a cura di Elisabetta Betty L’Innocente
Abstract
Le jeu est phénomène total. Il intéresse l’ensemble des activités et des ambitions humaines.
Aussi est-il bien peu de disciplines – de la pédagogie aux mathématiques en passant par l’histoire et la sociologie – qui ne puissent pas l’étudier fructueusement par quelque biais. Cependant, quelle que soit la valeur théorique ou pratique des résultats obtenus dans chaque perspective particulière, ces résultats resteraient privés de leur signification et de Îeur portée véritable, s’ils n’étaient pas lus par référence au problème central que pose l’univers indivisible des jeux, d’où ils tirent d’abord l’intérêt qu’ils peuvent présenter. Roger Caillois, Les jeux et les hommes (Le masque et le vertige) Gallimard rue Sébastien-Bottin, Paris VII5° édition, 1948 pag. 251
Sono Francesco Toniolo. Sono un docente universitario e mi occupo di videogiochi.
Dopo un simile esordio, ci si aspetterebbe una di quelle storie di bambini nati “col joystick in mano”, che fin da piccolissimi giocavano ai videogiochi.
Devo deludervi.
Ho iniziato a giocare ai videogiochi relativamente tardi, rispetto a tanti miei coetanei. Avevo otto anni, credo.
Prima che arrivassero i videogiochi nella mia vita ero un amante dei libri. E da quando sono arrivati i videogiochi… lo sono anche di più.
Anche qui potrei avervi stupiti. Io amo leggere. Mediamente, in un anno, leggo circa 200 libri. In larga parte di saggistica, ma in questo numero ci sono anche un po’ di romanzi, ovviamente. Aggiungo anche che non conteggio i fumetti. Se inserissi anche i manga – di cui sono un grande appassionato – nel conteggio supereremmo con molta tranquillità la soglia dei 300.
Però amo anche i videogiochi. Li amo proprio in quanto lettore e amante dei classici. Così come amo i libri proprio perché sono un videogiocatore. Per me le due cose sono sempre andate di pari passo. Semplicemente si sono alternate come “lavoro” e “passione” nella mia vita.
Quando studiavo lettere moderne all’università, infatti, mi immaginavo un futuro come docente in qualche liceo. Con i videogiochi come passatempo. Poi, con il dottorato di ricerca, ho ribaltato il tavolo e il mio “lavoro” sono diventati proprio i videogiochi.
Ultimamente sono sempre più interessato a tenere insieme queste due anime. Ho scritto alcuni contributi sulla letteratura e i videogiochi. Ogni tanto ne parlo anche nei miei video su YouTube, o negli incontri con le scuole.
Ma soprattutto ho scritto un libro per me piuttosto importante. Il suo titolo è Scopri i videogiochi con i Promessi sposi (e viceversa).
Suscita sempre molta curiosità. Anche perché non ci sono videogiochi dedicati ai Promessi sposi. Nulla di lontanamente significativo, perlomeno.
In questo libro, però, ho fatto qualcosa di diverso. Ho preso diversi passi dei Promessi sposi – uno dei miei libri preferiti, per inciso – e li ho utilizzati per spiegare le meccaniche dei videogiochi.
Anche questo è un capovolgimento di prospettiva. Finora, infatti, quando si è pensato al binomio letteratura/videogiochi lo si è sempre fatto usando i secondi per cercare di attirare l’interesse verso la prima. Con la speranza che studenti e studentesse, attraverso il videogioco, possano riavvicinarsi ai classici.
Sono delle operazioni talvolta interessanti, talvolta meno. A volte ‘funzionano’ piuttosto bene, in altri casi per nulla. In ogni caso, però, vanno sempre nella stessa direzione. Io ho voluto fare il contrario.
Prendo questa mia iniziativa personale come uno spunto per una riflessione più ampia.
Sebbene io sia convinto non solo della bontà, ma anche dell’utilità del medium videoludico, quest’ultimo non è certo la panacea che risolverà i problemi dell’insegnamento. L’impiego didattico e formativo dei videogiochi ha una sua tradizione ormai lunga e si presta molto bene in certi contesti, ma ha anche dei limiti, soprattutto in certi casi.
Non farò una casistica completa, ma può capitare un po’ di tutto: videogiochi con finalità educative che sono estremamente noiosi; videogiochi ‘commerciali’ che risultano essere poco adatti come esempi; difficoltà nel far giocare i videogiochi (immaginate proporre come attività di giocare un gioco di ruolo dalla durata media di 70-90 ore…); difficoltà nel reperire quel particolare videogioco che magari era molto interessante ma si trovava solo su quella vecchia console non più in commercio…
Insomma, man mano dovranno emergere nuove sinergie educative, soprattutto rispetto alla letteratura. Per esempio, ove c’è la possibilità, può essere molto più istruttivo realizzare da zero un piccolo videogioco, piuttosto che usarne uno in commercio come esempio.
Sono anche un po’ dubbioso riguardo a certe forme di gamification applicate alla didattica. Ricordo, per chi non lo sapesse, che il termine gamification non riguarda i videogiochi educativi o cose del genere. Indica, piuttosto, tutte quelle situazioni in cui delle meccaniche di gioco vengono applicate in contesti non ludici. È una precisazione doverosa che mi sento di fare, perché in tantissime occasioni vedo che c’è ancora chi mescola queste cose tra loro.
Vorrei chiudere con un ricordo. Qualche anno fa ebbi l’onore di partecipare a un TEDx. Mi avevano invitato per dare una risposta a un interrogativo: “i videogiochi sono cultura?”.
È un bel concetto, perché possiamo declinarlo in tanti modi differenti. Sicuramente si può considerare il videogioco come un prodotto culturale al fianco di tanti altri, in quel calderone della “cultura pop”, e penso che su questo punto nessuno avrebbe nulla da dire.
Allo stesso modo, nessuno si stupirebbe nel parlare di game culture, del fatto che il videogioco abbia una sua cultura specifica.
Quando emergono simili interrogativi, però, di solito so cosa c’è davvero sotto: il videogioco può essere cultura alta? La vera domanda è questa qui. E mi capitò anche di sentirla per davvero, in più occasioni. Una volta venne formulata da un giornalista, durante l’inaugurazione di una gaming zone in una biblioteca. Forse gli sembrava un peccato che quel ‘tempio’ della cultura libresca venisse aggredito dai rozzi videogiochi.
Per me letteratura e videogiochi hanno la stessa bellezza, per cui non mi pongo il problema. Rientreranno nella “cultura alta” quando qualcuno deciderà di etichettarli in quel modo. È accaduto con il cinema e sta accadendo con i fumetti, pur con qualche resistenza.
Ciò che interessa a me, semmai, è che giocare ai videogiochi mi aiuta ad apprezzare meglio certi libri. E viceversa.
Rigettare il medium videoludico nel suo insieme sulla base di un paio di videogiochi che si sono intravisti sarebbe come rigettare tutta la letteratura perché ci si è imbattuti in un brutto romanzo, magari ben sponsorizzato.
Chiunque lettore o lettrice vi saprebbe ovviamente dire che c’è molto di più, e non avrebbe nemmeno bisogno di doversi giustificare in tal senso. Anche con i videogiochi c’è molto di più.
Da parte mia posso solo consigliare di leggere un libro – uno che sia nelle nostre corde – a chi ama i videogiochi. E di provare un videogioco – anche qui, uno nelle nostre corde – a chi ama i libri.
Ovviamente ci sono delle differenze, ma la sfida sta proprio qui. Dei videogiochi, per esempio, apprezzo moltissimo la gestione degli spazi.
È bello immaginare un paesaggio nella propria mente, partendo dalla descrizione presente in un libro, ma è anche affascinante poter esplorare uno spazio videoludico, intervenire su di esso, muoversi liberamente al suo interno, scoprirne i confini.
Il desiderio di avventura torna ad affacciarsi grazie a certi videogiochi, soprattutto quelli che sono definiti open world, in cui poter esplorare più o meno liberamente un ampio mondo, dandosi i propri tempi e i propri ritmi.
Se, oggi, le mappe del nostro mondo rivelano tutto, non nascondono più alcun segreto, negli spazi videoludici si cela quella meraviglia della scoperta, quel desiderio di esplorare nuovi territori, che ha ispirato un’ampia casistica di produzioni letterarie. Penso a Cuore di tenebra, per fare giusto un esempio, quando il suo narratore racconta della giovanile passione per le mappe che aveva sviluppato, col suo desiderio di poter un giorno esplorare quelle aree ancora vuote sul mappamondo.
Prima o poi, anche nei videogiochi, si arriverà comunque a un confine, certo. Come Alessandro Magno in Alexandros di Pascoli, giunto al limite estremo del mondo, dinnanzi all’oceano. I mondi videoludici vivono all’interno di questa tensione, tra il desiderio di buttarsi continuamente a capofitto nella loro esplorazione, passo dopo passo, e il languore che subentra nel momento in cui si è visto tutto, quando la mappa non ha altri segreti da rivelarci.
A differenza delle conquiste di Alessandro Magno, però, avremo sempre un altro videogioco da poter avviare e vivere. In un ciclo idealmente infinito di avventure videoludiche.