprio ecosistema pervasivo, il digitale va riconosciuto e capito in tutta la sua complessità: è questa la sfida che ci impone la Cultura Digitale.

Giulio Lughi (www.giuliolughi.it) è stato professore di Media Digitali nell’Università e nel Politecnico di Torino, Visiting Scholar alla Brown University di Providence (RI), ha svolto ruoli gestionali e organizzativi istituzionali nell’ambito del digitale, fa parte di comitati scientifico-editoriali di varie riviste specialistiche. Fin dagli anni ’90 pubblica articoli e volumi sull’impatto del digitale in ambito umanistico, su cultura e tecnologia, strutture dell’immaginario, creatività digitale, interattività, storytelling, ed è stato consulente editoriale, autore, traduttore, editor nel campo della narrativa.

Articolo pubblicato su Agenda Digitale il 05 Aprile 2021

Bibliografia

Castells M. (1996), “The Rise of the Network Society”, Blackwell, Oxford. 430

Lughi G. (2006), “Cultura dei nuovi media: teorie, strumenti, immaginario”, Guerini, Milano. https://www.academia.edu/39664510/Cultura_dei_nuovi_media_teorie_strumenti_immaginario

Lughi G. (2016), “Competenze e culture digitali”, in “Agenda Digitale”, 2 maggio.

Manovich L. (2013), p. 110), “Software Takes Command”, Bloomsbury, New York (NY). https://issuu.com/bloomsburypublishing/docs/9781623566722_web

Miller V. (2020), “Understanding Digital Culture”, SAGE, London.

Toffler A. (1980), “The third wave”, Bantam, London.