Le dimensioni tradizionali appartenenti al mondo adulto come il senso critico, la consapevolezza e la responsabilità delle proprie azioni, oggi sembrano essere messe all’angolo e lasciate da parte di fronte all’avanzare di tecnologie che spingono l’utente, in particolare i più giovani, a una sempre più scarsa percezione del limite, caratteristica di una realtà sempre più somigliante a sfide che attraversano sia il mondo del lavoro sia il mondo del tempo libero. Gli individui/utenti assomigliamo a eterni bambini digitali dopo che la rivoluzione tecnologica ha modificato il concetto di identità sociale e personale; i social network hanno contribuito attraverso un neo linguaggio costituito soprattutto da immagini, non solo a un’infantilizzazione degli adulti, ma a un abbassamento generale dell’alfabetizzazione culturale ed emotiva. La nuova concezione di cultura digitale emersa con il web 2.0, grazie a un uso incontrollato delle informazioni, a una fiducia quasi mistico-religiosa nell’infallibilità dei motori di ricerca e a una deresponsabilizzazione dell’atto comunicativo, ha diffuso una autoreferenzialità del sapere e dell’apparenza che ha consacrato il cosiddetto narcisismo digitale.
Il web 2.0 e non il web tout court, avrebbe cioè compiuto quello che Baudrillard ha efficacemente chiamato il “delitto perfetto”, ovvero l’uccisione della realtà e di una certa idea di cultura: «Viviamo nell’illusione che sia il reale a mancare maggiormente, mentre invece la realtà è al suo culmine. A furia di performance tecniche siamo arrivati a un tale grado di realtà e di oggettività da poter addirittura parlare di un eccesso di realtà che ci lascia molto più ansiosi e sconcertati della mancanza di realtà». Dunque, parafrasando il pensiero del filosofo francese, il web partecipativo, fatto di blog, video-audio-foto sharing, chat e podcast, facilita la creazione di prodotti autoreferenziali, un universo di autocitazioni base essenziale per la formazione di un narcisismo patologico digitale, ovvero una particolare forma di narcisismo legata alle nuove tecnologie e al web, simile all’egosurfing, uno smoderato culto della personalità, dell’apparenza e dell’esibizione sul web (complici le applicazioni web 2.0).
Ciò che emerge dall’uso smodato e quotidiano delle piattaforme di condivisione è non solo il culto di un narcisismo patologico (a cui ho accennato nell’articolo della scorsa settimana), ma anche di un emergente spirito ludico (da cui il concetto di gamefication) che, sotto la spinta della forte soggettività nel mondo del lavoro, porta gli individui a rinchiudersi in una bolla, una specie di corazza protettiva e a trasformare lo spirito del gioco, come insegnatoci da Huizinga, in una razionalizzazione e in una commercializzazione dello stesso gioco in lavoro. Rapportarsi ai device significa allora mischiare spirito di competizione, attività lavorativa ed elementi ludici, liberandoci di ciò che Baudrillard definiva “il peso della volontà”: «cervello e tecnologie umane confusi, convergono in una volontà di massimizzazione del capitale-tempo, del capitale-vita, in cui si annientano tutti i margini, tutte le zone franche».
* Su gentile concessione di Internationalwebpost