La Moda nel segno del tempo

Di Loredana Cacace, Unimercatorum

Ogni periodo della nostra Storia ha l’abbigliamento peculiare che ne racconta dettagli e retroscena, talvolta inediti.

L’abbigliamento può essere definito come la chiave attraverso cui l’ornamento è essenziale. L’indumento, o il semplice decoro sulla pelle, diventa uno strumento utile all’individuazione della sua collocazione storica e sociale.

Per dirla con il saggista Roland Barthes, “[…] la Moda non si evolve, cambia” […]. (R.Barthes, Sistema della Moda, Einaudi Editore, Torino, 1991).

I cambiamenti della Moda sono espressione e traccia della presenza dell’uomo e unitamente ne delineano il profilo. Il legame dell’essere umano con l’abbigliamento è dato dalla capacità univoca di trasformarsi e di adattarsi. Trattare di Moda significa esprimersi sulle radici dell’essere sociale dell’uomo in ogni sua declinazione.

La scrittrice Prudence Glynn, (P.Glynn, Pelle a Pelle,l’erotismo nell’abbigliamento, Gremese Editore Roma, 1982), indiscussa autorità nel campo della psicologia dell’abbigliamento, afferma: “[…] non appena l’uomo poté pensare ad altro che non fosse soltanto il procurarsi il cibo o l’assicurare la prosecuzione della specie, rivolse la sua attenzione ai diversi modi per diventare più attraente dei suoi simili, e gli sforzi per mutare il proprio aspetto si tradussero in disagi e mutilazioni, modificazioni aggiunte con o senza rischio della vita e della salute.”(Glynn op.cit.).

Secondo la Glynn, tutto ciò che l’umanità indossa, in particolare gli indumenti, e che va al di là dello stretto necessario che ci permette la sopravvivenza, vela e svela un preciso e simbolico messaggio anche erotico, sia per chi lo indossa sia per chi lo osserva. Philippe Perrot, sociologo, storico del costume e del quotidiano, afferma: “[…] le discussioni sull’origine del vestito ricordano quelle sull’origine del linguaggio. Stesse incognite e perplessità davanti a due fra i fenomeni più assolutamente umani: la parola e l’abito.” (P. Perrot, Il sopra e il sotto della borghesia,Longanesi Editore, Milano 1981).

Secondo lo studioso, non sono né il freddo ne la nudità ad avere indotto l’uomo a vestirsi, bensì la preoccupazione di investirsi di tutto ciò che lo avrebbe aiutato ad affermarsi e ad essere se stesso nel mondo. Per Perrot, il vestirsi diventa sostanzialmente un atto di significazione e l’abito si immette nel campo sociale come simbolo; il personale diventa sociale, un’essenza, una tradizione, una stirpe, una religione, una posizione sociale, un’appartenenza politica, un piccolo sistema di segni programmato per meglio affermare e condividere le scelte e la personalità dell’individuo. Perrot vede l’abito come un segno che porta nella propria forma, nel proprio colore, nel materiale, negli usi e nei comportamenti, le tracce e le impronte che rimangono dopo contatti, scambi fra aree culturali, regioni economiche, gruppi sociali e popoli.

Gillo Dorfles, (G.Dorfles, Mode e Modi, Mazzotta Editore, Milano,1979), critico d’arte e professore di estetica, sottolinea come particolari elementi decorativi di origine animale come penne, bargigli, piume e pellicce testimonino nell’essere umano l’esigenza di inventare, sovrapporre, mutare, in netto contrasto con le limitazioni della sua specie. Si può concludere da queste affermazioni, dice Dorfles, che l’uomo non è naturale sin dai primordi della civiltà e sente fortemente l’esigenza dell’artifizio, aggiungendo al suo corpo un quid che potrà essere, a seconda dei casi, l’abito, l’uniforme, l’ornamento, la maschera, il tatuaggio, la pittura corporea e addirittura le varie mutilazioni e deformazioni rituali utilizzate dall’umanità primitiva, e anche da quella attuale per differenziare, in qualche maniera, il proprio sé da quello degli altri e in questo modo personalizzare il proprio corpo.

Questa artificializzazione, questo bisogno umano di costruire sovrastrutture, viene realizzato e soddisfatto tramite l’abito ed i suoi ornamenti. L’esibizionismo, sia maschile sia femminile, è uno dei più importanti fattori nel campo dell’abbigliamento (e in seguito della Moda) che trasforma e provoca continue oscillazioni con conseguenti cambiamenti e mutazioni di costume e di moda.

Se partiamo dal presupposto che l’uomo come essere sociale sente la necessità di mostrare i propri averi, potremo soffermarci su ciò che la natura gli ha donato: le doti naturali e soprattutto l’aspetto, la bellezza e le presunte qualità sessuali. È dunque spiegabile l’esibizione tramite accentuazione di tali doti con ornamenti, in funzione del richiamo. Tutti gli ornamenti o decorazioni che ostentano la ricchezza equivalgono, culturalmente e simbolicamente, a sottolineare la virilità, la fecondità, il potere, la ricchezza, l’autorità. L’uomo si è da sempre ispirato a quello che lo circondava, cioè al mondo animale e vegetale, tant’è vero che le materie prime per le decorazioni e gli ornamenti vengono da esso. Dunque l’uomo, già dal suo primo vivere in comunità con gli altri non fu mai naturale. Al suo corpo aggiunse sempre qualcosa per distinguersi dagli altri e personalizzare il proprio io.

La metamorfosi del proprio corpo tramite artifizi avviene in modo spontaneo, proprio per il desiderio che spinge l’uomo ad allargare la propria conoscenza e quindi anche i limiti della sua struttura corporea. È possibile, infatti, distinguere le decorazioni fatte direttamente sul corpo come tatuaggi, cicatrici, mutilazioni o perforazioni, e le decorazioni applicate usando erbe, fiori, foglie, ossa e conchiglie, legno, piume e pelli.

Secondo Flugel, (J.C.Flugel, Psicologia dell’abbigliamento,Franco Angeli Editore, Milano, 1982), le decorazioni esterne sono: le decorazioni verticali per aumentare l’altezza, le dimensioni per aumentare la taglia, le decorazioni direzionali che sottolineano i movimenti del corpo, le decorazioni locali per evidenziare una determinata parte del corpo, ed infine sartoriali cioè decorazioni applicate agli abiti.

Così la moda non è altro che una delle tante forme di vita con le quali la tendenza all’eguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale e alla variazione si congiungono in un fare unitario. Se si esamina la storia della moda, che finora è stata trattata soltanto in rapporto allo sviluppo dei suoi contenuti, secondo la sua importanza per la forma del processo sociale, essa si rivela come la storia dei tentativi di adeguare sempre di più l’appagamento di queste due opposte tendenze al contemporaneo livello della cultura individuale e sociale. I singoli tratti psicologici che osservavamo della moda si ordinano in questo suo carattere fondamentale. La moda è quindi un prodotto della divisione in classi che ha la stessa struttura di molte altre formazioni, del matrimonio prima di tutto, la cui doppia funzione è di comprendere in sé una cerchia e nello stesso tempo di separarla dalle altre.

Così come la cornice di un quadro caratterizza l’opera d’arte come un tutto unitario, come un mondo per sé e, nello stesso tempo, opera verso l’esterno recidendo tutti i suoi rapporti con lo spazio circostante, l’energia unitaria di queste istituzioni non si può esprimere che scomponendola nella sua doppia efficacia verso l’esterno e verso l’interno. Analogamente la moda significa da un lato coesione di quanti si trovano allo stesso livello sociale, unità di una cerchia sociale da essa caratterizzata, dall’altro chiusura di questo gruppo nei confronti dei gradi sociali inferiori e loro caratterizzazioni mediante la non appartenenza ad esso. Separare e collegare sono le due funzioni fondamentali che qui si uniscono indissolubilmente: ognuna di esse, benché o perché costituisce l’opposizione logica all’altra, è condizione della sua realizzazione.

La moda è contemporaneamente essere e non essere, si trova sempre sullo spartiacque fra passato e futuro e ci dà, finché è fiorente, un senso del presente così forte da superare in questo senso ogni altro fenomeno. La moda ha il potere di innalzare l’insignificante facendone il rappresentante di una collettività, l’incarnazione particolare di uno spirito collettivo, poiché secondo il suo concetto, non può mai essere una norma che tutti adempiono, la moda ha la proprietà di rendere possibile un’obbedienza sociale che è nello stesso tempo differenziazione individuale. Nel maniaco della moda le esigenze sociali sono giunte a

una tale altezza da assumere l’apparenza dell’individualistico e del particolare. Egli è caratterizzato dal fatto di spingere la tendenza della moda oltre la misura che di solito viene osservata: se sono di moda le scarpe a punta, le sue hanno punte da lancia, se vanno i colletti alti lui li porta fino alle orecchie, se è di moda ascoltare conferenze scientifiche, non lo si trova in nessun altro posto. Presenta così qualcosa di perfettamente individuale che consiste nella crescita quantitativa di elementi che qualitativamente sono proprietà comune della cerchia sociale in questione. Egli precede gli altri, ma sulla loro strada, poiché rappresenta le punte estreme del gusto pubblico, sembra che marci alla testa della collettività. Invece, chi di proposito è fuori moda, accetta il contenuto sociale come il maniaco della moda, ma a differenza di quest’ultimo, che lo forma nella categoria dell’intensificazione, egli lo plasma in quella della negazione.

Vestirsi fuori moda può diventare di moda in intere cerchie di una società estesa; si tratta di una delle più notevoli complicazioni psicologico-sociali. L’impulso verso una distinzione individuale si accontenta dapprima di una semplice inversione dell’imitazione sociale e, in un secondo tempo, ha la propria forza dall’appoggiarsi a una cerchia sociale più ristretta, caratterizzata nello stesso modo.

Il vero fascino, stimolante e piccante, della moda sta nel contrasto fra la sua diffusione ampia e onnicomprensiva e la sua rapida, fondamentale caducità, nel diritto all’infedeltà nei suoi confronti. Il termine Moda deriva dal latino modus, che significa maniera, norma, regola, tempo, melodia, modalità, ritmo, tono, moderazione, guisa, discrezione.

La moda, detta anche storicamente costume, nasce solo in parte dalla necessità umana correlata alla sopravvivenza di coprirsi con tessuti, pelli o materiali lavorati per essere indossati. Dopo la preistoria l’abito assunse anche precise funzioni sociali, atte a distinguere le varie classi e le mansioni sacerdotali, amministrative e militari. Le donne, in generale,  non rinunciavano a vestirsi con cura, ricchezza ed eleganza, e in alcune società erano lo specchio della posizione sociale  del marito. In alcuni casi esse assunsero la funzione di arbitro d’eleganza e ne lanciavano gli usi e i costumi, come nel caso di  Isabella d’Este, in Italia, e di Madame de Pompadour, in Francia. Il termine moda, nella sua accezione come lo intendiamo oggi, appartiene al 1900, a partire dalla prima Esposizione Internazionale di Parigi in cui fu riconosciuta come tale. Molti saggi e teorici, sociologi e psicologi si sono occupati di dare una spiegazione del significato della moda e del peso che essa ha avuto ed ha sugli usi e sulle abitudini sociali. Ad argomentare sulla filosofia che sta alla base della  Moda e sulle sue implicazioni sociologiche è stato Georg Simmel, un sociologo e filosofo tedesco, ad oggi, considerato uno dei padri fondatori della sociologia, insieme ad Émile Durkheim e Max Weber. Il suo pensiero ha ispirato molti autori (e in modi diversi), anche per la vastità della sua opera. Georg Simmel nel corso degli anni fra il 1905 ed il 1911 ha dedicato i suoi studi alla Moda, in un piccolo ma importantissimo saggio, intitolato “La moda”, (G.Simmel , La Moda, Mondadori Editore, Milano 1998), un contributo fondamentale per gli studi sulle dinamiche intrinseche ad essa. La Moda, come fenomeno sociale onnicomprensivo, anche se a volte solo accennato, ha sempre interessato i più attenti pensatori e osservatori della realtà che li circondava.

Simmel ha una propria diversità nell’affrontare questo tema, che lo rende unico e un punto di riferimento imprescindibile per chi voglia comprendere un fenomeno spesso mistificato, relegato nella fatuità, superficialità, leggerezza. Un testo che non appare datato, nonostante il secolo intercorso, ma rimane affascinante nella sua analisi e lettura. Secondo Simmel due sono le condizioni essenziali per la nascita e lo sviluppo della moda, in assenza di una delle quali la moda non può esistere: il bisogno di conformità e il bisogno di distinguersi.

La Moda, secondo Simmel, esprime quindi la tensione tra uniformità e differenziazione, il desiderio contraddittorio di essere parte di un gruppo e simultaneamente stare fuori dal gruppo, affermando la propria individualità; questi bisogni conflittuali sono centrali nell’analisi di Simmel, poiché rappresentano il punto focale della sua sociologia delle forme sociali e permea costantemente la sua analisi della cultura moderna: tutta la storia sociale, egli afferma, si riflette nel conflitto tra conformismo e individualismo, unità e differenziazione. Gli individui sembrano sentire la necessità di essere sociali e individuali allo stesso tempo; sia la moda sia gli abiti sono modi attraverso cui questo complesso insieme di desideri e necessità vengono negoziate. Ciò che le persone indossano può essere usato per esprimere questa individualità, questa differenziazione dagli altri e da altri gruppi presenti nella società.

Moda, infatti, secondo Simmel, significa, da un lato, adesione di quanti si trovano allo stesso livello sociale, dall’altro, significa chiusura di questo gruppo nei confronti dei “gradi sociali” inferiori. Il pericolo di mischiarsi e confondersi induce le “classi” dei popoli civili a differenziarsi negli abiti, nel comportamento, nei gusti.

Oggi non parleremo più di classi sociali ma, piuttosto di stili di vita, dove le dinamiche attraverso cui avviene la differenziazione non sono cambiate: continua ad esistere il bisogno di appoggiarsi ad un modello sociale (o più di uno) quale sicura piattaforma dotata di senso e il bisogno di trovare il cambiamento nell’elemento stabile, la differenziazione individuale, il distinguersi dalla generalità.

Sulla base di questi bisogni, sostiene Simmel, si sviluppano delle mode mediante le quali ogni gruppo accentua la propria coesione interna e la propria differenziazione verso l’esterno. L’abito alla moda, è usato nelle società capitalistiche occidentali per affermare sia la propria appartenenza a vari gruppi socio-culturali sia la propria personale identità, ovvero distinguendosi anche all’interno del proprio gruppo di appartenenza.

L’insistenza di Simmel nell’opposizione tra “nazioni primitive e nazioni civilizzate”, quando si riferisce a società più o meno complesse, trova poca fortuna e approvazione in quanto appare essere alquanto offensiva e discriminante. Egli infatti sostiene che la moda non sia possibile nelle prime, mentre trovi terreno fertile al suo sviluppo nelle seconde. Anche la successiva versione di Flügel nella distinzione tra moda e costume incontrerà quella di Simmel nell’affermare che i due diversi tipi di abbigliamento “fisso” e “alla moda” sono relegati a forme differenti di organizzazione sociale. Fenomeno prismatico e perciò difficilmente definibile in maniera univoca, la moda è realtà al tempo stesso concretissima e intangibile che si sostanzia di un complesso di funzioni e di relazioni.

La moda rispecchia non solo le capacità produttive e commerciali di un paese, ma crea cultura, e in essa trovano espressione sia le relazioni di genere sia le logiche di potere, per non dire del gusto e della creatività di uomini e donne attratti non solo dall’utile. Tanto per gli obblighi che istituisce come per le esclusioni che decreta, il gusto svolge un ruolo importante giacché la moda è per sua natura una macchina estetica.

Ma si tratta di un gusto costruito, manipolato e determinato, perennemente cangiante e difficile quindi da cogliere e da descrivere. L’abbigliamento comunica stati d’animo, come quando ci si veste a lutto o a festa, rispecchia determinate situazioni sociali, come quando ci si deve vestire per rappresentare o il proprio ruolo o una progettualità politica si pensi ad esempio all’uniforme dei sanculotti o alla divisa imposta da Mao. È il terreno su cui si rappresentano anche nuovi modi di vivere nella collettività, come nel caso dell’emancipazione femminile: emblematico in tal senso fu il rifiuto del busto da parte delle donne o il rogo dei Reggiseni.

Ci si veste per dimostrare quello che si è o per attribuirsi, magari a termine, una identità diversa. Trattandosi di un rilevante fenomeno collettivo la moda lascia poco spazio all’individualità eppure, un po’ contraddittoriamente, si presenta anche come strumento privilegiato di espressione delle preferenze nonché del capriccio dei singoli. Oltre che sistema produttivo, la moda è quindi anche una forma sociale di condivisione estetica. Più che di condivisione consapevole si dovrebbe parlare di una sorta di imposizione accettata giacché seguire la moda, e dunque mostrarsi alla moda, finisce con l’essere un imperativo del momento che il mercato, che ha molta parte nel dettare la moda, ha esigenze che non possono essere eluse.

Le mode infatti hanno innumerevoli cultori ma anche e soprattutto potenti manovratori, molti ne subiscono il condizionamento e alcuni ne sono anche vittime. È un fenomeno che punta al futuro ma ha molti forti legami con il passato al quale periodicamente ritorna e dal quale trae alimento. Possiamo affermare che la Moda è una realtà a un tempo locale e sovranazionale: riconducibile ai caratteri culturali ed economici propri al singolo Paese, è aperta a suggestioni esterne e pronta a farsi contaminare per rinnovarsi. In altre parole la moda è disposta al cambiamento ed è assetata di novità.

Come sottolinea Barthes, (R.Barthes, Sistema della Moda, Einaudi Editore 1991, Torino). Ritroviamo la moda in tutti i fatti di “neomania” apparsi nella nostra civiltà, la moda funziona così da almeno sette secoli. Se la moda è portata ad espandersi ed incline a farsi imitare, diventa difficile definire il fenomeno nei suoi confini nazionali, e questo è particolarmente vero per l’Italia, dove spesso gli spunti derivano da molto lontano. Nel XIV secolo l’autore anonimo della “Vita di Cola di Rienzo”, denunciava importanti mutamenti di foggia nel campo dell’abbigliamento che venivano da fuori Italia. Nel ‘300 dunque, la Moda impose fogge inedite e accessori bizzarri come copricapi dalla lunga quanto inutile coda. Nel corso dei secoli è cambiata l’area dalla quale provenivano di volta in volta gli impulsi ai cambiamenti, le fogge, ovvero le mode. Se alla fine del Medioevo e nella prima età moderna l’Italia, fu in grado di dettare mode, nel corso del Cinquecento è stata la Spagna ad imporre le fogge del momento, imponendone colori e tessuti.

Mentre dal Seicento all’Ottocento la Francia ha goduto di un primato pressoché incontrastato. Di ciò erano consapevoli gli uomini del tempo; infatti le vicende politiche si riverberavano anche negli abiti e le fogge dei vincitori prevalevano su quelle di tutti gli altri diventando di moda. L’Italia di mode ne ha subite parecchie; le dipendenze politiche hanno sempre contato ma non certo in maniera assoluta tanto che in età pre-unitaria, quando l’Italia era un collage di dominazioni che facevano conoscere e diffondevano usi diversi anche nel campo dell’abbigliamento, a Milano e a Napoli non ci si vestiva poi in modo molto diverso. A prevalere allora era la moda francese il cui primato specifico era più forte di quello politico e dotato di capacità unificanti.

Nei secoli della modernità ci sono state mode di corte che hanno omogeneizzato corti anche molto distanti fra loro imponendo le stesse fogge a Parigi come a Firenze. Ad esempio ciò è accaduto in età napoleonica durante il principato di Elisa Bonaparte Baciocchi che trasformò Lucca, antica ex Repubblica, in una complessa macchina di corte dove abiti in seta e ricami in oro facevano parte della moda del dominio napoleonico rappresentato dalla principessa. Certi usi diventavano moda senza che la loro acquisizione avesse un significato chiaramente politico; ad esempio vestirsi di nero, alla spagnola, si generalizzò nella seconda metà del XVI secolo anche in aree non soggette al dominio della Spagna, come dimostrano gli usi vestimentari nel gran ducato di Firenze sotto il governo di Cosimo Terzo.

Stando a Cesare Vecellio (1521-1601), autore di una straordinaria opera che descrive gli abiti di tutto il mondo a lui conosciuto, nel XVI secolo non erano poi così insignificanti gli elementi che differenziavano il modo di vestire a Firenze, a Roma o a Napoli. Il Vecellio risulta consapevole della confluenza nella moda di peculiarità locali dovute sia a ragioni produttive sia a fattori culturali e tradizionali; stando alla sua ricostruzione, la matrona di Firenze si abbigliava in maniera un po’ diversa da quella di Padova pur nell’ambito di riconoscibili linee comuni. Le diverse “Italie” si rispecchiavano nelle diverse interpretazioni dell’essere alla moda ma già alla sua epoca venivano sempre meno dall’Italia gli impulsi per nuove fogge. Le regole per vestire in maniera appropriata fondarono l’idea, se non la pratica, dell’“abito cittadino” contrapposto al costume locale o regionale usualmente inteso come indumento statico, senza subire cioè mai particolari mutamenti, al contrario dei continui mutamenti degli usi nel vestiario che coinvolgeva le classi superiori.

A sostegno di questa tesi troviamo le cosiddette leggi suntuarie che hanno riguardato quasi esclusivamente le città ed unicamente le categorie più elevate; ma per farlo, ovviamente, le leggi suntuarie riguardavano indirettamente anche le classi meno abbienti dalle quali le classi più esclusive dovevano necessariamente distinguersi. Non mancavano, infatti, nelle norme del XV secolo attenzioni per le donne di ceto più basso come per le abitanti del contado. Se fino a tutto il Seicento le linee guida da seguire da parte dei “modaioli” erano per lo più dettate dagli ambienti cortesi, o dal capriccio di uomini e donne di grandi mezzi, con il XVIII secolo si venne affermando una nuova forma di moda basata soprattutto sull’estro e sulla creatività di grandi artigiani, veri e propri solisti della creazione. A dettare la moda era ormai risolutamente la Francia e segnatamente Parigi.

Con Worth siamo all’inizio del periodo che è stato definito della moda dei cent’anni, nel quale si è imposta la figura del sarto artista, del mestierante sapiente che era anche creatore autonomo, dell’artigiano d’arte. Sarebbe stata questa figura di couturier di lì in avanti a dettare le mode, a dire cioè se il punto vita andava alto o basso, se la caviglia andava scoperta o coperta e se e dove collocare imbottiture. Sarebbe stato lui o lei a decretare la fine di una moda e a lanciarne un’altra; i nuovi couturiers imposero nuove proporzioni fino a modificare la figura femminile.

Grazie a loro la moda diventò un’esperienza pienamente internazionale, e non limitata ai soli ambienti di corte. Nelle capitali in cui oggi aprono boutique tutte le grandi firme della moda, alla fine dell’Ottocento le donne più in vista partecipavano alle feste con gli abiti dello stesso creatore ed i figurini dei modelli da lui creati erano diffusi tanto a Vienna quanto a Londra o a Pietroburgo, e venivano venduti anche al di là dell’oceano Atlantico, come attestato dalla ricca collezione di abiti di Poiret del Metropolitan Museum di New York.

Finché l’alta moda è stata il modello dominante, e cioè fra metà Ottocento e metà Novecento, Parigi, metropoli della modernità ne è stata la capitale irradiante. Tuttavia in Italia cominciava ad affacciarsi anche in questo campo il tema dell’orgoglio nazionale. È vero che le donne del nuovo Stato unitario italiano seguivano le fogge francesi e compravano tessuti ben di rado di produzione italiana, (anche perché l’industria tessile nazionale collegata al settore dell’abbigliamento stentava a decollare), ma la necessità di un affrancamento da Parigi e di una moda italiana era molto sentita. Sebbene le donne più eleganti d’Italia fossero clienti di Worth, cominciò ad alzarsi la voce di chi sosteneva la “necessità” di far “guerra” alla Senna, “guerra ai nemici del figurino italiano”, nel nome dell’indipendenza dalle mode straniere in una fase di più generale spirito indipendentistico.

Nel 1870 il giornale milanese “La moda italiana” era nato con lo scopo dichiarato di emancipare la moda italiana dal monopolio francese, progetto condiviso anche in ambienti intellettuali. Tracce di questo progetto si trovano anche nel periodico trimestrale Moda Nazionale e nelle pagine di Mondo Illustrato, dove per motivi economici e politici si suggeriva di vestire all’italiana utilizzando il velluto prodotto nelle fabbriche di Genova e di Vaprio.Va ricordato che il velluto aveva conosciuto nel 1400 grande fortuna strettamente collegata alle necessità di rappresentanza dei nuovi potenti, dei quali divenne simbolo di status. Venezia, Firenze, Genova e Milano furono i centri in cui nel Rinascimento si concentrarono le più pregiate lavorazioni di questo prodotto innovativo e assai costoso che aveva richiesto la messa a punto di strumenti e sistemi di lavorazione particolari. Il velluto si prestava dunque perfettamente all’operazione di rafforzamento dell’identità, in quanto prodotto in una secolare tradizione artigianale che aveva fatto la fortuna di tessutali, tintori, sarti e calzolai, medievali e rinascimentali.

È proprio al Rinascimento che si ispirò Rosa Genoni, la promotrice nei primi anni del ‘900 di una risposta italiana alla moda parigina. Prima sarta famosa in Italia, adattò alla sensibilità della sua epoca lo stile di artisti rinascimentali quali Pisanello o Botticelli. Proprio ispirandosi alla Primavera di Botticelli, creò un abito in raso di seta rosa pallido e tulle color avorio, ricamato di perle e fili d’oro che venne premiato all’Esposizione di Milano del 1906. Sarta e artista, formatasi in una casa di moda milanese dove si riproducevano pedissequamente i modelli francesi, la Genoni cercò di invertire la tendenza e di affermare il made in Italy. Donna dalle mille risorse e avida di sapere, Rosa Genoni viaggiò e andò dall’Italia a Parigi, e fece la strada che precedentemente fece Worth per imparare la couture a Parigi, ma non si fermò lì, e portò il frutto di quello che aveva imparato, in Italia. Dell’industria e della ricerca scientifica In Italia, le industrie prevalenti, erano quelle del settore tessile che impiegava soprattutto manodopera femminile. Nel 1879 aprirono i famosi magazzini della Rinascente di Milano, la città che era al passo con le grandi capitali europee, e offriva  lavoro  all’85% delle donne, impiegate nella lunga catena del vestiario. I grandi magazzini raggiunsero un pubblico sempre più ampio stabilendo un modello imposto dalla sovranità francese, in questo campo, tuttavia, le uniche produzioni italiane in grado di sostenere il confronto con la moda d’oltralpe, erano le creazioni di Rosa Genoni, di umili origini.

La Genoni si batté , insieme alla sua amica Anna Kuliscioff, per la riduzione dell’orario di lavoro, e l’istituzione del congedo di maternità, il loro legame, durato tutta la vita, era consolidato da una sorta di sorellanza fatta di corrispondenze epistolari. Nel 1893 Rosa Genoni partecipò insieme ad  Anna Maria Mozzoni, un’altra madre del femminismo, all’Internazionale socialista di Zurigo. Divenne, poi, una delle anime della Lega femminile, nel 1894 era la protagonista dell’agitazione delle sarte milanesi di Corso Magenta, la causa per l’indipendenza delle donne, per la quale la Genoni si batteva, si ripercuoteva anche nei suoi modelli che aspiravano ad una nuova immagine femminile, di questo stile casual, infatti, erano i figurini degli abiti sportivi come il modello “airon trotter”, creato per facilitare l’accesso alle donne al dirigibile. Era in quest’ottica che, ispirarsi all’arte e alla storia italiane, era fondamentale per Rosa Genoni che si rivolgeva alle stesse donne, sostenendo con forza che la moda italiana era degna di considerazione e soprattutto, che tutto quanto afferiva ad essa non doveva essere definito necessariamente frivolo.

Studiando e girando per l’Europa, la Genoni, riteneva la Moda e l’arredamento come due settori in cui le donne erano capaci di operare, senza ostacoli e senza contestazioni, incontrastate. Rosa Genoni tentò di far capire quanto le donne contassero nelle scelte quotidiane, verso la conquista di ulteriori diritti. L’’importanza del fatto  in Italia, Rosa Genoni lo intuì all’inizio del ‘900, prima di tutti anticipando  addirittura, la locuzione “made in Italy”, in genere attribuita esclusivamente a G.B.Giorgini e al 1951, quando vennero compratori da tutto il mondo, a vedere le sfilate di moda nella Sala Bianca, di palazzo Pitti a Firenze.

Secondo Rosa Genoni la Moda fatta in Italia poteva diventare una strada per l’affermazione dell’identità nazionale, nel contesto storico in cui si  trattava davvero di fare ancora l’Italia. Era altresì un modo per riscattare l’idea, un po’ banale, che la moda fosse solo una cosa frivola e che le donne si occupavano solo dei loro abitìni, dei loro cappellini e basta. Ebbene, Rosa Genoni capì che dagli abitini ai cappellini, si sarebbe potuto dimostrare di cosa erano realmente capaci le artigiane, donne colte, maestre, quindi insegnanti e anche ideatrici coraggiose. Sempre più sensibile alle idee pacifiste, il 28 Aprile del  1915 la Genoni era al Congresso Internazionale delle donne all’Aia e sedeva allo stesso tavolo di Arietta Jacobs, Rosita Schwimmer, Jane Addams e Emily Green Balc. Rosa Genoni era l’unica italiana su 1136 delegate, sola a rappresentare molte associazioni femminili.

Quando tornò in Italia, i suoi ideali furono discussi nei dibattiti e nei convegni che organizzava ed erano diramati sul quotidiano “L’Avanti” e sulla difesa delle lavoratrici per cui collaborava. Per queste attività fu accusata ingiustamente di disfattismo e fu sorvegliata dalle autorità per oltre un decennio. Una sorveglianza nei suoi riguardi che si protrarrà anche oltre la fine del conflitto. Il fascismo, oramai conclamato, silenziò il suo operato e le negò ogni impegno politico. Nel 1933 pur di non abbassare la testa alle imposizioni del Duce, Rosa Genoni presentò le sue dimissioni alla Società Umanitaria di Milano ormai sotto il controllo del regime. Durante il periodo buio delle guerre mondiali, ed in particolare con l’ascesa del Nazi-fascismo, l’abbigliamento fu portavoce di un’ immagine di rigore intimidatorio, in cui il potere assolutista fu espresso anche da lunghi cappotti neri dai bottoni importanti, da pantaloni e giacche frutto di uno studiato ed attento design. Nel caso specifico delle divise progettate per l’SS tedesche, di cui furono chiamati a progettarle, il Prof. Karl Diebitsch, membro delle SS, e il graphic designer Walter Heck.

A produrre poi queste divise fu la fabbrica di Hugo Boss, già membro del Partito Nazionalsolcialista tedesco dei lavoratori, nel 1931. Dopo la seconda guerra mondiale, il processo di “denazificazione” vide Hugo Boss etichettato come un’attivista, sostenitore e beneficiario del nazionalsocialismo, le cui conseguenze furono una pesante multa e la privazione del diritto di voto e della capacità di gestire un’impresa. Tuttavia, questa sentenza fu appellata e Hugo Boss fu etichettato come seguace, una categoria con una punizione meno severa.

Alcuni lavoratori furono riconosciuti come prigionieri di guerra francesi e polacchi, costretti a lavorare in fabbrica per produrre le divise dei nazisti. Nel 1999  gli avvocati statunitensi che agivano per conto dei sopravvissuti dell’Olocausto, iniziarono azioni legali contro la compagnia Hugo Boss per l’uso del lavoro da schiavi durante la guerra. L’abuso, da parte della società Boss, di 140 lavoratori forzati polacchi e 40 francesi portò la ditta Boss  anche a formulare delle scuse da parte dell’azienda. Il peso di questa parte della storia, legata al fondatore della Hugo Boss, ne ha minato l’integrità morale per lunghi anni. Soltanto oggi la Hugo Boss è riconosciuta come un pacifico brand di moda, nel cui sito internet si possono ancora leggere le scuse formali per quanto accaduto. Le vicende legate al brand Hugo Boss rappresentano un esempio di come il segno del tempo nella Moda e, più in generale nell’abbigliamento, è tangibile e tangente agli avvenimenti socio culturali.

Gli anni Trenta e gli anni della guerra mondiale costituirono un periodo di grande creatività per Salvatore Ferragamo, protagonista indiscusso del Made in Italy, che dalle difficoltà sembrava attingere nuovi stimoli creativi. Nel marzo 1936 Benito Mussolini impose  alla Nazione un ampio programma di nazionalizzazioni e di protezionismo, che si sintetizzò nella parola d’ordine autarchia.

Fu  la risposta alle sanzioni commerciali che la Società delle Nazioni impose all’Italia nell’ottobre 1935 per l’aggressione militare all’Etiopia. L’acciaio di migliore qualità è requisito per gli armamenti e quello in sostituzione risultò talmente scadente da non essere adatto alla costruzione del sostegno dell’arco plantare che rese, e che rende tutt’oggi, così speciali le scarpe di Ferragamo. Salvatore trovò la soluzione riempiendo lo spazio tra il tacco e l’avampiede con pezzi di sughero sardo, pressati e incollati. Nacque così la prima suola a zeppa. Il ritrovato  bello a vedersi e comodo, diventò ben presto il modello più venduto. L’invenzione apparve nel brevetto del 13 dicembre 1937. In quegli anni la scarsità di materiali destinati alle calzature acuì la fantasia di Ferragamo.

È così che nacquero le tomaie in canapa, feltro, pelle di pesce. Salvatore Ferragamo ricorse anche all’uso del cellofan, osservando la carta dei cioccolatini, luccicante ed elastica. Attorcigliata insieme a fili di seta colorati, poté essere lavorata all’uncinetto o a maglia, producendo un effetto originale e grazioso. “Documento Moda”, che era una rivista di informazione sull’industria della moda e del tessile curata dell’Ente Nazionale della Moda, organo fascista di settore nato per favorire lo sviluppo dello stile italiano, dal 1941 al 1943, dedicò diversi numeri a Salvatore Ferragamo, definendolo come colui che ebbe il merito di aver diffuso la calzatura italiana in altri paesi, soprattutto in America, facendone conoscere la qualità della lavorazione artigianale e per aver impiegato materiali autarchici come la canapa, il cellofan e il sughero.

Nell’estate del 1947, due anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, Salvatore Ferragamo venne invitato a Dallas da Neiman Marcus, grande department store americano, a ricevere l’Oscar della Moda con la motivazione di aver saputo combinare il classicismo italiano e la tradizione artigiana con inventiva moderna. Fino ad allora il prestigioso riconoscimento, istituito nel 1938, era stato conferito solo ai designer americani. L’edizione del 1947, nella ricorrenza del 40° anniversario di Neiman Marcus, aprì le porte alla moda europea. Insieme a Salvatore Ferragamo furono premiati Christian Dior come principale artefice della moda francese, Irene di Hollywood per il suo gusto impeccabile nel proporre capi di moda attraverso l’industria cinematografica americana e Norman Hartnell, il sarto dei reali d’Inghilterra come creatore versatile sia di una moda più semplice che sofisticata.

L’8 settembre del 1947 avvenne la premiazione di fronte al vicepresidente della Neiman Marcus, Stanley Marcus, a cui seguì una sfilata nella quale  le calzature di Ferragamo furono abbinate ai modelli Dior. Nel pieno del boom economico, il “calzolaio delle dive”, come era chiamato Salvatore Ferragamo, era all’apice del successo. Le più famose star del cinema italiano e internazionale erano sue clienti, da Audrey Hepburn ad Anna Magnani, da Greta Garbo a Sophia Loren. Il 12 febbraio 1951, Salvatore Ferragamo partecipò alla prima sfilata di modelli di chiara impronta italiana organizzata dal buyer Giovanni Battista Giorgini nel salone da ballo della sua casa, Villa Torrigiani a Firenze, alla presenza della stampa internazionale e dei compratori americani. Ferragamo creò per l’occasione il Kimo, realizzato per gli abiti del sarto romano Emilio Schuberth.

Ispirato al tabi giapponese, è indossato con un calzino di pelle o raso in abbinamento al colore dell’abito. La diva di Hollywood, che  più di ogni altra segnò un sodalizio con il mitico calzolaio fu sicuramente Marilyn Monroe. Gli anni ’50 furono gli anni in cui si raggiunse il culmine dell’alta moda, e mai come allora c’erano stati tanti stilisti indipendenti. Essi raggiunsero un’importanza tale che con le loro idee esclusive e stravaganti riuscivano a influenzare la moda delle masse a livello mondiale. Primo fra tutti fu Christian Dior, che nel 1947 aveva dato vita al New Look, e fu lo stesso a lanciare una collezione nuova ogni sei mesi.

Ma il new look era diventato per così dire “indipendente” e continuava a vivere anche senza il creatore originale. I tempi erano maturi per un cambiamento radicale nella moda. Dopo l’abbigliamento povero e semplice degli anni della guerra mondiale, le donne sognavano linee morbide e uso generoso di stoffa, anche se il buon senso lo sconsigliava.

Naturalmente avevano ragione i critici che trovavano inutile o addirittura vergognoso produrre un vestito che costava quarantamila franchi, E le femministe, come la parlamentare inglese Mabel Ridealgh, riconobbero subito che la nuova linea non significava un progresso, tanto che  la Ridealgh affermò che : […]“il new look ricorda la condizione di un uccello in una gabbia dorata”[…] .

Esattamente ciò che molte donne desideravano essere dopo gli orrori della guerra: viziate, protette, senza nessuna responsabilità, come rinchiuse in una gabbia dorata. Il miracolo economico sfatò gli ultimi dubbi rimasti per mezzo del cosiddetto piano Marshall, ideato nel 1947 come il new look, e che portò la ripresa generale di una società provata dalla guerra. Di fatto, grazie agli ingenti capitali messi a disposizione dagli Stati Uniti, sotto la direzione del Segretario di stato George Marshall, in Europa si ebbe un generale sviluppo economico ed un nuovo assetto del lavoro, in funzione della ricostruzione dei Paesi dilaniati dalla guerra mondiale.

E il nuovo mondo era effettivamente bello! La faccia austera della modernità, in cui la forma doveva adeguarsi alla funzione, lasciò il posto a un design piacevole, che come la moda era finalizzato alla seduzione. La forma a clessidra del new look si ritrovava dappertutto, dall’architettura all’arredamento di interni e fino al più insignificante oggetto d’uso quotidiano. Tavolini a forma di fagiolo, poltrone sferiche, bicchieri a forma di tulipano, lampade a cono e vasi sagomati e posacenere di vetro modellato: tutto rifletteva le linee scultoree del new look. La vera rivoluzione degli anni ’50 consisteva soprattutto nella voglia globale di restaurazione, secondo cui le cose dovevano tornare ad essere come erano state prima del conflitto mondiale. Il desiderio era quello di tornare ai “ruoli” dell’uomo e della donna ed a quando questi erano precisamente definiti.

Ora più che mai tutti volevano partecipare alla bella vita e alla doppia morale della classe abbiente; gli anni ’50 non conoscevano la ribellione. I tre pilastri epocali erano : i grandi magazzini, le fibre plastiche e la confezione, che permettevano ad ampi strati della popolazione di copiare lo stile dei ricchi. La legge dell’apparire divenne un parametro incrollabile per tutti gli ambiziosi e naturalmente erano coinvolte in particolare le donne. Il genere femminile, infatti, negli anni ’50 venne nuovamente, in senso figurato come in senso letterale, costretto dentro a un rigido bustino e, dopo aver fatto la sua parte in guerra, ora la donna doveva nuovamente essere soltanto donna, e per questo doveva abbandonare conquiste già fatte per ritirarsi nel focolare domestico.

Ciò avvenne in maniera pressoché inconsapevole. Sembrava uno scambio meraviglioso: ma il prezzo che la donna doveva pagare era ben più alto. “Non dimenticate mai che siete prima di tutto mogli”, consigliava la stilista americana Anne Fogarty nel suo libro “Wife-dressing” del 1959, (A. Fogarty, Wife dressing, V&A. Pub.,2011). Per questo riteneva necessario portare sempre e ovunque un busto stretto attorno alla vita: mentre si passava l’aspirapolvere e nel corso degli interminabili cocktail party, la stessa Fogarty si inguainava con tale rigore che non riusciva mai a sedersi, ma questo genere di costrizione le procurava un piacere enorme, dato che le imponeva un contegno impeccabile. La scrittrice femminista francese Simone de Boudoir, a sua volta sempre elegante, e con un senso per lo stile, smascherò il nuovo culto della femminilità: l’eleganza come incatenamento.

Capì che la donna non serviva che come emblema del successo del marito, stretta com’era  in nuovi bustini e vecchie convenzioni, relegata in un ruolo immobile e circoscritto. Ma la maggior parte delle donne non vedeva così lontano, anche se come Anne Fogarty, a loro volta, mirava a fare carriera e guadagnare per poter mantenere o migliorare il nuovo stile di vita, essa seguiva le regole prescritte dalla buona condotta femminile.

Ecco che non si usciva di casa senza cappello e senza guanti, che borse e scarpe dovevano essere abbinate, che si sceglievano gli stessi colori per gli accessori e il trucco degli occhi e che, fatta eccezione per lo sport, si portavano tacchi alti e calze di nylon, si mostrava il décolleté solo la sera e si sceglievano le stoffe a seconda del momento della giornata; per esempio il broccato mai prima delle sei di sera. Una donna con obblighi sociali, accanto al marito doveva cambiarsi dalle cinque alle sei volte al giorno, cambiando di conseguenza gli accessori e adattando il trucco e la pettinatura. Il grande sfoggio di splendore negli anni ’50 si manifestò attraverso le feste inebrianti che erano all’ordine del giorno. L’ospite più eclettico era senza dubbio il conte Etienne de Beaumont, che da sempre raccoglieva attorno a sé artisti, letterati e stilisti e che con il suo “Ballo dei re e delle regine” aveva dato il via a una serie di dispendiosi balli in costume. Il suo ospite d’onore, Christian Dior, apparve come il re della giungla in un costume da leone disegnato dal suo apprendista di un tempo Pierre Cardin, che si era appena messo in proprio.

Jacques Fath era considerato il migliore padrone di casa e le sue feste a tema, con ospiti quali Rita Hayworth e il principe Ali Khan, entrarono negli annali delle feste in costume. Ma il ballo in maschera più grande e più fotografato del secolo fu la festa di Carlos de Beisterguis a Palazzo Labia a Venezia nel 1951. Nei ricchi anni ’50 il tempo libero era così importante che gli fu dedicata una moda apposta; nessuno si sarebbe mai messo un vecchio capo di vestiario comodo perché anche il tempo libero era considerato uno sfoggio di eleganza. Si andava alle feste in giardino e ai cocktail, si giocava a golf o a tennis e, se appena ce lo si poteva permettere, si andava in Riviera, a Capri o in Giamaica. Tipica degli anni ’50 fu l’esplosione di colori che costituì la reazione alla tristezza degli anni della guerra. Famoso divenne il rosso ottimistico di Dior.

Stella cometa ed eroe degli ambienti artistici  divenne il pittore Jackson Pollock, che con grande sforzo fisico distribuiva i colori in modo apparentemente casuale su grandi tele stese sul pavimento. La sua vita veloce e selvaggia (morì nel 56 a soli 44 anni), fece dell’artista una figura di culto così come quella di James Dean. Fu vittima, a 24 anni, di un incidente mortale al volante della sua Porsche.

A fare da contrappeso alla piatta immagine dell’uomo perbene degli anni ’50, in Europa erano il teatro dell’assurdo di Samuel Brecht e l’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre e Albert Camus. Lo stile italiano si affermava in quegli anni anche attraverso oggetti di culto e mezzi di locomozione emblematici dell’epoca come la Vespa, che divenne incarnazione di libertà e mobilità. La motoretta con le forme morbide che permetteva di muoversi con perfetta eleganza come dimostrò anche Audrey Hepburn nel film : “Vacanze romane”.

I giovani intellettuali, per contro, sfoggiavano il loro disprezzo per il mondo adottando gli abiti neri degli esistenzialisti, la cui musa Juliette Greco divenne icona della moda. Le t-shirtbianche, le giacche di pelle nera e i jeans indossati da Marlon Brando e James Dean ne “ Il selvaggio e Gioventù bruciata”, divennero una sorta di uniforme che esprimeva un atteggiamento preciso: insoddisfazione e vuoto esistenziale. Le ragazze degli anni ’50 ambivano al matrimonio da favola ed aleggiava un certo perbenismo giovanile, e i matrimoni che fecero scalpore fomentarono il desiderio di convolare a nozze. Il matrimonio più sensazionale del decennio fu quello di Jacqueline Bouvier che nel 1953 sposò l’allora senatore e poi Presidente degli Stati Uniti Jhon F.Kennedy.

A cui seguì, nel 1956, il matrimonio tra l’attrice di Hollywood Grace Kelly ed il principe Ranieri di Monaco. Rita Hayworth sposò Alì khan, e storico fu anche il matrimonio tra la bella Soraya e lo scià di Persia che la rese imperatrice. Tutto sembrava possibile, in un’epoca in cui in effetti tutto fu possibile. Gli swinging sixties sono stati gli anni più importanti del XX secolo, e lo dimostra il fatto che le opinioni su questo periodo sono tutt’oggi discordi. Infatti, alcuni la considerano l’epoca d’oro di nuove libertà, altri il decennio tenebroso che ha portato, essenzialmente, alla dissoluzione morale di autorità e disciplina.

Certo è che molti aspetti della vita sociale, della politica e della cultura di oggi, sono una conseguenza di quanto si è messo in moto allora. La spinta innovativa è venuta da chi nella società è sempre più ricco di speranze, i giovani. Grazie al boom demografico seguito alla seconda guerra mondiale, la percentuale di giovani nella società era forte come non lo era mai stata prima. Gli adolescenti che negli anni ’50 erano stati visti per la prima volta come potenziali consumatori, e di conseguenza corteggiati dal mercato, ormai erano ventenni ribelli che mettevano in discussione tutto quello che i genitori consideravano sacro. Uno dei fattori scatenanti è stato il miracolo economico degli anni ’50 di cui ora, per la prima volta, quasi tutti potevano iniziare a raccogliere i frutti. Ma molti giovani non erano disposti a pagare il prezzo che questo implicava: sottomissione, abnegazione, spirito di adattamento. Si ribellavano all’autorità dei genitori, alla Chiesa e allo Stato.

Cominciarono allora a cercare valori nuovi ed a smascherare l’ambigua morale dell’epoca, in nome della quale nel privato si faceva esattamente il contrario di quanto si predicava in pubblico. I conflitti tra generazioni c’erano sempre stati, la novità era che adesso la gioventù non si accontentava più di protestare. Si era creata una contro cultura forte e invadente, che non si limitava a borbottare in segreto, ma era diventata onnipresente.

Per un certo periodo sembrava addirittura che la proposta di un mondo migliore, più umano e sincero, si sarebbe potuta realizzare. I giovani erano accomunati e uniti da questo desiderio: alcuni avevano un orientamento più politicizzato, altri erano attivi nell’ambito della cultura pop, altri sognavano semplicemente e ingenuamente, una vita pacifica e all’insegna del piacere. I giovani si ribellavano alla limitatezza asfissiante della società borghese, basata su valori vuoti e ipocriti come il decoro e l’etichetta. Per non parlare della pressione che la generazione del boom economico, attiva e produttiva, esercitava sui figli.

Con il risultato che i figli, sentendosi sotto pressione continuamente e su tutto, si rifiutavano infine di essere attivi e produttivi, e si ribellavano alla famiglia ed a tutto ciò che rappresentava: matrimonio, fedeltà, ed i ruoli convenzionali dell’uomo e della donna. Per loro la causa di tutti i mali era la costrizione. I giovani non erano più predisposti a seguire regole e dogmi, non volevano che gli si imponesse un modo di vivere se non il proprio, avevano scelto di vivere felici ed in una realtà paradisiaca.

Il miracolo economico continuava ed i giovani imprenditori che avevano aperto club e discoteche, sex-shop e riviste underground, boutique e soprattutto quelli che lavoravano nel settore della musica, ne trassero il massimo profitto. Il mercato giovane era in mano soprattutto a gente giovane che è diventata ricca vendendo esattamente quello che le piaceva. In ogni caso, la gioventù non era contraria al consumo, anche se detestava il mondo materiale degli adulti. I giovani spendevano, ma in altre cose: moda giovane, viaggi, droghe, rock’n roll.

La musica era l’elemento che univa la gioventù superando tutte le frontiere e le disuguaglianze. I precursori della nuova musica erano stati Bill Haley ed Elvis Presley. Adesso gli idoli erano i Beatles e in seguito i Rolling Stones, i Who, i Kings, Jimi Hendrix e Eric Burdon. La loro musica esprimeva tutto quello che non si riusciva ad esprimere con le parole e, quando era possibile, i ragazzi la seguivano. Le prime a seguire questi musicisti selvaggi nelle loro tournée erano le modelle e le belle figlie delle famiglie più ricche: erano le groupies di lusso e si deve anche a loro se questo decennio è passato alla storia come come l’epoca del trinomio: sesso, droga e rock’n roll. Il fatto che ogni tanto uno dei rockettari arrivasse all’altare in modo del tutto borghese, come fece Mick Jagger con Bianca, non cambiava niente: l’importante era che non abbandonasse la vita libertina.

I Beatles non si accontentavano di satisfation personali come i Rolling Stones; quello a cui aspiravano era l’illuminazione interiore. Scegliendo lo yogi Maharishi come guru, nel 1967 hanno dato il via a un movimento che guardava all’estremo oriente nella sua ricerca del senso della vita e delle cose. Lo yogi Maharishi Mahesh indicò a molti hippy la strada per il “paradiso terrestre”, attraverso la meditazione trascendentale. Anche se non tutti andarono in India per incontrarlo, come fecero i Beatles nel ’67, non va dimenticata l’influenza della filosofia orientale sulla generazione hippy che si rifletteva anche nella moda degli ultimi anni ’60. Il sole era l’astro preferito degli hippy. La modella inglese Jean Shrimpton, la ragazzina sensuale che insieme alla conterranea Twiggy, era la più amata dai fotografi, presentò la collezione Sun della stilista francese Carita.

Solo pochi anni prima nessuno avrebbe creduto che donne magre come le due modelle potessero fare carriera. Tra gli slogan dell’epoca c’era predominante il motto: “fate l’amore, non fate la guerra”. Negli anni ’60 la protesta contro la guerra del Vietnam si diffuse anche in Europa. I fiori di plastica, marchio distintivo della moda per Lolite, bella e pulita di Mary Quant, alla fine del decennio si trasformarono  in fiori veri  diventando il simbolo dell’impegno per la pace. La maggior parte dei giovani e molti adulti si sentivano attratti dal movimento hippy Flower Power. Usavano i fiori per protestare contro le disuguaglianze di classe, l’intolleranza, il razzismo, la guerra. . Il movimento giovanile ebbe un’ultima occasione di dimostrare la sua compattezza pacifica nell’Agosto del 1969, durante il leggendario concerto di Woodstock, nello stato di New York, che con il suo milione di partecipanti è passato alla storia come il più grande evento di tutti i tempi.

Dopo il mega evento di Woodstock, il Flower Power non ebbe più vigore ed il pop e il rock sembravano aver perso la loro magia. Fu così che i concerti che seguirono restarono anonimi ed erano solo eventi in cui spopolava sesso e droga in fiumi di alcool. I diversi gruppi di pensiero presero ognuno la propria direzione: gli hippy si reclusero nelle comuni o nelle sette orientali, gli omosessuali si impegnarono nel movimento gay, le donne nel movimento femminista, altri divennero attivisti e altri addirittura terroristi. Il sogno love e peace, che per un certo periodo era sembrato molto prossimo alla sua realizzazione, era esploso come una bolla di sapone.

Niente però sarebbe stato come prima. Nemmeno la moda. La minigonna è stata senza dubbio l’invenzione del decennio, insieme ovviamente ai collant ed agli stivali, validissimi partner per completare il look e risaltare la gonna. La “rivoluzione” inglese era partita, accompagnata da un boom demografico post-bellico che come un’onda inarrestabile trascinò una delle società più conservatrici dell’occidente di nuovo al centro del mondo, non più come capitale di un impero, ma come culla dello stile e delle nuove tendenze. Esplodeva la cultura pop, arrivarono i Beatles, la pop art e la ribellione. La stilista che per prima riuscì ad interpretare questo desiderio fu Mary Quant che riuscì a rivoluzionare il modo di vestire delle nuove generazioni, mescolando uno stile underground con quello tipico dell’uniforme della scuola. La nascita della mini gonna vede contendersi il primato anche dallo stilista André Courrèges che incluse per esempio una minigonna, meno aderente e portata con gli  stivaletti, i Go-go boots, per la sua collezione Moon della primavera estate del 1965, introducendola quindi nell’ alta moda, mentre tra i primi stilisti a vestire nelle sfilate le modelle con delle minigonne vi fu il suo connazionale Pierre Cardin.

L’accorciamento delle gonne ebbe effetti  fin dall’inizio, anche su altri capi, come i più tradizionali abiti da donna, dando vita ai “mini-abiti”, che di fatto univano magliette e maglioni al concetto di minigonna, anche questi spesso indossati con i collant anche dai colori sgargianti. I mini abiti furono al centro delle collezioni di Andrè Courrèges, di Pierre Cardin e più tardi dello stilista Yves Saint Laurent, che presentò il mini dress come capo must della collezione. Non tutti gli stilisti però apprezzarono questa gonna corta, che ricevette diverse e variegate critiche: per esempio, la stilista Coco Chanel, nonostante il suo contributo dato alla rivoluzione dello stile femminile che farà da apripista a questo capo di vestiario, la considerava indecente, citando il parere di Christian Dior, morto alcuni anni prima, che riteneva il ginocchio la parte più brutta del corpo.

Nei primi anni Settanta la minigonna continuò infatti a diffondersi e ad accorciarsi, ma con l’arrivo della metà degli stessi anni, questa tendenza iniziò ad invertirsi. Grazie alle donne dei movimenti femministi che attribuivano a questo indumento una accezione negativa, in quanto capace di rendere la figura femminile un mero oggetto del desiderio maschile. In questo periodo, quindi, con l’eclissarsi della minigonna, si diffuse la moda degli short. Nell’ambito delle collezioni di moda, pur facendosi meno presente, a metà degli anni ’70 venne a volte proposta cortissima, quasi all’inguine, ma abbinata a calze molto spesse o stivali sopra il ginocchio, quasi fosse questa la parte del corpo che bisognava pudicamente coprire.

Con l’avanzare degli  anni’80 la minigonna tornò di moda nel mondo occidentale, anche se in maniera altalenante e con tempistiche e diffusione diversa tra l’Europa e il Nord America, e si diversificò in modelli molto differenti, per tipo di tessuto, taglio, ecc. pur non raggiungendo mai né una forma così corta, né la diffusione che aveva avuto nel suo primo decennio di vita. I due anni in cui si manifestò la maggiore diffusione della mini furono il 1982 e il 1987. Proprio nel 1982 lo stilista Valentino presagì un cambio di stile per le minigonne che, secondo lui, sarebbero state caratterizzate da una maggiore ampiezza e da una linea più morbida lungo le gambe, in grado di dare vita con il movimento del corpo ad un “sexy vedo non vedo”.

La previsione dello stilista si rivelerà in parte corretta, almeno fino a quando la moda per l’aerobica ed in generale per gli sport atti a migliorare la forma fisica, non riporterà in voga minigonne, miniabiti e corti tailleur nuovamente aderenti ed attillati. Gli anni ’90 determinarono  l’epoca dell’assenza dei limiti. In seguito al crollo del comunismo scomparvero  i “muri” ideologici tra est ed ovest. Non c’erano  più ostacoli neppure alla visione americana della libertà; negli anni ’90 tutto era sentito come “ liberal”.

La Borsa ebbe  un’influenza smisurata. Sia Hollywood e sia i templi del fast food come McDonald  influenzavano le culture in tutto il mondo: il cosiddetto  decennio della globalizzazione. Sommersi da un flusso continuo di informazioni, ci siamo assuefatti agli scandali ecologici, oppure politici, alle violenze nelle periferie, agli animali clonati o alla manipolazione genetica dei generi alimentari. Le pubblicità con campagne terribilmente divertenti ne rispecchiano l’atmosfera.

Gli anni ’90 sono stati visti da molti come un periodo di tranquillità seguiti ai glamour ’80. Inoltre, in un certo senso, l’ultimo decennio prima dell’inizio del terzo millennio è stato paragonato al “fin de siècle del diciannovesimo secolo”. Molte persone hanno reagito con riserbo ai profondi cambiamenti, e molto grande è stata la voglia di svago. La tecnologia informatica, accelerando il ritmo della vita in generale, ha cambiato il mondo del lavoro. La corsa al consumo, come già era accaduto negli anni ‘80, è rimasta un divertimento del tempo libero cui si è aggiunta una nuova ricerca dei sensi.

La spasmodica ricerca dell’eterna giovinezza è diventata nuovamente il sogno da raggiungere. Le donne, grazie a una maggiore indipendenza economica, sono riuscite ad ottenere ancora più influenza, sia nella vita privata, sia in quella pubblica. La guerra del Golfo, nel 1990, ebbe come conseguenze un improvviso blocco dei consumi. Mentre in Germania la riunificazione di est ed ovest era vissuta con euforia, in Francia e in altri paesi europei si iniziava a capire che alla sfrenatezza dei dorati anni ’80 avrebbe dovuto far seguito una maggiore accortezza. C

onsumi in ribasso, disoccupazione record, crisi degli scambi commerciali: gli anni ’90 ricordavano gli anni ’20. Di colpo non si aveva più voglia neppure della moda. Donne e uomini cominciavano ad accontentarsi di capi semplici e modesti, anche perché, secondo l’opinione generale, gli armadi erano in ogni caso stracolmi. Capi d‘occasione erano ritenuti chic, e i basic venivano accettati anche perché, in completa sintonia con lo spirito dei tempi, erano considerati non troppo appariscenti. Per basic si intendeva una serie di capi base: blazer di taglio classico, tailleur pantalone, gonne affusolate e pullover a collo alto. Presto i capi basic  invasero tutti i negozi e anche le passerelle dove, tuttavia, si seppe conferire alla semplicità un tocco di lusso, utilizzando tessuti classici di altissima qualità, fibre preziose naturali, lavorati in modo impeccabile.

Adeguandosi al motto “less is more.” Nei primissimi anni ’90 diventò di moda un’eco-look dai colori naturali. Questa ricerca di significati non piacque, però, soprattutto alle donne dell’Europa meridionale, per cui ci si affrettò a realizzare una lunga serie di recuperi: nella moda, come d’altronde anche nella musica, il bisogno di certezze fu ricercato nel passato. Così, per un periodo abbastanza lungo, gli anni ’60 e ’70 ricomparvero nella moda. Essi poterono vedere nuovamente pantaloni a zampa d’elefante e con frange, look Courrèges e margherite stilizzate. L’abito alla Jeki Kennedy fece furore e, nell’estate del 1996, si videro molte copie dei motivi geometrici di Prada degli anni ’60, e di quelli psichedelici di Emilio Pucci.

La liberalizzazione delle telecomunicazioni, avvenuta tra il 1993 ed il ‘94, scatenò in Europa una rivoluzione: il numero dei “naviganti” in Internet aumentò vertiginosamente, e la realtà diventò virtuale. Un esempio di moda per le ragazzine era rappresentato da Lara Croft, la star virtuale del noto video game Tomb Raider, che indossava una t-shirt che lasciava scoperto l’ombelico, short minuscoli, zaino e stivaletti. Nel 1997 la ricerca di significati si realizzò sulle passerelle, sotto forma di simboli mistici: l’eleganza dell’ultima collezione haute couture di Gianni Versace, poco prima della sua misteriosa morte davanti alla sua villa a Miami alla fine dello stesso anno, puntava su crocifissi d’oro riccamente ricamati, posti su abiti aderenti e nei tessuti più diversi. In questo contesto, l’interiorizzazione della moda sembrò aver raggiunto il culmine nella visione mistica dello stilista. Il designer belga Walter Van Beirendonck era tra i primi che, nelle sue sfilate di Parigi, aveva presentato  il giovane mondo colorato e stridente dei nuovi media. Le vendite on line erano ancora lontane, ma già nel 1998 lo stilista Jean Paul Gaultier iniziò, primo fra gli stilisti, a vendere le sue creazioni on line, con gli accessori posti nella galleria di Internet nel suo sito.

Presto, grazie all’incredibile rivoluzione verificatasi nelle telecomunicazioni, la vita degli anni ’90 diventò definitivamente più veloce. L’effetto accelerato della vita sulla moda si verificò di riflesso. Se nel decennio precedente la moda era influenzata più dalla strada che dagli stilisti, ora il flusso delle informazioni (dalle passerelle, alle copie delle ditte d’abbigliamento, al fabbricante di moda), era diventato per la moda un fattore decisivo. In questo modo, lo stile della moda di “strada” assomigliava sempre più, e in sempre minor tempo, alla moda degli stilisti.

La moda in generale stava acquisendo una sempre maggiore uniformità. Lo stile ripreso dai basic, verso la fine degli anni ’90, diventò un vero e proprio cult ed entrò nella storia della moda come minimalismo. Per anni il gusto estetico preferito dalla moda era consistito in una sobria eleganza, caratterizzata dal colore nero e in seguito dal grigio. Tra i minimalisti, l’austriaco Helmuth Lang era  lo stilista più coerente e all’ avanguardia. Con il trionfo del minimalismo, la scena della couture parigina passò in secondo piano.

Gli americani furono accusati di essere i responsabili del fatto che, oramai, esistesse un solo uniforme connubio: moda-marketing. Grazie a massicce campagne pubblicitarie, negli anni ’90 le griffe statunitensi come Ralph Lauren, Kalvin Klein e Donna Karan esercitarono sulle donne europee una forza d’attrazione irresistibile. Ralph Lauren, con il suo stile borghese-tradizionale, da proprietari di case di campagna, era considerato, come Chanel ed Hermes, un “valore” sicuro. Tutto l’interesse si incentrò, pertanto, su marchi di questo tipo. Alle spalle di Calvin Klein si celava una vera e propria strategia di marketing. Lo stilista, infatti, offriva uno stile lineare e facilmente indossabile, supportato da una pubblicità provocante, rivolta ai giovani, oltre a dare il suo nome a un numero infinito di prodotti.

Verso la fine del secolo, anche l’Italia si mise a fare concorrenza a Parigi. Gli italiani, con in testa lo stilista Giorgio Armani e, dalla metà degli anni ‘90, anche Prada e Gucci, erano  maestri nel far apparire moderni gli articoli più sobri. Anche se, in fin dei conti, tutti concordavano sul fatto che Milano fosse troppo classica, Londra troppo pazza e Parigi la più versatile e fantasiosa. Le stoffe più creative dell’epoca uscivano dall’industria tessile italiana: questo fatto, verificatosi in anni di moda puritana e sobria, diede all’Italia un vantaggio non indifferente sul mercato.

Nella seconda metà degli anni ‘90, nella Parigi capitale della moda, ebbe luogo una specie di terremoto: nuovi proprietari acquistarono antiche case di moda, portando con sé nuovi stilisti e nuovi manager. L’inglese John Galliano diventò il direttore artistico di Christian Dior, mentre il suo compatriota Alexander McQueen divenne il successore di Yves Saint Laurent, con il maestro ancora in vita. La spagnola Cristina Ortiz rinnovò la casa di moda  Lanvin; mentre, nel 1999, la franco- canadese Natalie Gervais subentrò da Nina Ricci.

Come già era avvenuto negli anni ’80, anche negli anni ’90 si aprirono all’insegna di un grande glamour. Questa volta, le responsabili non furono le nuove donne in carriera bensì le top model che eguagliarono la fama delle star, e addirittura superarono quella delle dive di Hollywood che, a loro volta, avevano iniziato a considerare chic l’anonimato, ovvero il fatto di proporsi come la ragazza della porta accanto con indosso tuta da jogging e scarpe da ginnastica. Le top model, da parte loro, sfruttarono a più non posso la possibilità di sostituirsi alle dive hollywoodiane, non perdendosi una festa per poter essere ammirate come delle dee.

Molte teenager, sperando di venire scoperte, tentavano di emulare questi splendidi esempi della perfezione, praticamente irraggiungibili. L’esercito delle donne lavoratrici era sfinito dagli obblighi degli anni ’80, durante i quali era stato fatto credere loro, in particolare da riviste come Cosmopolitan, che avrebbero potuto ottenere tutto: la carriera, un marito di successo e, in più, come accessorio ancora più ambito un bel bambino. Il famoso motto “you can have it all” valeva, ovviamente, soltanto per donne snelle e in forma, curatissime da capo a piedi, divertenti, affascinanti e seducenti. Lo spirito di quell’epoca fu descritto ancora meglio dal grande schermo: mentre nel 1980 Richard Gere, in “American gigolo”, indossava completi firmati da Giorgio

Armani solo grazie ad una benefattrice, dieci anni più tardi i ruoli erano invertiti: Richard Gere era ora il benefattore che in Pretty woman comprava a Giulia Roberts costosissimi abiti firmati. Furono, in primo luogo, le figlie delle donne in carriera a non voler avere più voglia di approfittare della nuova libertà. Rifiutarono sia gli ideali delle loro madri, sia i loro tailleur-power, nonché l’arte del truccarsi. Intanto il mercato del lavoro, in crisi economica, non aveva molto da offrire. Anche le “super donne” di maggior successo, in tempi di crisi, dovettero constatare di non essere indispensabili.

Presto, anche per le top model non ci fu più posto: erano diventate troppo costose per un’industria tessile in crisi e troppo lontane dalla realtà della consumatrice media. Si affermò una corrente contraria: nacque il grunge. Questa nuova variante del già conosciuto fenomeno dell’anti fashion, fu commercializzata dall’industria dei cosmetici e da quella della moda ancora più velocemente. Indossatrici che sembravano ragazze raccolte dal marciapiede, con il trucco spalmato ovunque e con addosso vestiti simili a vecchi abiti, scuciti e poi mal ricuciti insieme, furono inizialmente mandate sulle passerelle da giovani designer belgi come Martin Margiela, e attirarono presto l’attenzione della stampa specializzata, alla ricerca di un nuovo stile.

Nel 1996 Margiela mandò in passerella anche donne senza volto, in cui le modelle avevano in viso un tessuto che le nascondeva completamente. Tuttavia, lo stile grunge non dura molto nella moda dei primi anni ’90, che resta comunque piuttosto pessimista. Ad un certo punto, però, il desiderio di bellezza trovò espressione nel nuovo glamour che fece brillare gli occhi e le labbra con glitter e gel adoperati persino nei capelli. Le top model ritornarono alla ribalta, più in forma che mai anche se se alcune, invece, manifestarono apertamente il disagio dell’anoressia. Con il suo lavoro pionieristico, nel 1998 il fotografo inglese Nick Knight fu il primo a intuire che, con il diffondersi di Internet, la moda si stava evolvendo verso un nuovo linguaggio visivo, quello dei film.

Negli anni ’10 del 2000 i fashion film, visibili su pc, tablet e smartphone, sono diventati una delle forme di comunicazione più diffuse. Il film di moda non va confuso con una normale campagna pubblicitaria. Anziché pubblicizzare un singolo prodotto, esso rappresenta una sorta di estensione dell’universo di un marchio, mira a stabilire un legame emotivo con lo spettatore, per indurlo a sognare. Pioniere in questo tipo di linguaggio, definito nell’ambiente con il termine storytelling, per indicare quel tipo di narrazione capace di rendere desiderabili merci e culture, sono griffe come Miu Miu e Chanel che da tempo utilizzano i video per rendere più accattivante e contemporanea la propria immagine. Tra i maggiori fenomeni dei primi vent’anni del Ventunesimo secolo c’è stata senz’altro l’ascesa di Internet, che è arrivato sempre più a influenzare la moda.

Oltre alla progressiva diffusione dell’e–commerce, e di influencer che attraverso la rete indirizzavano gli acquisti di milioni di consumatori, “La rivoluzione di Internet nel fashion system ha segnato un altro traguardo: dopo le pagine di Facebook, gli streaming su YouTube, le immagini su Instagram, il web entra a gamba tesa in un territorio mai calcato prima, la generazione delle tendenze.” La rete inizia a influenzare la creatività. Se la moda oggi è definita da una cosa, essa è la velocità. Dalle passerelle click-to-buy ai direttori creativi che citano il ritmo incessante come motivo dietro le loro partenze, il settore gira con un’intensità sempre vertiginosa.

Spinta dalla tecnologia e dalla necessità di soddisfare gli infiniti appetiti del pubblico online, la moda è un carosello in continua evoluzione di campagne, video, Snapchat e live streaming, che rispondono tutti a una domanda incessante di novità. Ma mentre Internet potrebbe aver spinto le cose all’eccesso, è stato anche responsabile dell’apertura del mondo della moda un tempo segreto, dando agli estranei uno sguardo sui suoi meccanismi interni precedentemente nascosti. Con post sui social media e live streaming alle masse, la sfilata non è più riservata a pochi eletti.

Ma come siamo arrivati qui? Nel 2010, in un’arena al coperto del 12° arrondissement di Parigi, il futuro della moda è cambiato. Il luogo è stato l’ambientazione per lo spettacolo di Plato’s Atlantis della SS10 di Alexander McQueen, ispirato dall’idea di un tempo in cui l’umanità, dopo aver devastato la terra, torna negli oceani. In uno spazio buio, il pubblico ha osservato i serpenti strisciare sulla figura proiettata della modella Raquel Zimmermann, prima che, dall’ombra, due imponenti telecamere meccaniche prendessero vita. Come aveva fatto con il suo spettacolo VOSS della SS01, in cui gli ospiti si erano confrontati con i propri riflessi mentre guardavano una scatola di vetro a specchio, McQueen ha concentrato l’attenzione sul suo pubblico, attraverso telecamere che scrutavano la folla. Alexander McQueen è stato uno stilista unico e magnifico, che ha saputo dare corpo alle sue idee stupefacenti e sicuramente irripetibili. La sua visione era quella di una moda artistica fatta di visionarie sfilate e personalissime interpretazioni.

McQueen ha lasciato un segno indelebile sul modo di portare in passerella le proprie creazioni, con una sfilata che è rimasta nella storia, “L’Atlantide di Platone”, soprattutto per i suoi capi originali e perfettamente sartoriali. Un mix perfetto di tradizione e innovazione che seppe stupire  ed affascinare tutti. La prima modella appariva come emersa con tacchi a plateau incredibilmente alti, il suo vestito in una stampa digitale che virava tra animale e alieno, la sua testa ricoperta da una serie di trecce a forma di cresta. Creature mai viste prima su una passerella, i capelli raccolti all’indietro in imponenti sculture simili a predatori, alcune altissime.

Un tema così rivolto al futuro doveva essere vissuto in ogni aspetto dello spettacolo e McQueen collaborò con lo SHOW studio di Nick Knight per trasmettere la passerella in diretta su Internet. Ma l’inaspettato accadde : poco prima dell’inizio dello spettacolo, la famosa cantante Lady Gaga  twittò  il link dello stream ai suoi milioni di follower, rivelando che il suo nuovo singolo: “Bad Romance” stava per essere presentato in anteprima sulla passerella. In quello che fu probabilmente il primo caso in cui l’alta moda incontrò il potere delle masse digitali, il sito preposto cedette sotto la pressione digitale. Tuttavia, mentre lo streaming faticava a trasmettersi, era stato comunque superato un divario tra l’alta moda e il mondo in generale.

Fu una testimonianza dell’entusiasmo della moda non solo di adattarsi a un mondo in evoluzione, ma anche di essere all’avanguardia e McQueen dimostrò il suo status di designer più visionario del mondo. Tragicamente, doveva essere il suo spettacolo finale, ma passò alla storia come un momento che non solo  definì la sua produzione creativa, ma stabilì anche  il punto di riferimento per il futuro del settore. Per l’Atlantide di Platone erano state installate al lati della passerella,  due telecamere a controllo del movimento, una specie di dinosauri, che erano sui binari e seguivano i modelli lungo la passerella, guardandoli come se fossero una preda.

E all’improvviso queste grandi teste nere giravano con un rapido movimento in picchiata e facevano la stessa cosa scrutando quanti erano seduti in prima fila, e tornavano indietro sulla passerella, e il live streaming dello spettacolo veniva trasmesso sullo schermo. Tutto era capovolto e trasformato in uno spettacolo.

L’Atlantide di Platone, era una collezione creata per fornire una previsione apocalittica del futuro tracollo ecologico del mondo. Con l’umanità composta da creature che si sono evolute dal mare, lo stilista McQueen attraverso il linguaggio della moda in passerella, volle dimostrare come l’uomo potrebbe tornare a vivere in un futuro sottomarino, mentre la calotta glaciale si dissolve e la terra è inospitale. Lo stilista colto e visionario, Alexander McQueen, evase dal suo stampo scenografico per abbracciare le nuove tecnologie informatiche, e il dramma dell’immagine in movimento, lo posero all’avanguardia del cambiamento.

Da allora in poi , il successo di una collezione o di una campagna dipendeva anche  dalla loro “spendibilità” sui social, dalla fotogenia e dalla capacità di diventare virali. Tra le migliaia di immagini di moda proposte dai media nel 2018, a esempio, è rimasta emblematica quella della modella di Gucci, sotto la direzione creativa dello stilista Alessandro Michele, che sfilò con in mano un clone della propria testa mozzata, condivisa ovunque immediatamente, è diventata ciò che si definisce un “meme”. Questo termine fu coniato nel 1976 dall’etologo Richard Dawkins per indicare un’entità di informazione replicabile. Un altro fenomeno divenuto sempre più importante con l’ascesa di Internet è quello dell’ e-commerce, rafforzatosi moltissimo nel 2020 in seguito alla pandemia di coronavirus.

Se un tempo per fare acquisti si passeggiava per via Montenapoleone o per via Condotti, dal principio del secondo millennio sempre più persone fanno uso del web per i loro acquisti. Non bisogna però pensare che il web abbia messo in ombra il potere seduttivo del negozio vero e proprio. Anzi, quello che accade sempre più spesso e che si scelga in negozio, dal vivo, che cosa comprare e poi si acquisti online. Non per niente i negozi reali vanno acquisendo sempre più importanza nell’economia di un marchio: vi si ha la possibilità di vedere, toccare con mano, provare un prodotto che poi verrà acquistato più vantaggiosamente in Internet.

Dal momento in cui Alexander McQueen aprì le passerelle al vastissimo e variegato pubblico in rete, attraverso la trasmissione in diretta streaming, sono stati sempre più numerosi gli stilisti, ed i brand di moda ad essi correlati, che hanno adottato il canale digitale come ulteriore mezzo di comunicazione. Attraverso la “rete” gli stilisti ed i brand di Moda hanno ottenuto un consenso ed un avvicinamento al pubblico sempre più significativo.

Finalmente il pubblico di appassionati di Moda, ha accesso a tutte le passerelle e a tutti i Fashion show, pur restando un caposaldo la classica sfilata di Moda, oggi appartiene a tutti coloro che hanno voglia di curiosare ed assistere allo show. Continuano ad esistere, ovviamente, le passerelle a cui è possibile accedere solo su invito della maison, ma le stesse sono contemporaneamente trasmesse in diretta live streaming. Questa apertura alla digitalizzazione della comunicazione di Moda, prima appannaggio di pochi eletti, ha portato i direttori creativi delle maison e dei brand a creare linee di abbigliamento capaci di attrarre anche il pubblico della “rete”.

Potremmo definire questo fenomeno delle passerelle di Moda in modalità “open show”, una ulteriore conferma della sempre più evidente democratizzazione della Moda. Il percorso tecnologico intrapreso dalle maison e dai brand di Moda sin dal primo decennio del’2000, procede alla massima velocità. La Moda ne è sempre più attratta, portavoce com’è, dei bisogni sociali e dei mutamenti culturali, oggi si proietta ben oltre le dirette in live streaming, e si lancia nel particolare “ultra mondo” delle esperienze cosiddette immersive, che il Metaverso offre. Il termine Metaverso compare per la prima volta nel 1992 nel romanzo distopico dello scrittore americano Neal Stephenson: “Snow Crash” in cui il protagonista, tal Hiro, conduce una esistenza misera, consegnando pizze.

Ma nel mondo virtuale, in cui ama rifugiarsi, il protagonista, vive immerso tra repliche umane digitali come lui. Nel mondo virtuale, Hiro si trasforma in un principe guerriero, capace di sconfiggere i demoni che tramano di hackerare tutti i computers del mondo. Anche ad un occhio  non esperto è facile intuire potenzialità e opportunità in termini di formazione, di intrattenimento e business per qualsiasi settore, dal gioco all’arte, dai servizi alla moda. In questo luogo “esteso” sarà più semplice e immediato dialogare con chiunque: in primis con i nativi digitali, avvezzi sin dalla più tenera età a immaginarsi abitanti in un mondo dai confini fluidi, tanto più interessanti perché personalizzabili e reinventa abili ogni volta che si vuole.

Ma non solo: anche gli utenti che si sono tenuti distanti sinora dalle soluzioni ad alto tasso tecnologico, potrebbero invece, farsi attrarre per la prima volta da una proposta così innovativa, ma allo stesso tempo semplice e intuitiva ad approcciare. Sotto il profilo della progettazione, il Metaverso nella sua versione attuale non è che l’evoluzione dei primi esperimenti di mondo virtuale, comparsi all’inizio degli anni’80 del Novecento, con i quali condivide posizionamento e identità. Per dirla con il saggista Ugo Volli nel suo volume intitolato “Contro la Moda”: “.. La moda è per gli psicanalisti la forma organizzata del narcisismo; espandendosi a tutta la vita, essa ha trasformato tutti in contemplatore della propria immagine. Lo specchio è lo strumento dominante del nostro tempo, nella civiltà delle immagini noi narcisisti ci rispecchiamo, e lasciamo cantare invano la ninfa Eco, armata di solo linguaggio. Le immagini, e non i suoni o le parole, ci attraggono. Siamo troppo innamorati di noi per badare ad altro. Per questo l’imperativo categorico è di essere tutti simili e dissimili insieme. Far significare l’insignificante è un’altra legge della forma moda”.( U. Volli, Contro la moda, Feltrinelli Editore, Milano, 1988).

Gli oggetti della moda non sono valutati né per il loro valore d’uso vero e proprio, né per il loro valore d’uso estetico. La forma moda è dunque progressista: questa è la sua natura più essenziale, essendo conforme ai piaceri della maggioranza, essa è anche forma democratica. La società dei consumi è la prima al mondo ad aver razionalizzato i sogni e le aspirazioni di tutti, nessuna cosa è fuori dalle possibilità di ognuno.

Seguire o essere alla Moda?  Quale scenario può essere più interessante di un mondo virtuale, che ogni volta è reinventabile, in cui gli infiniti specchi cui la nostra “altra” identità rimanda, raccontano una storia dalle premesse, e dunque dagli esiti imprevedibili, e per questo stimolanti? Un mondo in cui potremmo stabilire di volta in volta, quale ruolo assumere e in che campo giocare ?

Infatti, ognuno di noi, avrà la possibilità di entrare nel Metaverso con il proprio avatar, cioè l’immagine o la rappresentazione grafica scelta per vivere il mondo virtuale. Il grado di aderenza dell’avatar alla realtà fisica della persona che rappresenta è mutevole, condizionato dalle possibilità di personalizzazione offerte dalla piattaforma, su cui viene generato e ad esso, quindi, legate.

Ogni Avatar può essere dotato di un’identità detta URL ossia: Universal Resource locator, virtuale, che differisce da quella IRL, in Real life di chi lo adotta, in un numero infinito di combinazioni e permutazioni. L’impatto, sul concetto di identità e rappresentazione, è enorme, e lo è ancora di più per il mondo della Moda.

Secondo uno studio dell’Institute of Digital fashion, un quinto degli utenti presenti sulla piattaforma Roblox modifica giornalmente il proprio avatar: lo ritiene un modo per ottenere un coinvolgimento collettivo superiore nell’esperienza e una sottolineatura della propria espressione personale. Un’opportunità tutta da esplorare anche per i brand di moda, che possono offrire i prodotti di ogni tipo per permettere agli utenti di rappresentarsi: abiti in primis, ma anche make-up orologi gioielli e così via. Più pertinente e originale sarà l’offerta, più il pubblico sarà disponibile a pagare per possedere, anche se solo virtualmente, un set di prodotti in grado di migliorare il proprio aspetto.

Possiamo affermare che nell’era digitale, contemporanea, in cui viviamo, non ci vestiamo più solo per le serate in presenza e per attirare gli sguardi del mondo reale, ma anche per distinguerci nel regno digitale. I social media rappresentano una serie di piccoli schermi che diffondono ogni nostra mise a migliaia di follower, tra cui ci sono amici e familiari, colleghi e perfetti sconosciuti, il modo in cui ti vesti e la misura in cui mostri una versione aspirazionale di te stesso differisce a seconda della piattaforma. L’esistenza di un dress-code appropriato per ogni social media, professionale, glamour, civettuolo e familiare, è un’opportunità importante per le case di moda, che possono utilizzare questa voglia di contatto e di dialogo già consolidata come volano per entrare nel Metaverso con un certo grado di riconoscibilità del mondo digitale.

Potremmo definire il metaverso come un ultra luogo in divenire che le aziende hanno davanti a sé. Esso rappresenta, infatti, un universo ultra perché supera le nostre conoscenze tradizionali e si arricchisce di una serie di elementi inediti ed è sull’orlo di qualcosa di incredibilmente ignoto, pur non essendolo del tutto. Dall’incontro di esperienze virtuali e fisiche mescolate, è possibile immaginare una vera e propria rivoluzione per le scene culturali e artistiche e per le possibilità di espressione creativa in molti ambiti diversi, tra cui la Moda.

Attraverso il Metaverso la Moda si rende protagonista ancora una volta dei mutamenti socio culturali di cui ne identifica i canoni estetici e li tramuta in status. Verosimilmente, però, in un’epoca di profondi conflitti sociali a livello globale, è presumibile la coesistenza di due tendenze contrapposte in cui una cavalca l’onda delle innovazioni tecnologiche, presentando creazioni in NFT , e l’altra che rimanda alle creazioni sartoriali di matrice artigianale e tradizionale. Infine, l’arduo compito di ascoltare e tradurre i desideri legati all’abbigliarsi restano in mano alla “figura” professionale dello stilista, oggi mutuata in direttore creativo, colui che funge da tramite tra le maison ed il proprio Heritage e gli attuali fruitori di una Moda che guarda al passato con lo sguardo rivolto al futuro, proponendo creazioni di  altissimo livello ma fruibili da tutti.

L’espressione della Moda di oggi, infine, riflette i turbamenti di una società variegata che convive in equilibri molto precari. Si assiste infatti a sfilate di Moda phygital, (in presenza e in digitale contemporaneamente), piuttosto conformate le une alle altre, attente a compiacere un pubblico open space facile da sedurre ma difficile da fidelizzare, e ben pochi spunti di riflessione sono presentati attraverso i capi in passerella. Il sistema moda sembra avere oggi, una certa difficoltà di espressione e rare volte ha atteggiamento di  denuncia o di critica, diversamente da quanto avvenuto in passato, in cui la passerella era anche motivo di provocazione per attirare l’attenzione delle masse, verso temi sociali importanti come quelli legati al razzismo, al femminismo ed al consumismo.

Certamente oggi le case di Moda dimostrano una certa attenzione verso un approccio più sostenibile in termini ambientali con produzioni virtuose e tracciabili , tuttavia, la Moda attuale pare aver perso la voglia di esprimere davvero ciò che sente, incapace di denunciare anche  il disagio del turbolento momento storico in cui viviamo. La storia della Moda deve continuare ad essere espressione dei tempi e  oggi, nel XXI secolo, così particolarmente ricco di mezzi di comunicazione e di informazione alla portata di tutti alla velocità della luce, la moda deve riuscire a riappropriarsi del suo diritto alla “parola” attraverso l’abbigliamento.

Gli abiti del nuovo Millennio raccontano di una società tecnologicamente avanzata che guarda al passato per esaltarne la bellezza e la maestria sartoriale, in una visione non convenzionale della società civile, attraverso campagne pubblicitarie e passerelle capaci di esaltare la parità di genere e di fornire nuovi modelli di stile per una nuova Moda inclusiva. Le passerelle restano il linguaggio preferito ed il più naturale della Moda, i nuovi mezzi di comunicazione offrono a sostegno dei creativi infiniti modi e infiniti mondi in cui potersi esprimere. Ai creativi del futuro resta il compito fondamentale di esprimere i mutamenti socio culturali attraverso le loro creazioni phygital, per raccontare la storia per mezzo della Moda alle future generazioni.

Loredana Cacace

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