Resoconto sull’incontro sulla “responsabilità” come “didattica della concretezza” nel significato profondo, ed attuale, del “rendere conto”, collegato strettamente con il livello etico, in cui il pensiero delle donne ha espresso un pensiero diverso in un confronto tra le “Donne che ce l’hanno fatta” e gli “Uomini illuminati”. (19 maggio 2022).
Introduce Isa Maggi, coordinatrice nazionale Stati Generali delle Donne
Che cos’è la responsabilità? Quando è nato questo termine? Ha un significato univoco? Un’etica della responsabilità è possibile? Queste le domande a cui varie filosofe hanno cercato di dare risposte attraverso un’analisi delle origini del concetto, delle sue trasformazioni e dei suoi paradigmi fondamentali: giuridico, politico, filosofico-morale.
Nell’incontro di oggi abbiamo voluto dare al concetto di responsabilità il significato di “didattica della concretezza” nel significato profondo, ed attuale, del “rendere conto”, collegato strettamente con il livello etico, in cui il pensiero delle donne ha espresso un pensiero diverso.
La responsabilità nelle sue infinite declinazioni assume nella riflessione proposta oggi la sua analisi nell’ambito giuridico, professionale, medico, scientifico, culturale e filosofico-morale, in un confronto tra le “Donne che ce l’hanno fatta” e gli “Uomini illuminati”.
Il pensiero femminile ha abbandonato la strada dell’ etica metafisica verso la responsabilità come cura del mondo comune (“cura politica” secondo Jean Tronto), come pratica sociale, o cura democratica, che comporta la “riduzione delle asimmetrie” nelle relazioni stesse di cura.
Scrive Francesca Brezzi, una delle Donne che ce l’hanno fatta, docente, filosofa, “La cura quindi non confinata solo nel privato dei legami personali, ma quale dimensione morale e politica del rapporto individui-stato, da cui si disegna la ricontestualizzazione della politica in termini pluralistici e democratici. Non solo, ma la responsabilità risponde alle pressioni dell’individualismo esasperato e rompe l’isolamento, consente di ritrovare un sentimento di appartenenza, un impegno con l’altro in quanto segno significativo dell’identità dell’Io”.
E Vittoria Franco nel volume “Responsabilità” analizza il concetto dalle prime discussioni nelle quali prende forma il paradigma filosofico-morale, a partire dalla metà dell’Ottocento, con John Stuart Mill e i deterministi, che identificano l’essere responsabile con l’essere colpevole e la responsabilità con l’imputabilità. Fra le reazioni a tale impostazione, quelle dei kantiani e degli spiritualisti francesi, i quali propongono interpretazioni che lasciano spazio alla libertà e alla morale. Fra loro, due giovani filosofi: Lucien Lévy-Bruhl, col suo concetto di responsabilità vuota, e Jean-Marie Guyau, con la nozione di morale senza obbligo né sanzione. Nel prosieguo dell’analisi l’autrice, visitando alcune delle teorie etiche più importanti del Novecento, propone l’idea di un’etica della responsabilità come risposta possibile nell’epoca della fine della metafisica.
In Hannah Arendt vengono rintracciate tre diverse figure della responsabilità: come colpa, facoltà di giudizio e cura del mondo comune; in Ágnes Heller emerge la figura dell’etica della personalità; in Emmanuel Levinas la responsabilità si libera completamente dal peso della sua storia giuridica in quanto imputabilità e diviene darsi totalmente all’altro. E infine, nelle critiche dei postmoderni all’universalismo – Bauman, Derrida, Apel, ma anche Ricoeur – l’autrice individua il luogo d’origine di un’etica della responsabilità come «autodeterminazione responsabile» e facoltà di giudizio. Si dà così conto del fatto che in essa sono in gioco le due libertà, dell’io e dell’altro, che devono trovare il modo e la misura del con-vivere nell’equilibrio fra autonomia e limite. La responsabilità sorge nel momento in cui si arriva alla consapevolezza di lasciar essere anche la libertà dell’altro.
Laura Caradonna, Consulta delle Donne di Milano
Nella Consulta femminile di Milano la riflessione sulla parola responsabilità è da sempre all’ordine del giorno. Perché responsabilità viene da rispondere, dunque implica una relazione con l’altro, soprattutto se questo è più fragile. In tutti i nostri progetti che hanno come finalità ultima l’analisi e la ricerca di soluzioni a problemi annosi che riguardano le donne in primis e le categorie più deboli della società, la responsabilità è la chiave del nostro impegno. Essere responsabili implica il dovere di affrontare con serietà, disponibilità e competenza i nostri compiti, rispondendo prima di tutto alla nostra coscienza di quello che facciamo. A maggior ragione se ci dedichiamo a chi è in difficoltà. Essere responsabili è dunque un dictat morale alla quale siamo chiamate e per il quale ha senso il superamento di tante divisioni, di tanti ostacoli, di tante sfide che spesso incontriamo non solo nella vita professionale e privata ma anche in quella associativa. Responsabili di quello che abbiamo ereditato dalle donne che hanno combattuto per noi negli anni passati, responsabili di quello che lasceremo alle generazioni future, siamo responsabili ogni giorno sia come donne sia come cittadine del mondo.
Per questo occorre impegno, attenzione , umiltà e anche tanto amore.
Caterina Mazzella. Past Presidente Nazionale Fidapa Bpw Italy, Rappresentante Fidapa in Alleanza delle Donne di SGdD
Buon pomeriggio a tutti,un grazie speciale rivolgo alla Coordinatrice Isa Maggi sempre pronta a spronarci a riflettere ed agire grazie a questi preziosi momenti di incontro e di confronto che costantemente coinvolgono esperti, Autorità istituzionali, Associazioni e parti sociali.
Siamo al secondo incontro (mensile)e, dopo aver affrontato il tema della leadership applicata ai vari ambiti della vita sociale, oggi affronteremo il tema della responsabilità intesa come “didattica della concretezza” e del “dare conto” (queste le parole usate da Isa).
E non è un caso se oggi Isa abbia voluto, per l’Introduzione dei lavori, la presenza di Rappresentanti di associazioni al femminile quali la Fidapa e il Soroptimist.
In questo costruttivo contesto, non poteva infatti mancare la “voce” delle oltre 10mila socie della Fidapa Bpw Italy presieduta dalla dott.ssa Fiammetta Perrone e da me rappresentata in seno all’Alleanza delle Donne di SGdD.
Tornando al tema di oggi il mio pensiero non può prescindere dall’esperienza vissuta nei significativi ruoli ricoperti all’interno dell’Associazione
In Italia, l’Associazione Fidapa- Affiliata alla Bpw International- è composta da 10.000 socie raggruppate in 7 Distretti ed in 306 Sezioni, distribuite su tutto il territorio nazionale. Da più di 90 anni, secondo la previsione statutaria, svolge un movimento di opinione costante sulla condizione della donna fin dall’infanzia, promuovendone la crescita culturale, le occasioni di pari opportunità, il riconoscimento dei diritti, l’inserimento nella vita sociale, politica e amministrativa.
Ben vengano dunque queste riflessioni sulla: RESPONSABILITA’ quale sostantivo femminile.
La nostra esperienza ci insegna quotidianamente che difficilmente, nella vita sociale, in politica, nelle nostre stesse Associazioni, si riesce a far convergere i diversi punti di vista verso il riconoscimento di valori condivisi, che teoricamente dovrebbero far parte del bagaglio di conoscenze di ogni comunicatore “responsabile”.
Per questo accogliamo con favore la notizia ,che sembra finalmente tornare d’attualità, della questione della prospettiva universale di regole e valori, questione straordinariamente urgente, considerate le caratteristiche, strutturali e sovrastrutturali, del sistema-mondo e di quell’economia della conoscenza e della condivisione che sta ridisegnando assetti e prospettive destabilizzanti.
Su questo campo, la sfida che ci aspetta è complessa ma, al tempo stesso, affascinante e possibile : nel predetto sistema-mondo le donne sono state capaci di scrivere pagine di autentica responsabilità, dimostrando di saper declinare contemporaneamente ruoli familiari e lavorativi con concretezza, determinazione e risultati tangibili.
Di certo, questa “ marcia in più” è stata frutto di una sperimentata resilienza, maturata attraverso battaglie di affermazione di parità di genere e di diritti per lungo tempo negati.
Muovendo da tali presupposti, occorre ora impegnarsi per “ripensare” la responsabilità anche in termini di rendicontazione sociale: “dar conto”, ma innanzitutto “tenendo conto” degli obiettivi da perseguire per il ben-essere dell’altro.
Questo nuovo paradigma andrà declinato in tutti i settori formativi, lavorativi e sociali, associazioni comprese, non dimenticando che i valori non possono essere imposti a priori: si tratterà di elaborare una pianificazione strategica con la condivisione di obiettivi-risultato negoziati e condivisi, ponendo attenzione a processi e ruoli orientati a una leadeship distribuita e monitorata con descrittori di funzione (chi fa/che cosa/quando).
Esaltare questa concretezza significherà ridurre lo scarto tra “dichiarato” e “agìto”, assicurando l’efficacia dei risultati.
Resta inteso che questo ideale filo rosso dovrà unire l’imperativo della responsabilità con l’etica della cura, missione fondamentale e irrinunciabile.
Mutuando il pensiero del filosofo Kant: “Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuazione di una vita autenticamente umana”.
Grazie
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Giovanna Guercio, Presidente Nazionale Soroptimist
Buon giorno a tutte e a tutti.
Ringrazio ISA MAGGI coordinatrice e anima degli Stati Generali delle donne per aver dato vita a questo incontro che affronta un tema impegnativo e che mi è molto caro e saluto le illustri relatrici e relatori di oggi.
Cosa si intende per RESPONSABILITA in una associazione come il Soroptimist di cui ho l’onore di rappresentare l’Unione Italiana.
RESPONSABILITA Rispetto alle Socie e di tutte le Socie nei confronti delle altre Socie.
RESPONSABILITA Rispetto all’Etica fondante
Il Soroptimist International d’Italia, “rete” di oltre 5.000 Socie, manager e professioniste provenienti da diverse realtà lavorative, riunite in 161 Club in tutto il territorio nazionale e parte di una organizzazione mondiale di oltre 70.000 Socie distribuite in 132 paesi.
Il Soroptimist nasce negli Stati Uniti nel 1921, e ottiene nel 1948 lo stato consultivo presso l’UNESCO e, nel 1950, lo stato consultivo di categoria C presso l’ONU. Ogni anno,
il 10 dicembre, festeggiamo il “Soroptimist Day”, nel giorno dell’anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti umani, ai cui principi l’Associazione si ispira.
Ricordiamo che il Soroptimist è nato poco più di 100 anni fa – a Oakland in California, “con un progetto di respiro internazionale”[1], come scrive la nostra socia e storica Anna Maria Isastia, e si è diffuso in tutto il mondo.
Proprio per il suo impegno verso i Diritti Umani, riconosciuto a livello internazionale, il Soroptimist International ha potuto partecipare con la socia brasiliana Berta Lutz – una delle quattro donne su 800 delegati – ai lavori preparatori della Carta dell’ONU nella Commissione presieduta da Elisabeth Roosevelt.
Dopo il 1948 l’impegno del Soroptimist è continuato sia con la sua partecipazione ai vari Organismi Internazionali sia portando in quelle sedi le voci delle varie Federazioni costituitesi nei decenni: Americhe ed Europa (1928), Gran Bretagna e Irlanda (1934), South West Pacifico (1978) e Africana (2020).
RESPONSABILITA NEI CONFRONTI DEI PIU FRAGILI : DONNE E GIOVANI
Soroptimist è un’Associazione di donne che si batte per le donne affinché possano realizzare le loro legittime aspirazioni, esprimere appieno le loro potenzialità:
Tutto ciò nella consapevolezza che l’uguaglianza di genere che il Soroptimist persegue è una leva strategica per la società che favorisce crescita economica e benessere di tutti, pace e coesione mondiale, sostenibilità dell’economia globale, della tutela delle persone più vulnerabili.
In questo quadro di riferimento si collocano le nostre principali iniziative in favore delle donne, iniziative principalmente di formazione e di sostegno:
- attraverso SDA Bocconi di Milano offriamo oltre un centinaio di borse di studio l’anno rivolte a neolaureate, “Leadership e Genere – Una sfida sostenibile” per guidarle ad acquisire autoconsapevolezza e strumenti per raggiungere i propri obiettivi lavorativi senza rinunciare al proprio modo di essere più autentico.
- Con il progetto STEM(NERD-Non È Roba per Donne?)” intendiamo diffondere la passione per l’informatica tra le giovani studentesse e abbattere i pregiudizi di genere rispetto alle materie scientifiche, con l’obiettivo di ampliare l’orizzonte delle loro scelte universitarie e diminuire il divario nel mercato del lavoro. Il progetto, nato da IBM, oggi vede la partecipazione di 24 atenei con il fattivo sostegno dei Club Soroptimist di tutta Italia.
- MENTORING
INTERVENTI PER I GIOVANI CON LE SCUOLE
La dispersione scolastica implicita, cioè l’incapacità di un ragazzo/a di 15 anni di comprendere il significato di un testo scritto, è al 51%. Un dramma, non solo per il sistema di istruzione e per lo sviluppo economico, ma per la tenuta democratica di un paese. I più colpiti sono gli studenti delle famiglie più povere, quelle che vivono al sud e quelle con background migratorio”. Lo ha detto Claudio Tesauro, Presidente di Save the Children Italia aprendo i lavori di “Impossibile” la quattro giorni di riflessioni e proposte sull’ Infanzia e l’Adolescenza.
ll presidente di Save The Children ha ricordato inoltre, che ·”più di due milioni di giovani, ovvero 1 giovane su cinque fra i 15 e i 29 anni, è fuori da ogni percorso di scuola, formazione e lavoro. In sei regioni, il numero dei ragazzi e delle ragazze Neet ha già superato il numero dei ragazzi, della stessa fascia di età, inseriti nel mondo del lavoro.”
Il Soroptimist in tema di formazione è già molto impegnato, con progetti di cittadinanza attiva e di contrasto ai fenomeni di bullismo e cyberbullismo, ma è chiaro che quanto facciamo non basta, dobbiamo reagire all’attuale situazione con nuove e più forti iniziative, probabilmente dobbiamo trovare nuove forme di supporto, più adatte ai tempi e ai bisogni di ragazze e ragazzi.
Siamo consapevoli che la crescente povertà educativa sarà una delle principali sfide per il prossimo futuro di tutte noi Soroptimiste, così come per tutta la società e dovremo lavorare sodo affinchè diventi la responsabilità centrale per i vari soggetti che concorrono alla formazione dei giovani.
Grazie.
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Susanna Sciaky, Presidente nazionale Adei Wizo
Vi porto con piacere una testimonianza su un tema che da sempre sento molto presente e forte sia nel mio contesto associativo sia nella vita privata.
Voglio parlare di responsabilità individuale e di quanto in quest’epoca sia sempre più frequente la sensazione di deresponsabilizzazione che ha il sopravvento in chi non sa ammettere i propri errori.
Queste persone spesso non sono in grado di assumersi, nel presente e nel futuro progressivo, una condotta che rispetti gli obblighi delle loro posizioni e che sia in adesione al disegno degli impegni che queste posizioni richiedono.
La deresponsabilizzazione si può legare al concetto di colpa su due livelli: il primo, molto più istintivo, che a fronte di un errore e di una mancanza, dice “è colpa degli altri”. Il secondo, più sottile e che richiede una buona dose di autocritica, ricade sulla consapevolezza dell’inadeguatezza delle proprie scelte.
Quindi “io non sono adatto”, “non è il ruolo che fa per me”, “ho accettato, ho scelto per motivi lontanissimi da qualsivoglia consapevolezza”.
Sigmund Freud diceva “La maggior parte delle persone non vuole veramente la libertà, perché la libertà comporta responsabilità, e molte persone hanno paura della responsabilità” ed è bene tener conto di queste parole se vogliamo raggiungere una crescita personale che passa dall’affrontare questa paura già fin dalla più giovane età, quindi nella fase dell’educazione con il supporto di altri, ma anche da adulti con l’unico supporto di sé stessi.
Se non si affrontano i problemi, le domande, le scommesse e i bivi che la vita presenta assumendosi la responsabilità di scegliere, non si cresce e non si diventa adulti, come altresì è importante saper chiedere scusa o perdono o dire la magica parola “GRAZIE”
Chiedere scusa o ringraziare non significa debolezza, anzi dimostra la forza e la capacità di riconoscere un proprio sbaglio, assumendosene la responsabilità, e potendo così ricominciare da capo o migliorare una situazione.
Vuol dire prendere una posizione ben netta che, partendo da uno svantaggio apparente, si trasforma in un vantaggio evidente.
L’ammissione di un errore è parte importante della soluzione di conflitti o dell’apertura di dialoghi, e pone così le basi di nuovi rapporti più sani e positivi, dove si può riconquistare il terreno della stima e del rispetto reciproco.
È importante sapere individuare i propri errori, che possono essere corretti e saperli ammettere a noi stessi, prima di tutto, e agli altri.
Perché quasi tutte le situazioni possono essere rimediate, proprio partendo da sé stessi in quanto, nel momento in cui uno si assume la responsabilità di sé stesso, riesce a trasmettere al suo inconscio un messaggio di sicurezza e di serenità interiore.
Essere responsabili implica imparare a gestire i problemi in prima persona, senza delegare ed è, in definitiva, un modo di essere, una filosofia in cui la coerenza diventa il fulcro dell’esistenza stessa e si accompagna alla riflessione prima di agire.
Assumersi la responsabilità di sé stessi e delle proprie scelte fa si che proprio sia il controllo del timone della nostra vita e la libertà di scelta di quale direzione intraprendere: in due parole significa essere padroni di sé stessi.
Alla base del volontariato e dell’associazionismo c’è la volontà del singolo di assumersi una responsabilità nei confronti di una comunità o di un’ideale e l’impegno sociale che ne deriva, ha una sua ragion d’essere se ha lo scopo di modificare la società ai fini del progresso della qualità della vita di chi è più debole.
Qui entra in gioco ancora una volta la responsabilità che porta chi si dedica al volontariato a prendersi cura del prossimo, spendendo le proprie energie e il proprio impegno in progetti vicini e immediati nel tempo o anche nella visione del futuro e del cambio della società.
Proteggere: dal latino pro (davanti) Tegere (coprire) : il coprire che difende. Non è questa responsabilità?
E Promettere (nel senso del futuro): promettere come assicurare e far sperare
Chiunque accetti una carica dovrebbe essere ben consapevole degli obblighi che questa comporta e assolverli con leggerezza, senza lamenti (pena la ridicolizzazione e la dimostrazione plateale e pubblica della propria inadeguatezza).
Ogni nuova responsabilità assunta, ovunque e soprattutto nel nostro campo, comporta un lavoro di adattamento con la propria vita privata, nel senso che quest’ultima deve necessariamente far posto a incarichi e obblighi previsti, che sono di fondamentale importanza anche se non sono retribuiti.
O, invece mi piace pensare, che siano gratuitamente retribuiti, affettivamente retribuiti, solidarmente retribuiti.
Si possono vivere insieme situazioni difficili ed emotivamente molto forti: questo crea legami.
Se questo non succede, se la nostra vita non si adatta, è meglio prendere un’altra strada. È alquanto imbarazzante ricoprire ruoli solo per dare pubblicamente visibilità alla propria immagine.
Questo discorso è altrettanto valido nel volontariato femminile.
Dalla tradizionale e poco attuale definizione di “angeli del focolare” , le donne si sono affrancate e realizzate, uscendo da un cliché ormai stereotipato, nella vita professionale e anche ampio spazio hanno conquistato nel mondo dell’associazionismo, superando negli ultimi anni il numero di volontari maschi e, con grandissima saggezza, lungimiranza ed abnegazione dedicano tantissimo tempo a questa attività.
Tutto questo è, ancora una volta, responsabilità individuale e nei confronti del prossimo: individualmente, perché coinvolge in prima persona, collettivamente perché il volontariato è per definizione verso l’altro.
Il Talmud dice: kol israel arevim ze la ze, “tutti i figli di Israele sono responsabili gli uni per gli altri”.
Questo è uno dei principi dell’etica ebraica.
La responsabilità per l’altro, ach’raiuth, è al centro della riflessione di eminenti filosofi di origine ebraica come Emmanuel Levinas, Martin Buber, Hannah Arendt ed Hans Jonas, che ne hanno radicalizzato l’essenza fino a rappresentare l’intera esistenza umana come infinita responsabilità per l’altro.
Per Levinas la responsabilità è la struttura essenziale, primaria e fondamentale della soggettività. Per Buber la responsabilità è la capacità di dare risposte all’altro, quindi un concetto strettamente collegato alla relazione.
Il Talmud dice: io in prima persona ho la responsabilità che devo assumermi e ciò è il concetto che deve permeare la mia esistenza.
Ma devo anche assumere sempre una responsabilità in più rispetto all’altro: sono responsabile perfino della sua responsabilità verso di me – en lavadar sof, cioè all’infinito
Nell’etica ebraica il senso di responsabilità, non solo individuale ma collettiva, è talmente forte da essere posto a guardia della salute e dell’integrità morale dell’individuo.
Parimenti esiste una responsabilità del singolo anche nel momento in cui assiste a un’azione sbagliata compiuta da altri nei confronti di terzi e non fa nulla per evitarla.
Si assume così la responsabilità non solo delle proprie azioni ma anche di quelle altrui.
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Ignazia Satta, Consulta Femminile di Trieste
Buon pomeriggio a tutte. Grazie a nome della Consulta Femminile di Trieste per questa occasione di scambio alla quale ci avete invitate a partecipare. Il nostro incontro di oggi è presentato come un confronto sulla responsabilità tra “donne che ce l’hanno fatta” e “uomini illuminati”. Nel pensare il mio contributo, si è imposta subito una prima domanda, inevitabile: Chi sono le donne avvocate che “ce l’hanno fatta”?
N o r m a l m e n t e q u a n d o s i u s a l’espressione “avercela fatta” per le donne, si fa riferimento a quelle tra noi c h e h a n n o ra g g i u n t o p o s i z i o n i soddisfacenti nella vita professionale, hanno infranto le barriere dei pregiudizi, hanno una buona remunerazione. Aggiungo, che a mio avviso, un’avvocata e in genere una donna può dire di avercela fatta quando ha raggiunto questi risultati senza essersi dovuta appiattire su un modello maschile, quando non ha dovuto rinunciare apriori al suo femminile, in primis a dare compimento a un eventuale desiderio di maternità. I fatti e i numeri ci dicono che le donne avvocate hanno superato il numero degli uomini: siamo il 52% del totale; ci dicono anche che abbiamo alcune donne avvocate titolari di studi legali ben avviati; che abbiamo 1 donna presidente del Consiglio Nazionale Forense (che è l’organismo apicale dell’avvocatura che rappresenta l’intera classe forense); che abbiamo alcune donne che sono presidenti di Consigli degli Ordini degli Avvocati. Questi dati vanno però incrociati con altri dati, quelli che ci dicono che resta un forte gap retributivo tra uomini avvocati e donne avvocate che guadagnano mediamente il 65% in meno degli uomini. Il che significa che ci vogliono quasi due avvocate donne per raggiungere il reddito di un avvocato uomo. Le ragioni sono molteplici: barriere culturali e pratiche in accesso alle attività giuridiche più remunerative e pesante incidenza del lavoro di cura sulle donne avvocate, al pari di quel che accade a tutte le altre donne italiane. Ricordo che nel nostro paese, in media, le donne svolgono 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno mentre gli uomini un’ora e 48 minuti.. Un altro dato ancora va considerato: ho detto che la presidente del CNF è una donna ma su 33 membri consiglieri del CNF ci sono solo 9 donne.
L a s i t u a z i o n e d e l l e d o n n e nell’avvocatura insomma non è diversa da quella che le donne vivono in altri settori della società. Gli ostacoli che incontriamo non sono più normativi, anche se qualcosa ancora si potrebbe fare, ma sono soprattutto ostacoli culturali, sono i pregiudizi e gli stereotipi invisibili che occupano i nostri spazi e ci impediscono di avere e di beneficiare delle opportunità che ci spetterebbero in base ai nostri meriti personali. Ecco allora – proprio accogliendo una prospettiva di responsabilità femminile che l’incontro di oggi ci propone – sulla base di quanto vi ho riportato, dobbiamo imporci di non affermare che ci sono avvocate che “ce l’hanno fatta” perché non siamo ancora tutte in condizione di “potercela fare”. La strada non è ancora aperta: nessuna di noi può dirsi arrivata fino a quando anche tutte le altre saranno in condizioni di “poter arrivare”. Nessuna di noi avvocate potrà dire responsabilmente di avercela fatta finché – per prendere in prestito le parole che ha utilizzato la nostra Corte Costituzionale nella famosa sentenza sui “masi chiusi[1]”- ciascuna di noi, nessuna esclusa potrà – tanto quanto i colleghi uomini – raggiungere qualunque posizione e reddito perché “ha i migliori r e q u i s i t i ” p e r l ’ a s s u n z i o n e d i quell’incarico, perché “ha i migliori requisiti” per la conduzione di quel procedimento, “perché ha i migliori requisiti” per ricoprire quel ruolo e non avremo bisogno di due avvocate per produrre il reddito di un avvocato.
S i è p a l e s a t o c o s ì u n a p r i m a declinazione della responsabilità sociale dell’avvocata: la sorellanza. Termine che tutte voi conoscete e che non ha bisogno di spiegazioni storiche. Sorellanza significa anche essere portatrici del pensiero del cambiamento. Significa contribuire a rimuovere quei pregiudizi di genere che – per usare le parole della Consigliera di Cassazione, Paola di Nicola Travaglini – “riempiono l’aria e non permettono di respirare”. Significa compiere l’esercizio quotidiano e costante di domandarci se di fronte alle diverse situazioni di cui siamo partecipi o spettatrici – se in tutti i diversi momenti del procedimento giuridico, dentro e fuori dal processo, siamo corree – seppur inconsapevoli – “di una “distorsione” percettiva o riusciamo a vedere ruoli e condotte fuori dalla gabbia mentale dei pregiudizi[2]”. Significa utilizzare – e qui ringrazio la collega Rigon per le sue brillanti sintesi – l o s t r u m e n t o c o r r e t t i v o d e l l a consapevolezza “restituendo a ciascuna e ciascuno la sua libertà di espressione e di autodeterminazione[3]”. In questa declinazione, responsabilità per noi avvocate significa vedere e ascoltare le nostre clienti o l’altra, quella che ci è di fronte e non è nostra cliente, per quello che sono – senza assumere pregiudizi a monte – senza presumerle sante o dannate, madri integerrime o madri disinteressate. Nel diritto di famiglia accade spesso, il pregiudizio è in agguato. Accade nei procedimenti volti a decidere sulla limitazione della responsabilità genitoriale anche quando è il padre ad avere commesso un reato di violenza. Il pregiudizio sulla madre riempie l’aria, occupa spazi si traduce in parole che tolgono libertà. Responsabilità significa anche che nei giudizi sulla violenza contro le donne, le avvocate (e i colleghi illuminati) devono f a r e s c u d o c o m u n e c o n t r o l a v i t t i m i z z a z i o n e s e c o n d a r i a , no n contribuire al suo radicamento. Ancora, nei confronti delle nostre colleghe avvocate, sorellanza significa vederle e ascoltarle sapendo che siamo portatrici di una battaglia comune che forse l’altra ancora non combatte: possiamo risvegliare l’appartenenza. Alcune amiche che sono qui con noi oggi mi hanno sentita alcuni giorni fa contestare l’uso del termine sorellanza per un concorso di scrittura femminile, perché lo ritenevo ormai in qualche modo “superato” – seppur non nella sostanza – ma nella forma. È da allora che continuo a pensarci. Ho capito che ho sbagliato: finché non avremo soffiato nuova vita dentro la parola “sorellanza” tanto da farla volare libera, sarà opportuno tenercela ben stretta. “Sorellanza” è una delle tre parole chiave d e l l a r e s p o n s a b i l i t à s o c i a l e dell’avvocata, insieme al “linguaggio declinato al femminile” e all’“apertura” nei confronti degli avvocati, uomini, “illuminati” o come si voglia chiamarli: nella sostanza uomini che rispettano le donne e che camminano accanto a noi, non sopra di noi. Quando si incontra la sorellanza, si sente la sua forza e si può anche volare, si spostano montagne. L’impossibile diventa possibile. Troppo spesso ancora però manca, non c’è, si nasconde è misconosciuta. Qualcuna insiste nell’affermare che la mancanza di sorellanza tra le colleghe avvocate ma anche tra le altre p r o t a g o n i s t e d e l p r o c e d i m e n t o giudiziario dipenda da gelosia e invidia che attanagliano il sesso femminile nel momento in cui una di noi ”ce la fa”: le altre, a differenza di quanto fanno gli uomini tra loro, non rispetterebbero colei che ha raggiunto la posizione di rilievo, non imparano da lei, magari la ostacolano. Credo che il male sia forse più grave e sia a monte: troppe ancora tra noi avvocate non sentono di avere con le a l t re d o n n e u n a c o m u n a n z a d i condizioni, di esperienze e di aspirazioni. Troppe tra noi ancora pensano che sia meglio occuparsi di altro che rimuovere ostacoli e pregiudizi di genere, o ancora, pensano che tutti i problemi siano ormai superati e che le donne ormai siano “arrivate”, “ce l’abbiano fatta”. In questo modo però si ostacola il cambiamento, si perpetua il pensiero che ingabbia, si contribuisce a rendere l’aria pesante. Arriviamo al linguaggio. La seconda parola chiave in cui si esprime la responsabilità dell’avvocata è il linguaggio declinato al femminile. Se le parole hanno lo scopo di rappresentare la realtà e veicolare i nostri pensieri, declinare al femminile le parole ci aiuta ad uscire dalla stanza angusta per affermarci nel mondo fuori. Eppure c’è ancora molta resistenza. Lo stesso termine “avvocata” è spesso c o n t e s t a t o d a l l e c o l l e g h e c h e preferiscono farsi chiamare avvocato. Esiste un rifiuto giustificato in tanti modi. La collega Pina Rifiorati individua tra le altre, due principali categorie di resistenza “alla declinazione al femminile[4]”. Una è quella delle “benaltriste” e dei “benaltristi”: coloro che dicono che ci sono problemi più importanti di cui occuparsi rispetto al linguaggio. L’altra è composta da coloro che sostengono che le declinazioni al femminile sarebbero cacofoniche: “Avvocata non si può proprio sentire”. Eppure – cito ancora Paola Di Nicola – “nella lingua non si nomina cosa non c’è e chi non c’è”. Le parole producono il cambiamento, declinarle al femminile produce nuovi significati. A r r i v a n d o a l l a c o n c l u s i o n e , responsabilità femminile è anche dialogo, è comunicazione. È sapersi “mettere in relazione”, incontrare l’altra e l’altro senza la paura di perdere me stessa. Siamo responsabili, siamo chiamate a rispondere, se ancora nel 2022 in una crisi familiare un’ avvocata fa prevalere il tradizionale modello maschile della sopraffazione (che più di un maschio “illuminato” ha già prima di lei abbandonato con soddisfazione). Siamo responsabili se continuiamo ad invocare la PAS in modo improprio, se confondiamo il conflitto e non vediamo la violenza. La responsabilità femminile delle avvocate chiede anche un’opera di tessitura delle relazioni con i colleghi “illuminati”: non tutti gli uomini sono uguali, non tutti sono consapevoli o i n c o n s a p e v o l i p o r t a t o r i d e l l a sopraffazione femminile, non tutti temono le donne, ci sono uomini “gentili” che accompagnano le donne e le rispettano, anche avvocati. Combattono con loro, per loro quando necessario. Sta a noi lasciare le porte aperte e costruire insieme. .. E sono molto contenta di lasciare finalmente la parola a due uomini!
[1] Corte Costituzionale sentenza n. n. 193 /2017 e poi n. 15/2021.
[2] R.Rigon su https://www.dirittocollaborativo.it/dialogo-con-la-consigliera-dicassazione-paola-di-nicola-travaglini-trieste-27-maggio-2022/ [3] Sempre R. Rigon [4] Nel corso “Politiche, istituzioni forensi e parità di genere” 2022.
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Stefano Motta, Responsabilità come didattica della concretezza (www.stefanomotta.net)
Nella scuola
Chi lavora nella scuola sa che il ventaglio degli aggettivi collegati alla parola “responsabilità” è ampio: agli operatori scolastici compete una responsabilità civile, penale, educativa, talora persino morale.
Se le prime due sono codificate, le seconde affondano le radici in un terreno fumoso, lasciato alla libera vocazione del singolo e talora, proprio per questo, sdrucciolevole.
Il bellissimo film grazie al quale moltissimi di quelli che oggi sono in cattedra ha scelto di fare questo lavoro, “L’attimo fuggente” ha prodotto anche più di un danno laddove lascia intendere che l’aspetto “vocazionale” debba prevalere su quello “professionale” nello svolgimento dell’attività di docenza.
So di dire una cosa provocatoria, ma mi avete invitato a parlare in quanto ex preside, docente e formatore di docenti che concorrono al ruolo, e dunque posso permettermi di lanciare qualche sassolino: io credo che la responsabilità di chi opera nella scuola si declini in modo concreto – come il titolo dell’evento di oggi – tanto più essa si libera degli aspetti volontaristici e rimane agganciata a un preciso profilo professionale.
Non c’è dubbio che la relazione educativa sia una relazione di cura, ma – credetemi – non c’è altrettanto alcun dubbio che ci si debba guardare dai docenti (permettetemi di dire “dalle docenti”, poiché l’ambiente lavorativo della scuola è molto femminilizzato e l’approccio che descrivo è legato più al genere femminile) che enfatizzano l’aspetto esclusivo e possessivo di questa relazione: da preside ho sempre guardato con sospetto gli insegnanti che dicevano “i miei alunni”, “la mia classe”, “io li tratto come se fossero i miei figli”. No. Non sono i tuoi figli: essere professionali significa sollevarsi da questa empatia identificante e scegliere il meglio per loro.
Se il mio chirurgo empatizzasse con me non mi inciderebbe col bisturi: a un professionista non chiedo carezze, chiedo capacità.
Che poi gli strumenti della didattica non siano il bisturi ma le parole è vero. Ma non è vero che non siano affilate: le devo saper usare in modo professionale per fare del bene e non del male. Questo è il discorso vero.
Chiunque la eserciti, la professione docente porta con sé un talento tutto femminile che è quello di poter e saper generare, nel senso maieutico del termine.
Aveva ragione Socrate: ogni docente è più un’ostetrica che un insegnante. Non impone un segno, non dà una direzione: aiuta ciascuno a portare alla luce un dono, un talento, una vita che porta già dentro.
Oggi si parlerebbe di coaching o di scaffolding on demand, ma io ho fatto studi classici e preferisco il greco di Socrate.
Nella letteratura
Mi avete invitato anche in veste di scrittore, e anche in questo ambito mi piace darvi qualche spunto di discussione.
Le case editrici che oggi redigono libri di testo, storie della letteratura e manuali per le scuole ormai sono tutte attente a garantire, all’interno del cosiddetto “canone” della letteratura, anche una sorta di equilibrio di genere.
Capita spesso di ricevere copie-saggio di nuovi manuali in cui è specificato bene in vista che si tratta di opere “inclusive”, con uno spazio significativo lasciato alle scrittrici, una sorta di quota rosa della letteratura.
Io trovo che sia un errore.
Cosa vuol dire immaginare una letteratura al femminile? Scrivere da donne? Scrivere di donne? Scrivere per le donne?
Non basta scrivere bene?
In letteratura il genere indica caratteristiche di stile e contenuto: per quanto oggi queste distinzioni siano molto liquide, si parla ancora spesso di genere giallo, di genere fantascientifico, noir, thriller, rosa.
Conosco molte scrittrici che mal digeriscono i lanci di agenzia o le interviste in cui, parlando dei loro romanzi, si fa leva sul fatto che siano scritti da una donna. Chiunque svolga e ami una professione vuole essere apprezzato per il suo talento, non per i suoi attributi sessuali.
Se è vero che la letteratura è stata per secoli appannaggio di penne maschili, è altrettanto vero che grandi uomini ci hanno raccontato grandi storie di donne. Penso alla rinfusa alla Marina di Malombra di Fogazzaro, alla Clelia di Stendhal, a Emma Bovary di Flaubert, alla Gertrude manzoniana, alla Jole di Matteo Righetto e alla protagonista di “Italiana” di Giuseppe Catozzella, per citare scrittori non solo morti. Alla mia Lisette desaparecida, se volete, del mio ultimo romanzo “Habeas corpus” sulla dittatura argentina.
Diceva nel suo intervento Ignazia Satta che la professione legale vive ancora di un appiattimento sul modello maschile tanto nel lessico quanto negli aspetti più pratici della retribuzione. La letteratura e l’editoria moderne sono invece un caso felice dove molte donne ce l’hanno fatta, per meriti artistici e per null’altro.
Parafrasando Wilde dirò che non esistono scrittori maschi e scrittori femmine, esistono scrittori bravi e scrittori no. Uno scrittore non è i suoi attributi sessuali: è i libri che ha letto, i maestri che ha avuto, le ferite che porta dentro. Se tutto questo riesce a generare arte, allora è uno scrittore bravo, allora ciascuno è un poeta, che finisce con la “a” e non ha bisogno di essere rideclinato al femminile: Alda Merini amava definirsi “la poeta”, e la letteratura italiana non conosce una poeta più grande di lei.
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Carmine Marinucci, Presidente Associazione internazionale #DiCultHer (carmine.marinucci@diculther.eu)
Ringraziamenti davvero speciali ad Isa Maggi per questi importanti incontri.
Due parole sull’associazione #DiCultHer. Nata nel marzo 2015, l’Associazione non ha finalità di lucro e in coerenza con il Codice del Terzo Settore persegue finalità della promozione della Cultura Digitale per concorrere alla formazione delle competenze nel settore del Digital Cultural Heritage e per garantire contesto e sviluppi attuativi al «diritto di ogni cittadino ad essere educato alla conoscenza e all’uso responsabile del digitale per la promozione e valorizzazione del Patrimonio Culturale e dei luoghi della cultura.
- ) Il tema del diritto di ogni ragazzo e ragazza ad essere educato alla conoscenza e all’uso responsabile del digitale, la lotta alla disinformazione e ad altre forme di interferenza nel dibattito democratico, nonché l’alfabetizzazione mediatica rappresentano gli obiettivi delle azioni di #DiCultHer sia per la promozione della Cultura Digitale, sia e soprattutto per superare il semplice utilizzo delle tecnologie digitali in funzione meramente abilitante, ovvero come strumenti atti a favorire processi di semplice aggiornamento e digitalizzazione dell’esistente;
- ) “Cultura digitale” che rappresenta oggi un ambito privilegiato per sostenere un uso profondo e innovativo della “cultura” come prospettiva e prassi interdisciplinare e come capacità di assumere e integrare punti di vista differenti sulla realtà, per produrre pensiero critico e un impegno responsabile e adeguato a rispondere alle sfide della modernità e del post pandemia in particolare che dobbiamo saper affrontare anche in relazione del nuovo Bauhaus Europeo che mostra la direzione per la transizione sostenibile dell’Europa. Cultura digitale al centro della Nuova Agenda Europea della Cultura che per la prima volta assegna alla cultura un ruolo chiave nell’affrontare sfide sociali come la promozione della salute e del benessere, la coesione sociale e la promozione della diversità, l’innovazione socialmente sostenibile e l’educazione inclusiva.
- ) La recente revisione del Manifesto Ventotene Digitale (ed. 2021) ([1] https://www.diculther.it/manifesto-ventotene-digitale-2021/) ], sottoscritto anche da Stai Generali delle Donne e promosso da #DiCultHer nel 2017 quale contributo di #DiCultHer all’anno europeo del Patrimonio culturale (2018), sottolinea il crescente ruolo del digitale nello sviluppo dell’Unione e quanto la cultura digitale sia una delle fonti di conoscenza necessarie per i cittadini europei del presente e del futuro. Il documento-Manifesto lavora ad un piano di innovazione dell’educazione in quanto il ‘sapere’ digitale sta offrendo occasioni di ri-configurazione complessiva delle entità e dei luoghi culturali come ‘eredità e luoghi comuni’, assumendo valenza metodologica, strutturale e di contesto e la sua introduzione ha favorito e sta favorendo l’emergere di occasioni strategiche di riorganizzazione dei saperi, di apertura alle entità e ai contenuti, di accesso alle forme stesse del contemporaneo.
- ) Sempre di più la tecnologia, la messa in rete dei corpora documentari, permettono un uso sistemico del patrimonio culturale in una prospettiva di rafforzamento del legame studenti, docenti, specialisti, conservatori, scuola e territorio, con ricadute forti sull’ampliamento dello spazio scolastico così come degli strumenti messi a disposizione della didattica. Questo ‘ampliamento’ dello spazio scolastico rende possibile oggi poter ragionare in termini nuovi non solo dell’uso didattico del Patrimonio culturale, ma anche dei linguaggi da utilizzare in rapporto ad esso.
- ) Preservare, promuovere e condividere il patrimonio culturale per riaffermare la ricchezza, la varietà e la molteplicità delle culture e dei “paesaggi sociali e culturali” nazionali ed europei nello sforzo di realizzare uno spazio pubblico, sociale e comunicativo in grado di riaffermare con chiarezza il valore dell’essere Persone, il valore dell’essere Cittadini, il valore di essere e far parte di quell’importante visione che si chiama Europa sono alcuni degli obiettivi che l’Associazione #DiCultHer persegue.
- ) Ripartire dalla cultura come bene comune e come condivisione “per ridisegnare la prospettiva di interventi in direzione del rafforzamento dell’identità europea e del suo sviluppo sociale, nella vita, nel lavoro, nella condivisione dei valori comuni”, ma anche e soprattutto per favorire la conoscenza approfondita dell’uso consapevole e responsabile del Web, delle tecnologie ad esso collegate e degli strumenti e tecniche di comunicazione rese disponibili dal digitale per una comunicazione eticamente efficace.
- ) Ripartire dalla cultura come bene comune e come condivisione è stato quindi il messaggio guida che identifica le istanze stesse che hanno portato all’elaborazione e realizzazione del progetto #DiCultHer sin dal 2015, ritenendo assolutamente prioritario per i propri obiettivi offrire al Paese, e al mondo dell’istruzione in particolare, le proprie riflessioni nella consapevolezza che il coinvolgimento consapevole dei giovani e dei loro docenti sia prioritario per renderli protagonisti, responsabili, nei processi di costruzione identitaria e di cittadinanza attiva. Restituire quindi ai giovani la consapevolezza di quanto sia importante riappropriarsi della titolarità culturale partecipata della propria eredità culturale ripartendo proprio dal riconoscimento del valore della “Cultura Digitale”.
- ) ‘Titolarità culturale’ che per noi definisce il processo, e la condizione che ne deriva, in cui individui e comunità acquisiscono una progressiva consapevolezza e attuano una presa in carico dell’eredità culturale che ricevono dal passato. Tale processo mira a far acquisire e far riconoscere ‘titolo’ agli individui e alle comunità a essere pienamente responsabili dell’eredità culturale, a sentirsene ‘parte’, a sentirla ‘propria’ e a esercitare, superando la posizione di ‘fruitori’ del patrimonio, il ruolo di attori della promozione della sua tutela e della sua valorizzazione.
- ) Una sfida tra creatività digitale, arte e Humanities e tra sviluppo sociale e lavoro, da affrontare favorendo l’introduzione al pensiero logico e computazionale e la familiarizzazione con gli aspetti operativi delle tecnologie informatiche quale naturale evoluzione indispensabile a favorire un approccio che pone alla base dell’innovazione la rimozione delle barriere disciplinari, per guidare l’attitudine al cambiamento verso la consapevolezza che il digitale, dopo esserne stato una formidabile leva, può diventarne il motore alimentato da un’energia realmente sostenibile: la conoscenza.
- ) Nella visione #DiCultHer, le attività di Educazione finalizzate a riconoscere il digitale nel valore di eredità culturale e patrimonio culturale dell’inizio del nuovo millennio rappresentano una opportunità per restituire ai nostri giovani la piena consapevolezza del loro ruolo nella modernità, essenziale nel raggiungere obiettivi di crescita sociale, culturale, economica.
- ) Le sfide che ci attendono come cittadini europei, come la crisi climatica, la creazione di economie verdi, la trasformazione digitale delle nostre società, ci autorizzano a porci la domanda: “Come possiamo assicurare collettivamente che i principi fondanti dell’integrazione (libertà, uguaglianza, rispetto dei diritti umani, stato di diritto e libertà di espressione, solidarietà, democrazia e lealtà fra gli Stati membri) restino rilevanti per il nostro futuro?”. Le risposte e le indicazioni ci vengono dalla discussione innescata nell’ottobre 2020 dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen per un nuovo Bauhaus europeo e con la “Conferenza sul Futuro dell’Europa” avviata il 9 maggio 2021, Festa dell’Europa, nonché dall’intima consapevolezza “che sarebbe molto difficile per ciascuno di noi se fossimo da soli”. Da soli anche nell’affrontare quelle carenze culturali di fondo che eludono i valori della conoscenza, delle competenze individuali, della ricerca, l’educazione, la cui importanza, invece, è stata ampiamente rimarcata sia nell’edizione 2017 del Manifesto “Ventotene Digitale”, sia nella sua revisione nel settembre 2021, e ribadita nella Carta di Pietrelcina per l’Educazione all’Eredità Culturale redatta nel 2019 (https://www.diculther.it/blog/2020/01/01/carta-di-pietrelcina-sulleducazione-alleredita-culturale-digitale/) .
- ) Futuro dell’Europa, nuovo Bauhaus europeo, Manifesto Ventotene digitale, invito “ad unirsi alla discussione e a trovare insieme il percorso da seguire”, rappresentano pertanto lo scenario culturale di riferimento di #DiCultHer ed in particolare sono stati gli obiettivi della sua programmazione delle attività per l’a.s. 2021-22 e gli obiettivi per riappropriarsi della titolarità partecipata all’Europa ripartendo dalla Cultura come bene comune, nello spirito della Convenzione di Faro. Scenario culturale che pone al centro la ‘creatività’ dei giovani nella strutturazione della nuova Cultura Digitale per innovare nell’educazione al patrimonio e di intercettare allo stesso tempo le emergenze di settore “come diritto individuale e collettivo e come impegno comune nell’elaborare una costruzione di senso intorno al patrimonio culturale in grado di produrre consapevolezza dei significati e gestione sostenibile delle risorse”.
- ) Dotare le nuove generazioni della conoscenza sia delle dimensioni e dei valori rinnovati assunti dell’Eredità Culturale tangibile e intangibile, sia del più vasto universo del nuovo Digital Cultural Heritage attraverso l’integrazione fra saperi umanistici tradizionali e conoscenze di metodi e tecniche computazionali nella strutturazione della nuova Cultura Digitale, è parte essenziale dell’impegno civile che #DiCultHer si è assunta per il futuro dei nostri ragazzi. In questo senso, diritto all’istruzione, accesso alla cultura, sovranità culturale-epistemologica, sono istanze e sono le istante generatrici di nuovi principi quanto mai importanti e fondamentali, come quello della TITOLARITÀ’ CULTURALE esercitata con diritto e la “Presa in carico” di una responsabilità comune e condivisa rispetto a un bene comune, sia a ciò che ereditiamo dal passato, sia a ciò che abbiamo la possibilità di progettare e co-creare oggi nell’ambito degli ecosistemi culturali in cui viviamo, sperimentiamo ed esercitiamo, con la prospettiva di lasciare a nostra volta questa eredità a chi verrà dopo di noi.
- ) In questa direzione, governare e valorizzare la produzione e distribuzione di conoscenza, nonché la creatività digitale, è la sfida del nostro tempo. Il sistema educativo e formativo ne sono al centro, nella ricerca di una mediazione tra la necessaria garanzia di qualità delle riflessioni, degli insegnamenti della produzione dei materiali didattici e l’altrettanto necessaria promozione della produzione collaborativa e della condivisione di contenuti, per dare ai nostri studenti le chiavi di lettura del futuro. Le competenze di “alfabetizzazione” sono oggi prerequisiti, ed è possibile avviarci in visione olistica ed interdisciplinare, sui nuovi paradigmi nella Digital Culture, che suggeriscono di procedere alla sua co-creazione condivisa e partecipativa, strutturata in processi formativi articolati in long life learning intesi come implementazione di insiemi integrati di approcci scientifici, culturali e formativi, di processi, metodi e tecniche finalizzate alla costruzione di un sistema di competenze digitali consapevoli (e responsabili), abilitate alla gestione, co-creazione, salvaguardia, conservazione, sostenibilità, stabilità, trasferimento, accessibilità e valorizzazione dei dati e delle entità culturali digitali contemporanee e future.
- ) Le prospettive di lavori di #DiCultHer. L’idea di fondo, è quella di “un piano complessivo di innovazione dell’educazione e della valorizzazione del patrimonio” nelle sue diverse forme e articolazioni: paesaggistico, artistico, culturale, etnoantropologico, ecc. centrato sull’engagement delle fasce giovanili della popolazione per “farsi carico” dei territori, in attuazione della Convenzione di Faro, attraverso una visione e progettazione sinergica di attività nel campo del digitale, della cultura, dell’educazione, che riconosce nella partecipazione studentesca il segno di una scuola moderna e al digitale il suo autentico ruolo di facies culturale dell’epoca contemporanea per raccogliere la straordinaria eredità culturale e storica del nostro Paese e dell’Europa e rimodellarla grazie alla creatività delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi e al coinvolgimento delle «comunità patrimoniali», nello spirito della Convenzione di Faro, per fare in modo che si sentano realmente titolari del patrimonio culturale e investiti della responsabilità che ne consegue per la tutela e la sua valorizzazione.
[1] Isastia A. M. (2021). Una rete di donne nel mondo. Roma: edizioni di Storia e Letteratura. Pag. 15