La disinformazione online: cosa è cambiato rispetto al passato

Di Antonina Giordano, Professoressa Scienze forensi Università Siena

Si possono citare esempi più o meno conosciuti (nonché più o meno recenti) di “bufale” che hanno in qualche modo influenzato le credenze e le azioni umane nel corso della storia[1]. Un caso celebre è la (falsa) Donazione di Costantino: un documento con il quale, nel 313 d.C., l’imperatore Costantino avrebbe donato a papa Silvestro I (e, quindi, alla Chiesa romana) parte del suo impero. In realtà, nel 1440 l’umanista e filologo Lorenzo Valla dimostrò la non autenticità di quel documento, che era stato utile alla Chiesa Cattolica per legittimare il suo potere temporale.

Ai primi del Novecento, invece, risale un altro famoso documento, conosciuto come il Protocollo dei savi di Sion, creato ad arte dalla polizia zarista per alimentare l’antisemitismo. Il Protocollo, infatti, doveva testimoniare l’esistenza di una cospirazione di matrice ebraica che aveva come obiettivo quello di sovvertire l’ordine mondiale. In realtà, si scoprì che il documento altro non fosse che il riadattamento di un libello del 1864 contro Napoleone III; tuttavia, l’intento propagandistico del testo ha avuto successo e ancora oggi è possibile riscontrare diverse analogie tra quanto sostenuto nel Protocollo e alcune teorie cospirazioniste contemporanee.

Un altro esempio interessante (e divertente) risale al primo aprile del 1957, quando la BBC mandò in onda un finto documentario sulla raccolta degli spaghetti, presentati come il frutto di un particolare albero (perfetto anche per la coltivazione domestica)[2]. Si trattava di un pesce d’aprile, ma le reazioni dei telespettatori furono – forse – inaspettate. Infatti, rapidamente si moltiplicarono le telefonate dei telespettatori ai centralini della BBC, in parte per chiedere conferma che si trattasse di uno scherzo, in parte per ottenere maggiori informazioni sulla coltivazione domestica dell’albero degli spaghetti.

Sebbene la diffusione di notizie parziali, fuorvianti o completamente inventate non rappresenti una novità dei nostri giorni (basti pensare, ad esempio, ai miti popolari e alle leggende metropolitane), l’ecosistema dei social network ha trasformato quella che potremmo definire una naturale pratica umana in un potenziale pericolo per il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche. L’interconnessione digitale, infatti, ha amplificato la portata di un fenomeno che, nel contesto delle interazioni umane, è sempre esistito. Per non fare confusione, è doverosa una precisazione semantica tra fake news, disinformazione e misinformazione: mentre il termine fake news (che si potrebbe tradurre come ‘notizie false’) si riferisce a «informazioni false, spesso sensazionali, diffuse sotto l’apparenza di notizie»[3], la disinformazione presuppone un’intenzione malevola nella fabbricazione e diffusione di tali informazioni, che in quest’ottica non sono mai frutto di un errore umano casuale. L’intenzione manipolatoria è invece assente quando parliamo di misinformazione: in quest’ultimo caso, le notizie false, incomplete o fuorvianti sono fabbricate e pubblicate per colpa di una svista (a sua volta dovuta a disattenzione, fretta, mancanza di attenta verifica delle fonti).

Il problema della crescente (e apparentemente inarrestabile) diffusione della disinformazione online è al centro di numerosi studi di psicologia e di sociologia, soprattutto dal 2016, anno in cui il lemma post-truth è stato eletto parola dell’anno dall’Oxford Dictionary, per designare «circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto agli appelli alle emozioni e alle convinzioni personali».[4] Un anno dopo, nel 2017, il Collins Dictionary indica “fake news” come parola dell’anno, dato l’aumento del 365% del suo utilizzo nel Corpus Collins della lingua inglese[5]. Non a caso, nel 2016 si sono svolte due importanti consultazioni elettorali: le presidenziali statunitensi e il referendum sulla «Brexit», che ha determinato l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. In entrambi i casi, la propaganda elettorale è stata caratterizzata da un inquinamento dei flussi informativi, con veri e propri eserciti di hacker e troll informatici che lavoravano senza sosta per aumentare la già importante polarizzazione tra gli schieramenti in campo. A complicare questo scenario, nel dibattito pubblico si parla sempre più spesso di fake news e di disinformazione per attaccare l’oppositore politico o i media mainstream lontani dalla propria fazione politica: anche in questo modo si alimenta la polarizzazione e, al tempo stesso, si favorisce un generale sentimento di sfiducia nei confronti dei media [6].

Le piattaforme social

I social network sono una nuova e particolare tipologia di mezzo di comunicazione di massa, che differisce, rispetto agli altri mass-media, innanzitutto per la sua votazione alla disintermediazione. I flussi informativi che permeano la rete sono spesso generati dagli utenti stessi, i quali il più delle volte non sono né editori, né giornalisti, né divulgatori di professione a vario titolo; i contenuti condivisi dall’utente medio potrebbero viaggiare alla stessa velocità delle notizie diffuse dai media tradizionali (mainstream). A complicare il quadro, uno studio condotto sulle condivisioni di fake news su Twitter ha mostrato come queste vengano retwittate più rapidamente delle notizie ufficiali[7]. Internet, infatti, ha rivoluzionato il modo di fare informazione, innanzitutto perché ha permesso a chiunque fosse provvisto di un dispositivo connesso alla rete di avere libero accesso a tutti i contenuti online; non solo, l’assenza di barriere all’ingresso permette anche di pubblicare, in maniera autonoma, i propri contenuti e renderli quindi immediatamente disponibili a tutti gli internauti da ogni parte del mondo.

Tutti possono partecipare, pertanto, al grande dibattito pubblico che prima di Internet si svolgeva in luoghi diversi, più a misura d’uomo. Il tipo di comunicazione promosso dalla rete non è quindi il tradizionale top-down (o one-to-many): per avere una certa influenza online non è necessario essere in possesso di alcun titolo, né di alcuna competenza particolare. Questo panorama evoca un potenziale trionfo della Democrazia, perché ognuno può dire la propria e non ci sono accessi privilegiati; grazie a Internet (ma soprattutto ai social network) l’individuo smette di subire l’informazione e partecipa attivamente al dibattito che quella informazione ha generato, facendo sentire la propria voce, dando risonanza mediatica alle posizioni che condivide e, in definitiva, interagendo con gli stessi professionisti dell’informazione, della politica, della medicina e così via.

Sono evidenti le potenzialità del World Wide Web, ma crescenti sono anche le preoccupazioni connesse a questa disintermediazione diffusa che domina il web, perché un’istituzione democratica dovrebbe innanzitutto fondarsi su una corretta informazione. Il popolo, sovrano, di fatto non può compiere una scelta consapevole, se questa è influenzata da menzogne e manipolazioni. È per questo motivo che i media tradizionali (radio, televisione e giornalismo in generale), sebbene operino in un regime di indipendenza rispetto al potere politico, sono soggetti a una serie di obblighi deontologici affinché le notizie che diffondono siano complete, accurate, affidabili e (entro un certo limite) imparziali. A questo rigore non è soggetto il libero cittadino, che autonomamente può contribuire al successo del cosiddetto citizen journalism. Treccani dà la seguente definizione per questa espressione: «Giornalismo partecipativo, nel quale i cittadini diventano in vari modi soggetti e non solo fruitori della notizia. Questa partecipazione ‘dal basso’ può avere vari livelli, dal commento a notizie già scritte alla ricerca di esse»; i nuovi mezzi di comunicazione messi a disposizione da Internet, come Twitter e Facebook, consentono – continua la Treccani – «anche a chi non fa parte del sistema dei media di comunicare con tutto il mondo»[8].

Un aspetto centrale della comunicazione online riguarda l’impossibilità di controllare il contenuto delle notizie prima che queste vengano diffuse. Inoltre, spetta all’utente-fruitore il compito di valutare la fonte e la credibilità delle informazioni nelle quali si imbatte; come se non bastasse, queste ultime possono facilmente ricalcare il format e la grafica utilizzate dalle fonti di informazione tradizionali (anch’esse presenti in rete e sui social network).

Questa compresenza di fonti tradizionali e fonti alternative in un ecosistema – come quello dei

social media – che ha ben poche risorse per il controllo dell’autenticità e affidabilità dei contenuti condivisi alimenta da tempo preoccupazioni sulla diffusione sistematica di disinformazione politica (e non solo, come abbiamo osservato, ad esempio, nel corso della pandemia da Sars-CoV-2), finalizzata a esasperare la polarizzazione. Infatti, nel 2013 (quindi tre anni prima delle presidenziali statunitensi del 2016 e del referendum sulla Brexit), il World Economic Forum nell’ottava edizione del Global Risks Report metteva in guardia sui pericoli legati a una «massiccia misinformazione digitale»[9]. All’interno del rapporto, il capitolo intitolato «Digital Wildfires in a Hyperconnected World» si apre con il racconto di un aneddoto risalente al 1938, quando i radioascoltatori statunitensi scambiarono un adattamento della Guerra dei Mondi di H. G. Wells per un vero radiogiornale: il risultato non fu molto diverso da quanto accaduto nel 1958 per lo scherzo della BBC sugli alberi da spaghetto, e migliaia di statunitensi telefonarono alle centrali di polizia, convinti che fosse in corso una invasione aliena. Secondo quanto sostenuto nel report del WEF, Internet è un medium relativamente giovane, come lo era la radio nel lontano 1938; non sarebbe pertanto inverosimile oggi – continua il rapporto – che un tweet, un blog o un video possano generare un simile panico collettivo.

I pericoli legati a una società iperconnessa in un territorio ancora giovane e inesplorato come quello di Internet e dei social media vanno dal terrorismo agli attacchi informatici, fino al «fallimento della governance globale»[10]. A giustificare questi timori è la velocità di diffusione delle informazioni attraverso i social network. Di fatto, il più delle volte le fake news vengono smascherate rapidamente, ma ciò non basta per spezzare la loro catena di propagazione. La situazione si complica quando i media tradizionali, per non lasciarsi sfuggire un possibile scoop, rilanciano la notizia falsa senza aver prima verificato la sua attendibilità. Quando ciò avviene, gli effetti sono imprevedibili. La rabbia, l’indignazione e il panico collettivo che una fake news può suscitare hanno effetti diretti, ad esempio, sui mercati, sulla salute e sull’opinione pubblica.

La tendenza dei media mainstream a diffondere notizie dell’ultimo minuto, sebbene non verificate e provenienti da fonti non affidabili, dipende dal fatto che Internet, i social media e gli smartphone perennemente connessi alla rete hanno cambiato anche i tempi e le modalità di fruizione dell’informazione. I giornali online si finanziano in larga parte con la pubblicità, per cui maggiori visualizzazioni equivalgono a maggiori introiti. Come diretta conseguenza, le notizie devono essere presentate in maniera accattivante, per attirare l’attenzione dell’utente, e soprattutto esse vanno pubblicate il prima possibile. Quindi, per ottenere un buon numero di visualizzazioni, il contenuto della notizia ha meno peso del titolo (una vera e propria “esca digitale”, spesso costruita ad arte per suscitare emozioni forti, incredulità, curiosità) ed è fondamentale arrivare prima degli altri, perché attraverso i social le informazioni si propagano velocemente e in poco tempo raggiungono un bacino molto ampio di utenti. Questa dinamica fa sì che anche i professionisti dell’informazione finiscano sovente per alimentare la misinformazione, contribuendo inoltre a rafforzare la crescente sfiducia nei confronti di tutto ciò che è istituzionale e istituzionalizzato.

Nel capitolo «Western Democracy in Crisis?», contenuto nella dodicesima edizione del Global Risks Report del WEF, Walter Quattrociocchi afferma che sui social media le notizie di informazione seguono le stesse dinamiche di altri contenuti più frivoli, come i selfie: è il contenuto più popolare a diffondersi[11]. Gli algoritmi che governano i social network, infatti, fanno sì che i contenuti che ricevono il maggior numero di interazioni (like, commenti, condivisioni) siano più virali degli altri, per una ragione fondamentalmente economica: più riesco a trattenere un utente sul mio social network, maggiori saranno i miei introiti pubblicitari. Un altro aspetto cruciale degli algoritmi utilizzati è che questi sono studiati appositamente per offrire all’utente una fruizione il più personalizzata possibile. Ogni volta che navighiamo in rete, lasciamo delle tracce che istruiscono gli algoritmi sulle nostre preferenze, su ciò che ci interessa. Anche in questo caso, l’obiettivo è quello di guadagnare assicurando agli inserzionisti pubblicitari un target preciso di possibili consumatori, ai quali proporre ciclicamente prodotti in linea con le loro ricerche online e con i loro gusti. Tuttavia, la profilazione dell’utente online ha ripercussioni anche sul tipo di contenuti che visualizzerà sulla newsfeed della propria pagina social: anche le notizie saranno quindi personalizzate e filtrate, permettendo a ogni utente di visualizzare solo ciò che gli interessa. Questo si traduce in un mondo filtrato, dove si ascoltano solo le voci con le quali si è in accordo e si frequentano utenti, gruppi e personaggi famosi che condividono la stessa visione del mondo.

Nell’era digitale in cui viviamo, le fonti informative sono disponibili e accessibili in qualsiasi momento, a portata di click. Tuttavia, anche la misinformazione permea il web, perché chiunque può pubblicare in Internet: non vi sono barriere all’ingresso, non sono richieste competenze specifiche e non vi è alcun controllo sulle buone o cattive intenzioni dell’autore. In questo “far west digitale”, dove scienza e teorie del complotto convivono pacificamente, vale la regola del “chi cerca trova”: se interroghiamo un motore di ricerca – come Google – sull’allunaggio dell’Apollo 11, troveremo una cronaca dettagliata di quei giorni del 1969; allo stesso tempo, però, lo stesso motore di ricerca ci mette a disposizione una altrettanto dettagliata cronaca delle varie teorie del complotto che da anni circolano sullo stesso argomento. Un utente particolarmente ingenuo, ad esempio, potrebbe anche lasciarsi ingannare dai contenuti mainstream che intendono fare debunking. Infatti, digitando su Google la domanda «l’uomo è mai andato sulla Luna?», tra i primi risultati ho trovato un articolo del Sole 24 Ore, intitolato così: «La vera storia del finto sbarco sulla Luna»[12]. Un titolo che può essere frainteso, soprattutto da utenti che sono già prevenuti riguardo a un determinato argomento, magari perché precedentemente influenzati (e disinformati) da amici e conoscenti sul tema in questione.


[1]  F. Paglieri, La disinformazione felice. Cosa ci insegnano le bufale, Il Mulino, Bologna, 2020 

[2] BBC News, On this Day 1950-2005: http://news.bbc.co.uk/onthisday/hi/dates/stories/april/1/newsid_2819000/2819261.stm 

[3] Collins-Dictionary, Collins 2017 word of the year shortlist, pubblicato online il 2 novembre 2019: www.collinsdictionary.com/word-lovers-blog/new/collins-2017-word-of-the-year-shortlist,396,HCB.html 

[4] Oxford-Dictionary, Word of the year 2016. Disponibile online:

https://languages.oup.com/word-of-the-year/word-of-the-year-2016##targetText=After%20much%20discussion%2C%20debate%2C%20and,to%20emotion%20and%20personal%20belief

[5] Collins-Dictionary, 2017, op. cit.  

[6] J.R. Axt et al, Fake News Attributions as a Source of Nonspecific Structure. In R. Greifeneder, M.E. Jaffé, E.J. Newman, N. Schwarz (Eds.), The Psychology of Fake News: Accepting, Sharing and Correcting Misinformation, Routledge/Taylor & Francis Group, 2021, pp. 220-234. Sulla fiducia nei confronti dei mass media: A. Swift, Americans’ Trust in Mass Media Sinks to New Low, 2016, pubblicato in: https://news.gallup.com/poll/195542/americans-trust-mass-media-sinks-new-low.aspx 

[7] S. Vosoughi, D. Roy, S. Aral, The Spread of True and False News Online, in «Science», 359, 2018, pp. 1145-1151. 

[8] Treccani, «citizen journalism» in Lessico del XXI secolo (2012): https://www.treccani.it/enciclopedia/citizen-journalism_(Lessico-del-XXI-Secolo)/ 

[9] World Economic Forum, Digital Wildfires in a Hyperconnected World, in «Global Risks 2013», p. 21: https://www3.weforum.org/docs/WEF_GlobalRisks_Report_2013.pdf 

[10] Ibidem 

[11] World Economic Forum, Social Media and the Distortion of Information, in «Global Risks 2017», p. 25: https://www3.weforum.org/docs/GRR17_Report_web.pdf 

[12] G. Mazzuca, La vera storia del finto sbarco sulla Luna, 2019. Disponibile online: https://www.ilsole24ore.com/art/la-vera-storia-finto-sbarco-luna-ACdregY